Fine dei Romanov: fra Tichon e Cirillo

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processione

A 100 anni dall’assassinio di Nicola II e della sua famiglia, il 16-17 luglio, il patriarca Cirillo e l’intero sinodo hanno celebrato una solenne liturgia a Ekaterinburg. L’anniversario della fine del casato dei Romanov, durato tre secoli, è stato l’occasione per sostenere le posizioni slavofile anti-occidentali, per confermare l’urgenza dell’unità della Chiesa ortodossa (davanti alla richiesta di autocefalia degli scismatici ortodossi di Ucraina), per salvaguardare la «sinfonia» fra Chiesa e potere politico attuale.

La notte fra il 16 e il 17 luglio 1918 l’intera famiglia imperiale, moglie e cinque figli, è sterminata nella cantina di casa Ipat’ev a Ekaterinburg dove erano prigionieri dei soviet. I corpi sono trasportati a una ventina di chilometri, spogliati e tagliati a pezzi, e poi gettati un pozzo a Ganina Jama.

Dopo un secolo, una solenne liturgia, presieduta dal patriarca e concelebrata da 33 vescovi, si è protratta per tutta la notte e 100-120.000 persone hanno accompagnato il corteo dalla «chiesa dei martiri», sorta nel luogo dell’eccidio, fino a Ganina Jama dove i resti sono stati trovati nel 1979. Lì è sorto un monastero dedicato allo zar e alla memoria del suo martirio.

La grande folla proveniva da tutte le regioni del paese, ma anche dall’estero: Azerbaigian. Australia, Austria. Bielorussia, Bulgaria, Gran Bretagna, Germania, Kazakhistan, Cina, Moldavia, Nuova Zelanda, Serbia, Stati Uniti, Ucraina, Francia, Estonia, Corea, Giappone. Moltissime le icone e i ceri votivi con un ritratto dello zar di oltre due metri. 25 gruppi di servizio, cucine da campo e presidi medici hanno garantito i pellegrini.

Lenin e Trotzkij

Dopo la scoperta dei resti, l’allora potere comunista rase al suolo la casa Ipat’iev. Sul luogo sorse una croce, poi nel 1996 si inizia a costruire una grande chiesa, cattedrale della città, dedicata ai martiri. Nel 1995 sorge il monastero a Ganina Jama. Nel 1981 la Chiesa ortodossa oltre-frontiera (avviata dagli esuli della Rivoluzione d’ottobre) proclama la santità dello zar. La Chiesa ortodossa russa lo proclama santo assieme ai suoi famigliari nel 2000. Due anni prima i resti imperiali hanno solenne sepoltura nella cattedrale di Ekaterinburg.

Il 18 luglio del 1918, durante una seduta ordinaria del Consiglio dei commissari del popolo a Mosca, mentre il commissario alla sanità legge un progetto di legge, J.M. Sverdlov annuncia: «Compagni, secondo le informazioni che ci sono arrivata da Ekaterinburg, Nicola è stato giustiziato, in conformità con la decisione presa dal soviet regionale». Lenin ascolta e, senza dare alcun rilievo alla notizia, continua l’ordine del giorno. Trotzkij, allora commissario del popolo alla guerra, commenterà: «La severità di questo atto sommario provava al mondo che eravamo determinati a continuare la lotta, implacabilmente, senza fermarci davanti a nessun ostacolo».

Il fatto che commissario alla «casa Ipat’ev» fosse il comunista ebreo J. Jurovskij, diretto responsabile degli omicidi, ha dato spazio a una interpretazione dell’eccidio come sacrificio rituale. Voce tanto insistente, quanto gratuita, che ha comunque giustificata una apposita commissione speciale nel 1998.

Tichon: guai a voi!

A distanza di un secolo è utile citare due voci della Chiesa russa, una all’indomani dell’eccidio e l’altra in occasione del centenario. La prima è dell’allora patriarca Tichon: «In questi giorni è stato commesso un orrendo misfatto: è stato fucilato l’ex-sovrano Nikolaj Aleksandrovič, e le nostre supreme autorità, il nostro governo, il comitato esecutivo l’hanno approvato e riconosciuto legittimo (…). Ma la nostra coscienza cristiana, guidata dalla parola di Dio, non può accettare una cosa del genere. Noi dobbiamo, obbedendo all’insegnamento della parola di Dio, condannare questo fatto. Altrimenti il sangue dei fucilati ricadrà su di noi, e non solo su quanti hanno commesso questo gesto. Ci chiamino pure contro rivoluzionari, ci gettino pure in carcere, ci fucilino pure. Noi siamo pronti a sopportare tutto questo». Una posizione netta. Formalmente non contro la legittimità del governo dei soviet, ma certo dura nei confronti della violenza rivoluzionaria.

