Pena di morte ed evoluzione della dottrina

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La decisione dello scorso maggio, con cui papa Francesco ha voluto cambiare il catechismo al n. 2267, introducendo la «inammissibilità della pena di morte», divenuta efficace dal 1 di agosto, è stata oggetto di ampio dibattito, di cui ho dato conto in precedenti post (in un confronto con CCC e Pio X, in relazione ad altre questioni urgenti e rileggendo uno scritto di Guardini sul tema). In questi giorni ho trovato un commento su una rivista francese, Catholica, che nel suo ultimo numero – n. 114 (2018), pp. 46-73 – ospita il commento di uno storico del diritto, Cyrille Dounot, dal titolo emblematico, che in traduzione suona: Una soluzione di continuità dottrinale. Pena di morte e insegnamento della Chiesa.

Credo sia molto istruttivo leggere accuratamente queste quasi 30 pagine, non tanto per comprendere la tesi tradizionalista che lo sostiene, ma per leggere la dettagliata rassegna che da s. Paolo e s. Pietro arriva fino a san Giovanni Paolo II, nella comune ammissione del “diritto dello Stato” allo ius gladii. Considerare come la scrittura, la tradizione dei padri e il magistero abbia, con pochissime e marginali eccezioni, ripetuto per quasi 2000 anni il principio per cui è “di diritto naturale” e “di diritto divino” attribuire allo Stato (e alla Chiesa) il potere di “uccidere il colpevole”, è sorprendente e istruttivo.

Il lettore può profittare del fatto che l’autore, da giurista tradizionalista, non capisce le ragioni che hanno portato papa Francesco a modificare una dottrina pacificamente acquisita da sempre nella Chiesa e quindi mostra come questa “iniziativa”, a suo avviso senza alcun precedente, contraddica una lunghissima catena di affermazioni di tono e contenuto ben diverso. Per questo ci regala una collezione davvero sterminata di passi biblici, di testi patristici, di argomentazioni scolastiche e di pronunciamenti magisteriali che riaffermano il “principio” dello “ius gladii” in capo alla autorità (ecclesiale e statale).

La continuità fino alla “scoperta  della dignità”

La pena di morte è rimasta stabilmente nell’orizzonte ecclesiale per 2000 anni, assumendo quasi una sorta di “garanzia” del giudizio di Dio. Il potere degli uomini, che “rappresenta Dio”, deve poter “uccidere il criminale” per ristabilire la giustizia, per incutere timore e orientare i comportamenti. Alle affermazioni della scrittura, dei padri, dei dottori e dei papi soggiace, con molta evidenza, questa “teoria del potere”. Dove gli uomini esercitano la autorità legittima, e secondo procedure garantite giungono alla condanna del reo per grave reato (dall’assassinio all’adulterio, dal rapimento al furto, dall’eresia alla frode) la natura e Dio esigono che “il diritto di spada” ristabilisca la giustizia ed espii la colpa. Si deve leggere, nella trama della lunga tradizione – a cui hanno aderito anche Paolo, Lutero, il re Sole e Romano Guardini – una grande continuità in questa sovrapposizione tra autorità umana e autorità divina. La pena di morte, in un certo modo, presuppone una comprensione “non secolarizzata del potere”. Quando un uomo o una donna, avendo commesso uno dei reati gravi, perdono l’onore, perché l’onore si ristabilito essi cadono in balia della autorità legittima, che ne trae le conseguenze e li sopprime. Perdere l’onore, nella società tradizionale, è già morire. Lo stato e la Chiesa si limitano a dare visibilità a ciò che è già accaduto nella esperienza del membro della comunità che ne è fuoriuscito.

Nell’immaginario antico, medievale e della prima modernità, lo “scomunicato” è morto. Questa forma “rozza” della pena – che conosce soltanto la “scomunica” e la “morte” – conviveva però, in quel mondo, con una raffinata teoria del fare penitenza. Ma la logica dell’onore non permetteva di pensare la “dignità del soggetto irrelato”. Il soggetto era tale solo “comunitariamente”. Per questo la autorità aveva, di per sé, diritto di vita e di morte su ogni membro della comunità.

