Mascolinità e “riserva maschile” nella Chiesa

di:

chagall

Conferenza tenuta il 29 ottobre 2024 al ciclo di studi «Il (non) posto della donna: la sfida della demascolinizzazione della Chiesa» dell’Instituto Humanitas Unisinos (Brasile). Sul canale YouTube dell’istituto universitario si può rivedere la registrazione video della conferenza.

Innanzitutto vorrei ringraziare di cuore la professoressa Cleusa Andreatta per questo invito che mi è arrivato davvero come un regalo. Io non vanto titoli o pubblicazioni accademiche tali da farmi pensare che un’Università potesse chiamarmi a tenere una conferenza. Sono, semplicemente, una donna che pensa e che scrive – ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada degli amici, maschi, che mi hanno aperto degli spazi di condivisione per le parole che scrivo e, così, da tre anni collaboro alla rivista online SettimanaNews.

La conoscenza con la professoressa Andreatta e con l’Università Unisinos è nata proprio dalla lettura e dalla traduzione di alcuni degli articoli che, in questi pochi anni, sono andata pubblicando sulla rivista dei Dehoniani.

Ricevere la mail che mi invitava a prendere parte a questo progetto dal titolo «Il (non) luogo delle donne – la sfida di demascolinizzare la Chiesa» mi ha portato prima di tutto a riflettere, ancora una volta e ancora di più, sull’importanza delle parole.

Il legame che si è creato fra di noi è, infatti, basato solo ed esclusivamente su questa cosa così fragile e potente che è la parola, il logos che lega, il logos capace di intessere legami che, in questo caso, hanno oltrepassato non solo le barriere geografiche ma anche le barriere linguistiche. Come diceva il sofista Gorgia nel suo “Encomio di Elena”: il logos, la parola, è un megas dunastes – un potente signore che, con un corpo piccolissimo e invisibile, compie imprese divine.

E, dunque, proprio perché le parole non solo creano legami, ma anche creano mondi, proprio da alcune parole vorrei iniziare il mio intervento, a partire dal titolo che sono stata invitata a sviluppare, ossia «Mascolinità e “riserva maschile” nella Chiesa».

Una premessa grammaticale

Mi fermo subito su questa prima parola, che è “mascolinità”, osservando come la lingua portoghese si conceda una ricchezza in più rispetto all’italiano, ossia la possibilità di declinare la parola anche al plurale: Masculinidade può diventare Masculinidades, rendendo chiaro, attraverso un espediente grammaticale molto semplice e immediato (il passaggio dal singolare al plurale), che la mascolinità non esiste nella forma di un ideale singolo e stereotipato, ma trova declinazione concreta in una pluralità ricca, variegata, multiforme.

L’italiano, proprio a partire da questa base grammaticale che non prevede il plurale della parola in sé, fa un po’ più fatica a concedersi di pensare la mascolinità come possibile apertura plurale. Ci viene in soccorso, per fortuna, l’articolo e possiamo avere, così, la mascolinità e le mascolinità. La fatica della grammatica ad assumere il plurale “dentro” la parola dice la fatica di pensare la mascolinità come plurale – le mascolinità; e, nello stesso tempo, in controcanto, la fatica di pensare anche la femminilità stessa come possibile plurale, cioè come le femminilità.

Vorrei dunque, nella prima parte del mio intervento, sviluppare, a proposito della parola mascolinità declinata nei suoi possibili plurali, una riflessione sul legame tra dinamiche linguistiche stereotipanti e dimensioni culturali. Nella seconda parte entrerò nel merito della cosiddetta “riserva maschile” condividendo con voi, a partire dal mio essere insegnante di lettere e donna di Chiesa, tutte le mie riserve su questa riserva.

Mascolinità: etimologia

Per entrare nel cuore delle significazioni che la parola “mascolinità” – singolare/plurale – porta con sé, scelgo due vie d’accesso. La prima parte dalla parola stessa, e quindi dall’etimologia, che è la matrice di senso che informa di sé ogni parola. La seconda fa invece riferimento alla dimensione della rappresentazione, e in particolare della rappresentazione letteraria, che è il modo attraverso cui le parole diventano carne viva del nostro immaginario.

