Apocalisse di fuoco? Proposte per la politica e la teologia

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teologia

“Vivresti effettivamente come sostieni si dovrebbe vivere?” (Alexander Langer, 4 marzo 1990)

“Che cosa ci permette di sopravvivere? Quali sono i nostri mezzi di sussistenza? Come sono minacciati tali mezzi di sussistenza? Cosa siamo pronti a fare? Perché? Che cosa stiamo facendo per resistere? […] Nei nostri atelier avviene la condivisione collettiva delle descrizioni delle nostre condizioni di vita: è il primo passo verso un’articolazione politica, per poter esprimere interessi comuni. Abbiamo organizzato questi atelier in moltissimi contesti: comuni, parrocchie, nelle città, in campagna… All’inizio i partecipanti affermano di sopravvivere grazie a cose completamente astratte, ma, alla terza o quarta ripetizione, esse diventano cose concrete” (A. Spadaro, La terra grida. Intervista a Bruno Latour, La Civiltà Cattolica 4125, 300).

Negli ultimi mesi in Italia e all’estero alcuni giornali hanno commentato quello che avveniva in alcuni territori martoriati dal caldo, dagli incendi, dalla distruzione di ettari di boschi, terreni e case, dalle necessarie fughe di centinaia e migliaia di persone attraverso l’espressione “apocalisse” di fuoco.

Apocalisse, certo, nel senso di un evento che segna la fine di una qualche porzione di mondo[1] o la percezione di un’interruzione repentina dell’esistenza in alcuni territori[2], ma anche probabilmente nel senso di rivelazione da ascoltare e messaggio da comprendere.

Ad uno sguardo un minimo attento, molti fenomeni risultano, oggi più che mai, interconnessi e correlabili[3]: il nuovo regime climatico, la penuria d’acqua, gli incendi, le crisi politiche, le guerre, il dramma dei migranti e dei rifugiati, le molte ingiustizie sociali e civili.

La Laudato si’ – insieme a molti altri autori e autrici – ha da tempo mostrato tale connessione tra ingiustizia verso i poveri e ingiustizia climatica, tra grido della terra e grido dei poveri. In tale quadro pare sentirsi diffusamente il bisogno di parole oneste, verificate dall’esperienza e corrispondenti alle azioni, capaci di orientare l’azione sociale e politica verso un futuro vivibile e abitabile per tutti e non solo per alcuni privilegiati.

Per tale motivo ci pare importante rendere disponibile un bel testo di Giorgio Marcello su Giustizia sociale e giustizia ambientale (qui), che rilegge oggi un breve libro del filosofo ed antropologo Bruno Latour, Tracciare la rotta, Milano 2017.

Si tratta di una analisi serrata della crisi economica ed ambientale con la correlativa crescita delle disuguaglianze e con la constatazione che le categorie consuete della modernità sono inabili a decifrare ed orientare l’azione.

Diversi anni fa Paolo Prodi lo aveva anticipato con la sua molteplice riflessione storica: stiamo entrando in tempi davvero nuovi in cui le sintesi moderne sono entrate in crisi e si ha bisogno di categorie e chiavi di lettura rinnovate[4].

In tale contesto in cui si constata che “le bussole dei moderni hanno smesso di funzionare” Latour mostra in maniera eloquente come la bussola ideologica e il modello politico rappresentato da Trump mostri una patologia diffusa della politica ossia una sorta di fuga metodica nell’irrealtà, nella sottovalutazione intenzionale dei problemi ambientali e dei conflitti bellici, attraverso una negazione della terra e dei problemi effettivi delle persone e delle società.

Bisogna qui comprendere qual è la strada da non prendere, da non percorrere come singoli e collettività. In rapporto a questo la riflessione di Latour procede invitando tutti e tutte ad “atterrare sulla terra”[5], a “scendere giù in mezzo agli uomini”[6], a ri-sensibilizzarsi, a comprendere – personalmente e collettivamente – da cosa dipendiamo e cosa ci fa vivere, a uscire da un paradigma estrattivo e produttivo per entrare in una visione più rispettosa e generativa.

Per Latour – e per il commento di Marcello – queste non sono solo una serie di idee, ma sono proposte di riflessione e di pratiche collettive. Infatti di fronte al complesso di problemi attuali: “si tratta di sapere non come rimediare agli errori del pensiero, ma come condividere la stessa cultura, far fronte alle medesime sfide, rispetto a un paesaggio che può essere esplorato insieme. Si ripresenta qui il solito vizio dell’epistemologia che consiste nell’attribuire a deficit intellettuali ciò che è molto semplicemente un deficit di pratica comune”.

Tale modo di procedere ci pare essenziale per ripensare la prassi politica e di riflessione sociale, ma a ben vedere rappresenta anche un tema importante per la teologia e l’etica cristiana[7].

Crediamo, infatti, che la riflessione teologica sia storicamente chiamata a uscire dai recinti consueti per poter dare un contributo alla decifrazione dell’attuale “apocalisse”[8] e per poter lavorare – in maniera omogena al senso di giustizia e pace del regno di Dio – alla costruzione progressiva di un mondo comune abitabile, adesso e in futuro, da tutti e tutte.


[1] Cf. G. Viale, I fenomeni irreversibili della catastrofe climatica, in Il Manifesto del 23 luglio 2022.

[2] Cf. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino 2019.

[3] Cf. M. Prodi, State pronti, in Bo7-Avvenire del 24 luglio 2022.

[4] Cf. M. Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, Bologna 2020.

[5] Cf. B. Latour, Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, a cura di N. Manghi, Torino 2019.

[6] Cf. S. Luzzatto, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Torino 2021. Ringraziamo per la segnalazione Giovanni Battista Beretta.

[7] Si veda http://www.settimananews.it/cultura/bruno-latour-rilettura-teologica/ e Dossier di RTE n.51 su Bruno Latour  https://www.fter.it/riviste/

[8] Cf. G. Dossetti, Il Signore della gloria. Un discorso su conversione e storia, Trapani 2021.

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