Se, in una società basata sull’onore, si pensa in termini di “dignità del soggetto”, si introduce un principio di disgregazione della società. Questo è ciò che hanno conosciuto tutte le forme di “rilevanza del soggetto” che hanno attraversato la storia europea, prima nel protestantesimo e poi nel cattolicesimo. Ed è stato molto facile, alla società chiusa basata sull’onore, contestare il “principio di dignità del soggetto” come pericoloso e addirittura criminale. Ciò ha giustificato, in modo viscerale, nella nostra tradizione cattolica, la opposizione al “modernismo”, come articolazione insidiosa di questo “principio di dignità”. Come un “aver senso” del soggetto prima ancora di incontrare Dio e il prossimo!

Non è un caso che nell’articolo del prof. Dounot si presenti la “svolta” contro la pena di morte come un “arbitrario cedimento all’abolizionismo”, che viene ritenuto un approccio tipico degli illuministi come Beccaria e Bentham. La modernità, per Dounot, può solo traviare la tradizione. Il “piano inclinato” della decadenza è l’immaginario che impone un’ermeneutica solo nostalgica.

Dignitatis humanae è la svolta

Ma dobbiamo chiederci: dove possiamo collocare la “svolta”? Che cosa ha permesso di giungere, da pochi mesi, a questa nuova evidenza, che prima era o ignorata o esplicitamente condannata, almeno fino a papa Pio XII? Io credo che non si debba e non si possa spostare la responsabilità dello “strappo” solo su Francesco. Papa Francesco ha soltanto portato a compimento – direi finalmente – ciò che era iniziato con Dignitatis humanae, ossia con la scoperta che la “libertà di coscienza” non è semplicemente un “diritto del soggetto”, ma che fa di ogni uomo e donna una “persona piena di dignità”, indipendentemente dal suo “onore”: siamo “degni” indipendentemente dalle nostre azioni sante o peccaminose. E la dignità di ogni uomo/donna è radicalmente sottratta al potere dello Stato e della Chiesa. Questo non significa negare Dio, ma affermarlo in una logica non di potere, ma di grazia e di misericordia. Comprendere Dio come leggerezza complessa piuttosto che come autorità semplice. Ecco la svolta che, dal Concilio Vaticano II, attende una lettura conseguente.

La “traduzione” dall’onore alla dignità, a 360 gradi

Non stupisce, quindi, che la lettura del prof. Dounot sia tutta pervasa dalla nostalgia. Quel mondo dell’onore, che aveva costruito un “sistema di rappresentanza di Dio” e che vedeva il giudizio di Dio nella punizione del maestro a scuola, nella corvée del signore verso il servo,  e nella condanna a morte del tribunale ecclesiastico all’eretico, o all’adultera o all’assassino, può giudicare l’abolizione della pena di morte come il “cedimento alla negazione della autorità” tipica del pericolosissimo mondo moderno.

In realtà ciò che Francesco ha voluto fare è tutt’altro: si tratta piuttosto di tradurre la autorità di Dio, del Dio giusto perché misericordioso, dalle logiche dell’onore, alle logiche della dignità. E la pena, che resta un registro inaggirabile della relazione con la giustizia, nella nuova visione tutto può gestire, meno che la fine della vita. Dato che il “bene della vita” non può essere mai perduto dal soggetto, anche quando sia ritenuto il più disonorevole dei soggetti, la sua dignità impone in “non uccidere”. Non c’è “bene comune” che possa giustificarlo. Le argomentazioni scolastiche in termini di “legittima difesa” pagano qui un prezzo molto alto alla comprensione della società in termini di “onore”.

Francesco traduce il vangelo dal linguaggio della società chiusa a quello della società aperta. Che cosa accade quando questo complesso passaggio riguarda non soltanto la “pena di morte” – che resta un caso limite per la dottrina ecclesiale – ma tutto il rapporto con la vita degli uomini e delle donne?

