L’Afghanistan fuori dal mondo

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© U.S. Air Force photo by Master Sgt. Donald R. Allen, Public domain, via Wikimedia Commons

A quattro anni dalla presa di Kabul, il regime talebano consolida il potere tra isolamento internazionale, crisi umanitaria e repressione dei diritti civili, soprattutto delle donne. Mentre il mondo occidentale chiude le porte, i talebani tessono relazioni strategiche e partecipano a colloqui diplomatici. Intanto, migliaia di afghani fuggono o sopravvivono nella povertà, tra campi profughi e corridoi umanitari. Enrico Campofreda è giornalista e scrittore. L’articolo è stato pubblicato sul sito della rivista Confronti lo scorso 1 agosto 2025

Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da “emiro”, ovvero guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo emirato afghano risorto il 15 agosto 2021.

Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975).

Sanzioni e profughi

Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, tra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid, attualmente viceministro della Cultura e dell’Informazione.

Quasi subito partiva la “cortina di ferro”, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre 9 miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che “niqabava” le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata TV di Stato.

Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti per le donne: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì: termine con il quale si indica ogni uomo con il quale una donna ha un legame – di sangue o di allattamento – che esclude il matrimonio), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali – un codice consuetudinario ed etico non scritto nonché uno stile di vita tradizionale che segue il popolo pashtun – su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno – nonostante il blocco dei fondi nazionali, oltre 9 miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee – si scopre che i mullah (“tutore”, “signore”) dell’Emirato così isolati non restano.

Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il “Cavallo di Troia” per dialoghi a tutto tondo.

Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create.

Comunque l’United Nations Assistance Mission in Afghanistan (UNAMA) – istituita nel marzo 2002 con la risoluzione ONU 1401 – forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente USA, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei 3 miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti.

Fuga dall’Emirato

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricadute sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro Occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia.

Sebbene la “Fortezza Europa” abbia innalzato muri impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei signori della guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori.

Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i “corridoi umanitari” italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche (FCEI) e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio.

Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei “signori della guerra NATO”. Salire sui Boeing C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army – come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times – da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini.

Oggi l’UNAMA gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. «Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza», ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala, al confine con l’Iran, nella provincia occidentale di Herat.

Ci sono già state altre grida di dolore come quella di Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, che esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della comunità internazionale.

Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione economica nel lasso temporale delle “sperimentazioni di democratizzazione” del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi di Hamid Karzai [primo presidente eletto dell’Afghanistan in carica dal 7 dicembre 2004 al 29 settembre 2014] e Ashraf Ghani [Presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan dal 29 settembre 2014 al 15 agosto 2021, quando il suo governo venne rovesciato dai talebani] hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Mohammed Fahim, Karim Khalili, Gulbuddin Hekmatyar, Abdul Rashid Dostum fatti ministri e vicepresidenti.

Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un “prima” e un “dopo”.

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