Lo scavo non solo etimologico ma anche letterario è importante, perché permette di attraversare e decostruire le sedimentazioni secolari che incrostano la parola e rischiano di farci sentire come dato immodificabile ciò che, invece, è velo e copertura che si è formata nel tempo.

È importante, inoltre, tener conto del fatto che, per portare ad emergenza le significazioni profonde della parola “mascolinità”, è indispensabile pensare questa parola-problema in chiave di corrispondenza contrastiva con l’altra parola-problema, “femminilità”.

Cominciamo dall’etimologia, dunque.

Matrice del termine mascolinità è l’aggettivo latino masculus, legato al sostantivo mas, maris, che significa “maschio” e che a sua volta si collega alla radice indoeuropea *ma-. È, questa, una radice molto vitale che si presenta nelle forme apofoniche mn-, men-, man-, mon-, il cui significato di fondo rimanda all’idea di “misurare, pensare, preparare, costruire”. Ritroviamo questa radice in parole antichissime come “madre, materia, mano, mese, metro, mente, modo” e nell’aggettivo “umano”.

Una prima osservazione: è interessante che la parola “maschio” sia legata alla parola “madre” (colei che dà la misura, l’ordinatrice) proprio da questa radice che custodisce una qualità essenziale dell’umano, ossia la capacità di darsi e dare ragione del mondo.

Se andiamo alla parola femminilità, rileviamo innanzitutto che questa parola deriva dal latino foemina, dove foe– è il radicale che rimanda ad un verbo che indica l’azione del succhiare e quindi dell’allattare, e mina è il suffisso participiale: “femmina” è colei che allatta, che nutre, che partorisce, che genera.

Rispetto a “maschio”, che – si è detto – esplicita l’umano come capacità di dare e darsi ragione del mondo, “femmina” si fa carico di sottolineare il potenziale generativo legato all’atto singolo del mettere al mondo, del dare alla luce, ma anche al dispiegarsi del processo di generazione attraverso la nutrizione e la cura.

E qui è interessante una seconda osservazione: posto che “femmina” è colei che genera e che allatta, anche “padre”, che viene dalla stessa radice del verbo “pascolare”, porta in sé l’idea del nutrimento e della cura: padre è colui che pasce, colui che nutre o procura il nutrimento.

E questo ci porta a mettere a fuoco un’ulteriore, interessante, sottolineatura: “maschio” e “madre” sono parole legate fra loro dall’idea del dare conto del mondo; “femmina” e “padre” sono invece legate dall’idea del prendersi cura, del nutrire.

Lasciamo qui queste osservazioni, intanto, e andiamo avanti.

Rappresentazione letteraria: Iliade

Passiamo alla ricognizione letteraria e andiamo a vedere come la letteratura abbia messo in scena la parola “mascolinità” e il suo controcanto “femminilità”. Per farlo, parto dalle due opere che possiamo considerare fondative della letteratura occidentale, Iliade e Odissea.

Se chiedessimo a qualcuno privo di competenze specifiche di tracciare in sintesi un ritratto dei protagonisti di questi due poemi, sono abbastanza sicura che ne verrebbe fuori qualcosa di questo tipo: “L’eroe dell’Iliade è Achille, un guerriero senza paura, invincibile e completamente invulnerabile, se non fosse per quel tallone…; l’eroe dell’Odissea è Odisseo – Ulisse, uomo intelligente, astuto, coraggioso e sempre pronto all’avventura. Ah, e poi naturalmente nell’Odissea c’è anche Penelope, donna esemplare per fedeltà e pazienza”.