Poche settimane dopo, il 26 ottobre 1918, in una lettera al soviet dei commissari del popolo confermava la denuncia: «Avete diviso il popolo in due campi nemici e l’avete inabissato in una guerra fratricida d’una crudeltà sconosciuta fino ad oggi. Avete apertamente sostituito l’amore del Cristo con l’odio e come pace avete artificiosamente alimentato la lotta di classe. E non si vede la fine della guerra che avete scatenato, perché vostro scopo è procurare il trionfo della rivoluzione mondiale per opera di operai e contadini russi». «Oggi, a voi che fate uso del potere per perseguitare i vostri prossimi e annientare gli innocenti, rivolgiamo queste parole di esortazione: segnate l’anniversario della presa del potere ridando la libertà ai prigionieri, arrestando lo spargimento del sangue, le violenze, i saccheggi, le persecuzioni contro la fede: volgetevi non verso la distruzione, ma verso l’edificazione dell’ordine e della legalità, date al popolo il riposo che desidera e che ha meritato dopo la lotta fratricida».

Cirillo: perché è successo?

Il 17 luglio 2018 il patriarca Cirillo così si rivolge alla folla dei pellegrini a Ekaterinburg: «Il crimine ricordato ravviva fino ad oggi la nostra coscienza, obbliga i nostri pensieri a riandare a quello che è successo con il nostro Paese e il nostro popolo e, nello stesso tempo, a sforzarci di comprenderlo. Da dove è giunto questo turbamento dello spirito, questa disgrazia? (…) Dietro il crimine c’è qualcosa, una sorta di sbaglio collettivo di un popolo intero, un tornante nella vita storica della santa Russia che ha precipitato il popolo in un vicolo cieco terribile (…). Sappiamo che nel corso almeno dei 200 anni precedenti alla tragedia della casa Ipat’ev, sono avvenuti alcuni cambiamenti nella coscienza della gente che, lentamente ma inesorabilmente, condussero molti all’apostasia, all’oblio dei comandamenti, alla perdita di un legame spirituale reale con la Chiesa e la tradizione spirituale secolare. Perché è successo al nostro popolo? Perché, ad un certo momento, ha imitato un treno il cui conducente non ha tenuto conto della velocità e si è spinto in una curva a gomito precipitando nella inevitabile catastrofe? Quando, come popolo, siamo entrati in questo tracciato? Lo abbiamo fatto quando pensieri di altri, ideali di altri, la percezione di un mondo diverso, costruiti attraverso l’influenza di teorie filosofiche e politiche che non avevano niente da condividere con il cristianesimo e con la nostra tradizione e la nostra cultura nazionale, hanno cominciato ad essere fatti propri dei ceti intellettuali, aristocratici e persino da una parte del clero come fossero un pensiero avanzato, in grado, se condiviso, di cambiare, migliorandola, la vita del popolo».

«A un certo momento, rinunciando alla primogenitura spirituale e perdendo il legame reale con la Chiesa e con Dio, i ceti intellettuali, aristocratici e, come ho già detto, una parte stessa del clero conobbero un accecamento dello spirito, infettato dal pensare necessario un cambiamento radicale del corso della storia nazionale e si sforzarono il più rapidamente possibile di costruire un mondo di equità, senza stratificazioni sociali in ordine al possesso dei beni, dove la gente vivesse in tranquillità e nel benessere. Molti, travolti da questo pensiero sono arrivati fino a commettere dei crimini (…). Dobbiamo capire la tragedia del passato e sviluppare la nostra immunità ad ogni appello alla felicità umana ottenuta attraverso la distruzione di quello che esiste». «Ammaestrati dall’amara esperienza dobbiamo alimentare in noi una ferma avversione ad ogni idea, ad ogni dirigente, che propongano, attraverso la demolizione della nostra vita nazionale, delle nostre tradizioni e della nostra fede, ad aspirare ad un preteso e incerto “avvenire radioso”».

