L’IA, il Vaticano e i dubbi sulla proposizione

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intelligenza artificiale

La Nota sul rapporto tra intelligenza artificiale e intelligenza umana intitolata Antiqua et Nova [pubblicata lo scorso 28 gennaio − ndr] a cura del Dicastero per la Dottrina della Fede e del Dicastero per la Cultura e l’Educazione riporta alla mente, nelle prime battute, un emblematico momento del Concilio Vaticano II.

Lo scatto all’indietro è provocato dal punto 2 della Nota dove si afferma che «le abilità e la creatività dell’essere umano provengono da Lui e, se usate rettamente, a Lui rendono gloria».

«Si recte ordinatur»

La proposizione condizionale «se usate rettamente» risuonò infatti, in un contesto similare e in maniera accalorata, pure all’interno delle mura del Concilio e fu oggetto di un’istruttiva discussione che forse non tutti ricordano e perciò forse merita di essere ripercorsa.

La significativa vicenda è legata alla redazione del n. 34 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes datata 7 dicembre 1965. Quando ai Padri conciliari nel marzo 1964 fu sottoposta una prima bozza di lavoro, conosciuta come Schema XVII, su cui si era impegnata già da un anno una Commissione mista, iniziò il confronto e il conseguente chiarimento di idee che ha una prima redazione il 3 luglio 1964.

Questa prima redazione dell’art. 34 propone la formula secondo cui «per i cristiani è certo che l’attività umana… corrisponde manifestamente alla volontà di Dio… se rettamente ordinata», dove è da sottolineare la condizione ipotetica «si recte ordinatur» (la stessa espressione che compare nella Nota Antiqua et Nova).

Ora la discussione su tale periodo condusse i padri conciliari a un’aggiunta significativa: «considerata in se stessa e condotta rettamente l’attività umana… risponde manifestamente alla volontà di Dio». Come vediamo, alla puntualizzazione morale secondo cui l’attività umana è buona solo «se rettamente ordinata» viene aggiunta la considerazione ontologica per cui essa è buona in se stessa, «in seipsa considerata». Su questo si concordò con lo schema del 15 novembre 1965.

Nella fase conclusiva della redazione, però, su questo punto il dibattito torna fervente tra la parte che insisteva sul primato morale e coloro che mettevano al primo posto la considerazione ontologica. Nello stallo, 18 Padri suggerirono di liquidare la questione omettendo l’intera frase: «considerata in se stessa e rettamente condotta», in modo da disincagliarsi da una posizione che sembrava irremovibile. Altri 5 Padri sottolinearono che è illegittimo affermare che l’attività umana in generale risponda alla volontà di Dio, perché molte azioni umane non vi corrispondono. Ed è un nuovo modo per riaffermare il primato della morale sull’ontologico.

L’esito del dibattito portò a concludere che in primo luogo si deve considerare la bontà ontologica dell’attività umana; la bontà morale è da trattarsi successivamente, nello specifico ai nn. 35 e 36.

Fu la svolta.

Prometeo liberato 

Vorgrimler, nel quinto volume del suo monumentale Commentario ai Documenti del Vaticano II, esplicita che: «Chiaramente il Concilio non ebbe paura di descrivere l’essere umano quale collaboratore di Dio o perfezionatore dell’opera della Creazione, come se ciò potesse attribuire troppa indipendenza alla creatività umana a detrimento della trascendenza di Dio» [1].

Smulders a sua volta sottolinea che la scelta di eliminare dall’art. 34 l’espressione «si recte ordinatur» ha valenza emblematica e epocale: «Nella storia della Chiesa queste parole hanno un suono nuovo. Con ciò si pone fine al conservatorismo di principio in campo cattolico»[2]. Dinanzi all’aspirazione dell’essere umano di rimodellare la realtà creata, grazie alla «scienza che si trasforma in tecnica», la Chiesa conciliare abbandona le vetero prospettive: «tale aspirazione, che un tempo sarebbe forse stata chiamata orgoglio, arroganza, superbia, è in sé buona»[3]. Non la Torre di Babele con il Concilio viene abbattuta, ma il suo mito, superato in bellezza dalla novità cristiana. Non al Prometeo Incatenato si deve guardare, ma al Prometeo Liberato.

E proprio al mito di Prometeo il Concilio fa una velata allusione continuando la discussione sull’art. 34 della Gaudium et spes.

Quando infatti i Padri passano a dibattere il periodo successivo si trovano dinanzi a uno schema così formulato: «i cristiani dunque in nessun modo pensano – come alcuni hanno affermato – di contrapporre i prodotti del coraggio dell’uomo alla potenza di Dio…». F. Gil Hellin, nella sua preziosa Sinossi storica delle redazioni della Gaudium et spes evidenzia una nota secondo cui qui «alluditur ad illos qui agitant mythum Prometheis»[4]. 37 Padri proposero di cancellare la frase: «come alcuni hanno affermato» perché in essa dissero di avvertire un tono un po’ polemico. La frase viene cancellata, ma la motivazione è significativa. Si ammette l’omissione della frase perché non appare davvero necessaria, dato che è già estremamente chiaro che l’idea di contrapporre i prodotti del coraggio dell’uomo alla potenza di Dio è ormai del tutto eliminata dal pensiero cristiano.

Si ha così la versione finale di Gaudium et spes n. 34:

Per i credenti una cosa è certa: considerata in se stessa, l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di Dio. (…)

I cristiani, dunque, non si sognano nemmeno di contrapporre i prodotti dell’ingegno e del coraggio dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno.

Quale interpretazione

Nella Nota Antiqua et Nova però quel «si recte ordinatur» cassato dai padri conciliari torna sin dal principio.

Come è da interpretare? È una resurrezione del conservatorismo cattolico riprendendo l’espressione di Smulders? È la rivincita degli amici del mito di Prometeo che finirono in minoranza ai tempi del Concilio? Oppure vuol significare che il Concilio si era spinto oltremisura nella fiducia verso l’essere umano e che alla luce dei nuovi eventi è il caso di piantare qualche paletto?

L’intelligenza artificiale come emblematico prodotto dell’ingegno e del coraggio dell’essere umano è un bene in sé («in seipso considerata») o è un bene solo se rettamente utilizzata («si recte ordinatur»)?

I Padri conciliari avrebbero avuto paura, riprendendo l’espressione di Vorgrimler, di affermare che l’intelligenza artificiale è un bene in sé? Insomma, avrebbero detto che corrisponde all’intenzione di Dio considerata in se stessa o solo se è rettamente usata?

  • Pubblicato su Trascendente Digitale, blog dedicato alla teologia della tecnologia, il 14 febbraio 2025.

[1] H. Vorgrimler, Commentary on the Documents of Vatican II, Herder, New York 1969, p. 188.

[2] P. Smulders, «L’attività umana nel mondo», in G. Barauna (a cura), La Chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti intorno alla Costituzione pastorale Gaudium et spes, Vallecchi, Firenze 1966, p. 314.

[3] Ibid.

[4] F. Gil Hellin, Concilii Vaticani II synopsis in ordinem redigens schemata cum relationibus necnon patrum orationes atque animadversiones, LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 244-245.

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Un commento

  1. yc 26 febbraio 2025

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