Come ho già detto in un post precedente, citato all’inizio di questo, tale trasformazione, con cui possiamo intendere bene il Concilio Vaticano II, è guidata da cammini di riscoperta dei “segni dei tempi” di cui Giovanni XXIII parlò in Pacem in terris. Potremmo dire che è la “storia della salvezza” a chiederci di passare dalle logiche di onore alle logiche di dignità nei “tre segni dei tempi” che Giovanni XXIII identificò profeticamente in quel testo e che “ammaestrano la Chiesa” su nuove emergenze, che facilmente non vediamo se continuiamo a ragionare in termini di “onore”:

a) La acquisizione della dignità delle classi lavoratrici, che non possono essere “in balia dell’altrui arbitrio” (PT 21);

b) La acquisizione di dignità pubblica della donna, che “sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento” (PT 22);

c) La dignità di tutti i popoli: “non più popoli dominatori e popoli dominati” (PT 23);

In tutte queste espressioni profetiche, si scorge il sorgere di un “mondo della dignità” nel lavoro, nei rapporti politici e nel rapporto tra i sessi. Tramonta una società basata sull’onore, e sorge una società basata sulla dignità, in cui il lavoro, la politica e la identità sessuale diventano “degni in sé”, non strumentalizzabili ad altro.

“Segni dei tempi” e Chiesa discente

Come è evidente, il cammino di questi 55 anni è stato ricco di novità, su tutti questi tre piani. La Chiesa si è messa “alla scuola dei segni dei tempi” E la pena di morte ha potuto diventare “inammissibile” sono se si riesce a collocare questo elemento nel quadro di una profonda trasformazione della dottrina, che la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi, sul cambiamento del CCC sulla pena di morte, del 1 agosto 2018, definisce così:

“Se, infatti, la situazione politica e sociale di un tempo rendeva la pena di morte uno strumento accettabile per la tutela del bene comune, oggi la sempre più viva coscienza che la dignità di una persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi, l’approfondita comprensione del senso delle sanzioni penali applicate dallo Stato, e la messa a punto di sistemi di detenzione più efficaci che assicurano la doverosa difesa dei cittadini, hanno dato luogo ad una nuova consapevolezza che ne riconosce l’inammissibilità e perciò chiede la sua abolizione” (n. 2).

La giustificazione riconosce come la “dignità del soggetto”, acquisita nelle società contemporanee, costringa ad una profonda revisione della dottrina, che viene definita “affinamento”, con la ovvia cautela di un documento ufficiale. Ma il linguaggio diplomatico non può nascondere che si è passati pienamente, con Francesco, da un “principio di onore” a un “principio di dignità”. La Chiesa ha imparato, dal “segno dei tempi” della dignità di ogni soggetto di fronte al potere politico, a rileggere la propria dottrina, ad affinarla e a superarne le inadeguatezze e le cecità.

Ora, è lo stesso “principio di onore”, che rendeva ragionevole il “potere della spada” attribuito alla autorità, a “negare ogni autorità” alla donna. Quando entriamo nella società aperta, che attribuisce ad ognuno di essere “fine in sé” , tanto ai maschi quanto alle femmine, quanto tempo dovremo attendere prima di vedere un “affinamento” nel modo di considerare la donna in rapporto all’autorità ecclesiale? Perché mai, tra i tre segni dei tempi indicati da Giovanni XXIII, dovremmo tenere giustamente il volume alto per il primo e per il terzo, ma dovremmo azzerarlo sul secondo? Perché mai sulla pena di morte citiamo solo gli ultimi 3 papi, mentre sulla autorità femminile citiamo con grande enfasi tutti gli autori che giustificano tranquillamente, e senza esitazione,  la pena di morte e che silenziamo quando ne parliamo oggi in termini nuovi? Perché il secondo “segno dei tempi” non sembra avere nulla da “insegnarci”? Perché mai, di fronte al “segno della donna autorevole in pubblico”, saremmo destinati a riconoscerci tutti e da sempre “nati imparati”?

La migliore conclusione è l’esergo con cui Dounot apre il suo testo. Cita la frase del Card. Journet (+ 1975) che diceva in un suo testo: «Se il Vangelo vietasse agli Stati di applicare la pena di morte, allora s. Paolo stesso avrebbe tradito il Vangelo». Questo ragionamento fa sorridere se pensiamo a come oggi appare la dottrina sui rapporti politici, ma ci rende assai preoccupati se pensiamo a come oggi appare la dottrina sulla dignità ecclesiale della donna. Dispiace riconoscere che non sulla pena di morte, ma sulla donna, il card. Journet è ancora una autorità.

Pubblicato il 30 novembre 2018 nel blog: Come se non.

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