Sofferenza e salute mentale

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salute mentale

“Nessuno si salva da solo”: il noto appello di papa Francesco vale evidentemente anche per i Servizi di salute mentale italiani, ancor più nella esperienza della pandemia da Covid 19 e dopo la stessa.

Solo nel contesto di un Servizio Sanitario Nazionale che ponga di nuovo al centro la medicina di comunità territoriale, insieme con la qualità della vita quotidiana delle persone affette da disturbi mentali, è possibile ritornare seriamente a parlare di diritto alla vita indipendente, di sostegno all’abitare in una casa propria, di “zero contenzioni” e di uso misurato degli psicofarmaci, in vista del maggior benessere e del migliore funzionamento sociale personale, piuttosto di adeguamento alle prassi farmacologiche di controllo e di tacitamento.

Di grande importanza si prefigura pertanto la Conferenza nazionale per la salute mentale che si terrà il 25 e il 26 giugno prossimi, finalmente promossa dal Ministero della Salute: la precedente Conferenza, si tenne a Roma nel giugno del 2019 e fu organizzata dal libero Coordinamento per la Salute Mentale – un insieme di più di 140 associazioni comprendenti pazienti, famigliari, volontari, operatori del settore, organizzazioni sindacali – ma non vide la partecipazione di rappresentanti del Governo.

Dopo la chiusura dei manicomi pubblici portata a termine solo nel 1999, il terzo millennio dell’assistenza psichiatrica in Italia si è aperto con tre grandi prospettive di novità che, di seguito, brevemente, riassumo.

Sofferenza senza confini

Dal 1° gennaio 2008 è avvenuto il passaggio di competenze della sanità penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e quindi alle Regioni. Ma garantire la salute mentale – e la salute in genere – dei detenuti in carcere è tuttora un grande problema.

Dopo le leggi nazionali 9/2012 e 81/2014 è avvenuta ufficialmente la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’assistenza dei pazienti autori di reato è stata affidata ai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM). Ma ciò che è scritto sulla carta non è ancora pienamente accaduto di fatto in gran parte delle pratiche di presa in carico territoriale.

Il manifestarsi di sofferenza mentale da parte di tante persone migranti – regolari e non – provenienti da varie aree del mondo e portatrici di culture e modelli di salute/malattia che la biomedicina “atlantica” non riconosce come “scientifici”, ha messo e continua a mettere in difficoltà gli operatori dei DSM. Si impone il riconoscimento dell’importanza della conoscenza, dello studio e della ricerca antropologica nella formazione di base e in quella permanente. Ma la questione è tuttora sottovalutata o, più spesso, misconosciuta.

Regionalizzazione

A fronte dei nuovi compiti attribuiti dunque ai DSM, i Servizi di salute mentale – già in difficoltà nella gestione della psichiatria ordinaria e con, quasi ovunque, drammatici problemi di organico – denunciano oggi una condizione di grave sofferenza, cui bisogna cercare di porre rapidamente rimedio.

Non si tratta solo di fare nuovi investimenti di risorse, specie per integrare al più presto gli organici dei professionisti dedicati – medici psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori professionali – ma anche di adeguare i percorsi e i contenuti del sistema formativo specialistico, di promuovere l’aggiornamento e la formazione continua del personale, di monitorare attentamente la qualità delle “prese in carico” dei pazienti e l’esito dei trattamenti.

Va in particolare rimediato l’abnorme e diffuso sbilanciamento della spesa per la salute mentale a favore delle strutture residenziali ad alta e media intensità “protettiva” che fatalmente tendono a riprodurre il modello delle istituzioni separate dalla vita sociale dei territori.

Ad arricchire il dibattito è giunta la presentazione della proposta di legge “Norme in materia di imputabilità e misure alternative alla detenzione per soggetti con disabilità psicosociali”, attualmente nel pdl 2939 depositato alla Camera, di cui primo firmatario figura l’onorevole Magi.

La proposta mira a sciogliere alla radice, in maniera limpida, ispirandosi ai principi della Costituzione, l’ambiguità di una parte del Codice Penale, in cui sussiste l’eredità del Codice Rocco. Nella proposta si sancisce che anche le persone affette da gravi disabilità psicosociali hanno diritto al giudizio, non certo per arrivare a una pena dura o esemplare, bensì per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo loro responsabilità e, con ciò, la possibilità di comprensione dell’effetto delle azioni e risparmiando loro lo stigma indelebile del verdetto “di incapacità di intendere e di volere”.

Oltre l’internamento

La proposta di legge affonda le radici nelle elaborazioni di un trentennio e si è avvalsa delle riflessioni del Comitato Nazionale di Bioetica, del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte Costituzionale: prevede un ulteriore rafforzamento del ruolo del Dipartimento di Salute Mentale nei territori e nelle carceri, con la facilitazione dell’accesso alle misure alternative alla detenzione.

Nel mentre rimane ferma la battaglia di civiltà affinché i pilastri qualificanti delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) – strutture dei Dipartimenti di salute mentale – siano salvaguardati e le persone interessate dalle misure di sicurezza sanitarie, provvisorie e definitive, non siano rinchiuse in contenitori indistinti per patologie, rinverdendo, in tal modo, vecchie logiche di internamento.

La Conferenza Nazionale per la Salute Mentale potrà rivelarsi un appuntamento di grande importanza ed utilità se consentirà dunque una discussione franca e coraggiosa circa i nodi strutturali dell’assetto del – di per sé unico – Servizio sanitario nazionale, in materia costituzionale concorrente tra Stato e Regioni, ma di fatto affidato alla gestione di Aziende.

Faccio qui esplicito riferimento alla mortificazione della libertà di parola e di pensiero che riscontro – non solo in Lombardia – nelle Aziende che gestiscono servizi sanitari di pubblico interesse con i criteri delle aziende private: le Giunte dei governi regionali nominano managers – direttori generali, sanitari e sociali – che a loro volta nominano dirigenti e primari di stampo egualmente manageriale.

Le Aziende sanitarie richiedono o pretendono dai professionisti della salute e della cura delle persone, disciplina e rispetto scrupoloso delle indicazioni manageriali, dettate troppo spesso più da ragioni di budget che da logiche effettivamente sanitarie.

L’aziendalismo così inteso e praticato – l’abbiamo sperimentato nel corso dei drammatici mesi della pandemia – non funziona: impedisce il dibattito e il libero confronto delle migliori idee, censura le opinioni e le proposte in dissenso con le linee aziendali, obbliga alla cautela i professionisti, fino all’autocensura.

All’aziendalismo è dovuto l’odierno silenzio di gran parte degli operatori sanitari – anche della salute mentale – impegnati nei mesi della pandemia in un lavoro durissimo. A loro vanno l’apprezzamento e la stima. Resta il fatto che, salvo straordinarie eccezioni, sono solo i pensionati – come me – ora a parlare ad alta voce.

  • Luigi Benevelli – ex parlamentare – è psichiatra in pensione.
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