Come vedete, le immagini della mascolinità e della femminilità che emergono dalla “vulgata” di Iliade e Odissea cedono il passo, senza riserve, allo stereotipo, anzi si fanno esse stesse garanzia dello stereotipo e della sua validità: il maschio è l’eroe senza macchia e senza paura che combatte per i grandi valori della vita e se ne va in giro per il mondo ad arricchirsi di esperienze mentre la femmina se ne sta a casa ad occuparsi di cose prive di importanza, cose che non hanno alcun peso per le sorti del mondo, come fare e disfare dei pezzi di stoffa.

Ma tra la storia nella sua scaturigine originaria e le sue ri-narrazioni attraverso un filtro interpretativo condizionato dalle convenzioni di genere e, quindi, a sua volta condizionante, passa tutto un mare – che diventa poi un oceano – di preconcetti, di cliché e di strepitose banalità. Liberare l’immaginario da queste banalità non è facile, ma ci proviamo.

Cominciamo dall’Iliade e da un bellissimo saggio di Nicole Loraux dal titolo Il femminile e l’uomo greco. Nicole Loraux è stata una grande filologa classica, morta sessantenne poco più di vent’anni fa. I suoi studi, di carattere pionieristico, hanno aperto delle prospettive del tutto nuove e non convenzionali, dal punto di vista metodologico e interpretativo, nell’approccio alla grecità e al mondo classico.

Prendo il capitolo IV del suo saggio, dove Loraux invita “a risalire dall’interpretazione al testo” e osserva che “con grande sorpresa di chi ha un’idea troppo convenzionale dell’eroismo, bisogna arrendersi all’evidenza: nell’epopea non c’è un solo guerriero che almeno una volta non abbia avuto paura.” Non solo il vile, ma anche il coraggioso ha paura; anzi, per l’eroe omerico il vero coraggio non è non provare paura, ma provare paura ed essere in grado di dominarla, questa paura.

E, nel capitolo successivo, ancora Loraux osserva che “tutti i grandi eroi dell’Iliade sperimentano almeno una volta la sofferenza di una ferita.” Non entro nel merito del bellissimo percorso compiuto da Loraux per cogliere le affinità tra il sangue che esce dal corpo dei maschi a causa delle ferite inferte dai nemici e il sangue che sgorga dal corpo delle donne senza che le donne lo possano impedire. Vado alla conclusione, emblematica: “Studiando la figura greca dell’eroe, lo storico dell’immaginario familiarizza in fretta con l’idea che l’uomo non è mai tanto uomo come quando ha qualcosa della donna dentro di sé”.

Se sulla scena dell’Iliade le figure maschili appaiono predominanti, in termini numerici e di “peso” narrativo, rispetto alle figure femminili, non dobbiamo cadere nella facile trappola di pensare che il femminile non ci sia, che sia stato eliminato, anzi: nell’Iliade il femminile viene assunto e incorporato dagli eroi che, lungi dall’essere le maschere impassibili e prive di scalfitture che può aver fatto comodo raccontare per secoli, sono invece capaci – nel senso latino, cioè portano e tengono dentro di sé, – di emozioni e sentimenti, anche contraddittori fra loro.

Cifra del maschile e della mascolinità è, nell’Iliade, l’ambivalenza. Dice sempre Loraux:

La grandezza dell’Iliade consiste proprio nell’aver saputo superbamente perseguire il maschile nel suo vacillante aspetto: vulnerabile-invulnerabile, ferito ma intatto, un attimo dopo trionfante per aver vinto la debolezza, corpo infrangibile e nel contempo delicato.

Rappresentazione letteraria: Odissea

Veniamo ora all’Odissea. Qui comincerei dalle figure femminili che popolano numerose e vive la scena. Riduttivo per non dire avvilente fermarsi alla sola Penelope. Riduttivo e avvilente pensare Penelope solo come moglie paziente e passiva.

