Sanremo: elogio della singolarità

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Un festival “singolare” non poteva che concludersi in maniera alquanto sorprendente e inattesa, attribuendo il primo posto del podio ai giovani della rock band romana Maneskin (termine danese che significherebbe “chiaro di luna”), che sono saliti alla ribalta grazie al programma X-Factor di Sky che va alla ricerca di nuovi talenti musicali.

La kermesse ha avuto alti e bassi, come sempre, dall’irritante e per alcuni blasfema provocazione alla tenerezza dei sentimenti. L’indignazione sacrosanta di chi considera calpestati i simboli della propria appartenenza religiosa, deve farci riflettere sulla dirompenza della fede, che travalica le intenzioni di chiunque se ne appropri, e comunque si porge nel mondo come capace di suscitare scandalo.

Del resto dalle stesse Scritture sante, nel testo considerato il più antico del Nuovo Testamento, siamo sollecitati a “esaminare ogni cosa e trattenere ciò che è buono” (1Ts 5,21).

Proprio nello spirito del “trattenere” si situano alcune riflessioni che hanno sollecitato emozioni e pensieri a partire dal testo della canzone vincente, la quale ci rende inquieti, come inquieto e inedito per un festival nazionalpopolare è certamente il genere rock, che irrompe con le sue dissonanti melodie, turbando il nostro quieto vivere. Mi sono soffermato su tre elementi di un messaggio, che possiamo cogliere e che ci fa pensare.

Il primo momento lo scorgo nei versi: «Scritto sopra una lapide / In casa mia non c’è Dio / Ma se trovi il senso del tempo / Risalirai dal tuo oblio / E non c’è vento che fermi / La naturale potenza / Dal punto giusto di vista / Del vento senti l’ebrezza / Con ali in cera alla schiena / Ricercherò quell’altezza / Se vuoi fermarmi ritenta / Prova a tagliarmi la testa». L’Infinito non può essere scritto su una lapide mortuaria, piuttosto mette in moto uno slancio, che non si lascia fermare, proprio perché è quello di una testa pensante, consapevole del rischio che corre poiché, come Icaro, ha ali di cera e può precipitare.

Il secondo momento si può percepire nel verso in cui si esprime la ricerca del senso del tempo, onde poter sconfiggere l’oblio. La scoperta di un tempo che ha senso può verificarsi solo se si guarda la storia dall’alto, se si è capaci di volare, se il tempo si legge sotto il segno dell’eternità: sub specie aeternitatis, direbbe Spinoza. Abbiamo bisogno di un punto fermo per non naufragare e non diventare schiavi di ciò che semplicemente passa. Il pensatore del “tutto passa!” – Eraclito – ci ha anche suggerito che “di fronte a ciò che non passa, l’uomo non può nascondersi”.

Il cuore del pezzo – terza riflessione, ma non ultima – sta comunque nella rivendicazione dell’irriducibile singolarità dell’individuo. «Individuum ineffabile triumphans. Sorprendente – scrive Franz Rosenzweig – non è però il fatto che egli [l’uomo singolo] “faccia filosofia”, bensì il fatto stesso che egli è ancora qui, che egli ancora si arrischia a respirare faticosamente, che ancora “fa” e canta urlando e opponendosi ad ogni omologazione: «sono fuori di testa, ma diverso da loro».

Il suo grido esige che coloro che si lasciano massificare stiano “zitti e buoni” di fronte al mistero dell’io. Proprio nel momento in cui bisogna vivere il distanziamento, che è anche un dovere etico, siamo chiamati a scoprire l’irriducibile e insostituibile individualità di noi stessi e di ciascuno. Perché il testo non rivendica solo per sé la singolarità, ma sia per colei a cui rivolge il proprio pensiero e il proprio sentire: «tu sei fuori di testa e diversa da loro» sia per il noi di una comunità non massificata: «siamo fuori di testa, ma diversi da loro».

Ed è il grido che emana dalla condizione giovanile, che scopre se stessa e la propria specificità nella differenza e nella distanza da una società in cui stenta a riconoscersi e sentirsi accolta.

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Un commento

  1. Romilda Saetta 8 marzo 2021

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