No all’Occidente, sì a Putin

Molte le sintonie, ma anche le differenze fra le due posizioni. La più evidente: Tichon si contrappone ai soviet e alla rivoluzione, Cirillo denuncia una corrente culturale e spirituale «filo-occidentale» da cui sarebbe emerso il fantasma della violenza rivoluzionaria.

L’attuale patriarca non denuncia il comunismo, ma la cultura occidentale nata dall’illuminismo volterriano che ha trovato consensi in molti pensatori russi: da Belinskij a Černyševskij, da Dobroljubov a Herzen, fino a Lev Tolstoj. Ad essi si contrapposero Dostoevskij, Florenskij e Berdjaev. Un confronto culturale molto più utilizzabile nell’attuale dibattito che vede l’ortodossia russa duramente critica nei confronti del pensiero laico occidentale, dei diritti individuali e della secolarizzazione.

Cirillo non ha alcun interesse a contrapporsi all’erede della polizia segreta rivoluzionaria (Ceca) – a cui si addebita l’eccidio dei Romanov – e del successivo KGB, Vladimir Putin, né intende operare un’accurata revisione storica. Guarda molto più al presente che al passato, recuperando le frange conservatrici filo-monarchiche e slavofile e rafforzando la Chiesa ortodossa come patrimonio inaggirabile della storia russa. Nella convinzione che solo la sua Chiesa sia in grado di ovviare allo svilimento del cristianesimo occidentale garantendo un futuro cristiano al continente.

Una seconda preoccupazione attraversa l’evento della memoria imperiale: quella dell’unità della Chiesa ortodossa. Se dopo la rivoluzione la Chiesa è stata attraversata da molti scismi addebitabili sia agli «innovatori» filo-rivoluzionari, sia alle Chiese della diaspora, oggi la minaccia maggiore viene dall’Ucraina dove la domanda di autocefalia delle due Chiese ortodosse scismatiche minaccia il cuore storico della Chiesa russa, Kiev. Non casualmente a Ekaterinburg è stata sottolineata il 1030 anniversario della fondazione della Chiesa russa a Kiev ed è stato dato ampia risonanza alla presenza del vescovo Onufri, vescovo della capitale ucraina, la Chiesa ortodossa locale rimasta fedele a Mosca.

Durante le giornate commemorative a Ekaterinburg, il capo del dipartimento sinodale per le relazioni con la società e i media, Vladimir Legojda, ha annunciato che la Chiesa ortodossa russa non avrebbe espresso alcun parere sull’autenticità dei resti mortali della zar e dei membri della sua famiglia. Prima dovranno essere completate le analisi forensi, genetiche, antropologiche e storiche. Il patriarca Cirillo ha più volte ripetuto – come ha dichiarato Legojda in un’intervista alle Izvestija – che la Chiesa su questo problema non può permettersi alcun errore. Allo stato attuale, un’analisi scientifica dei resti mortali può garantire soltanto una certezza del 70-80%, ma alla Chiesa interessa giungere ad avere il 100%.

In occasione delle giornate commemorative, il sindaco della metropoli degli Urali, Yevgeny Roizman, attraverso l’ambasciata di Mosca, ha invitato a Ekaterinburg anche la famiglia reale britannica poiché le famiglie Romanov e Hannover/Windsor – quindi anche lo zar Nicola II e il re Giorgio V – erano strettamente imparentati tra di loro.

Alcuni giorni prima di Ekaterinburg è stata benedetta sull’isola di Wight, sulla costa della Manica, una croce in granito con un rilievo in bronzo dei martiri imperiali. La benedizione è stata impartita dal vescovo Irinej (Steenberg) di Sacramento, il quale appartiene alla Chiesa russa della diaspora (ROCOR), e oggi di nuovo in piena comunione con il Patriarcato di Mosca. Lo zar e la sua famiglia nel 1909 erano stati ospiti, nell’isola, del re Edoardo VII. Il vescovo Irinej durante la solenne liturgia ha ricordato che Nicola e la sua famiglia non costituivano in primo luogo un gruppo politicamente significativo di persone da onorare, ma una famiglia di martiri che hanno testimoniato Dio vita e in morte.

anniversario romanov

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