E dunque non solo Penelope, ma i volti multiformi di una femminilità che è davvero tale solo se pensata nelle infinite sfaccettature della pluralità. E così abbiamo Calipso, la donna innamorata, che vorrebbe l’uomo tutto per sé, ma che, se lui non vuole restare, è capace di lasciarlo andare e, anzi, lo aiuta a partire; Circe, la donna irresistibile nel corpo e nella parola; Nausicaa, la bellezza della giovinezza nella fioritura primaverile che tiene insieme forza e fragilità; Anticlea, la madre di Ulisse, donna di dolori come tutte le madri che non sanno più nulla della sorte dei figli; Euriclea, la nutrice, madre, come tante, non nella carne e nel sangue, ma nel latte e nel cuore; Arete, la madre di Nausicaa, regina dei Feaci, donna autorevole di potere e di governo; le Sirene, Scilla e Cariddi, la femminilità mostruosa da cui non si sa come difendersi; le ancelle infedeli e le ancelle fedeli, donne di cui ci si può fidare, donne di cui è meglio dubitare; e Atena, la confidente, la spalla e l’appoggio nei momenti di difficoltà, l’amica del cuore con cui condividere le sofferenze e l’allegria della vita.

È così ricca e variegata la presenza femminile nell’Odissea, così multiforme l’immagine della femminilità che ne emerge che, nell’Ottocento, un originale pensatore inglese, Samuel Butler, arrivò ad ipotizzare che l’Odissea fosse stata scritta, in realtà, da una donna. Come a dire: solo le donne si rendono conto che nel mondo ci sono anche loro, solo le donne avvertono la necessità di dire e raccontare storie in cui la loro presenza non si riduca a sfondo indistinto o a contorno marginale, e pure fastidioso.

Il saggio di Butler L’autrice dell’Odissea, del 1897, venne poi ripreso nel 1955 dal saggista e romanziere britannico Robert Graves in un godibilissimo romanzo storico intitolato La figlia di Omero. Mi permetto di inserire questi consigli di lettura con la speranza che il mio divagare letterario possa diventare occasione per riflettere su come e quanto le precomprensioni condizionino il nostro modo di guardare la realtà. Perché noi sappiamo che, nella concretezza delle nostre esperienze di vita, ci è dato di incontrare donne fedeli e donne infedeli, donne sagge e autorevoli e donne capricciose, amiche affidabili e forti e false amiche, madri pazienti e madri castranti – una polifonia straordinaria! Però, le precomprensioni da cui fatichiamo a liberarci ci spingono ad incasellare le pluralità concrete del femminile, con tutte le sue variabili, dentro attribuzioni che devono per forza corrispondere ad una idealità singolare precostituita. Della serie “È una donna, quindi…”

Il fatto che le numerose figure femminili dell’Odissea siano state appiattite, in positivo, alla sola icona di Penelope o tutt’al più a quella di Nausicaa e, in negativo, a Circe e alle varie mostruosità delle Sirene, di Scilla e di Cariddi, traccia una continuità neanche troppo sorprendente con le figure femminili consacrate dall’immaginario cristiano, che fino a ieri – o anche meno – è riuscito a pensare la donna solo all’interno di confini e categorie chiuse come gabbie senza vie d’uscita: o entro i confini delle due polarità contrapposte Maria-Eva (angelo-demonio, salvezza-perdizione), o dentro le categorie della virgo e della mater. Categorie, queste, che hanno ricevuto consacrazione sin dalla promulgazione dei primi due dogmi mariani: 431, Concilio di Efeso, Maria Theotókos, madre di Dio; 553, Secondo Concilio di Costantinopoli, Maria Aeipárthenos, Sempre vergine.

Lascio per un momento la riflessione sulla femminilità – anzi, sulle femminilità – nell’Odissea, e mi rivolgo ad Ulisse.

L’Ulisse della vulgata, lo sappiamo, lo abbiamo detto, è il fanfarone che se ne va in giro per il mondo, libero da legami e da preoccupazioni, tutto proteso all’avventura e alla sete di conoscenza. Ma è anche l’uomo intelligente e astuto, che sa felicemente cavarsela in tutte le situazioni più imbrogliate.

Ma, stereotipi a parte, cosa possiamo dire della mascolinità di Ulisse?

Per entrare nel vivo di questa riflessione, prendo le mosse da uno degli epiteti che meglio qualificano la personalità dell’eroe dell’Odissea. Questo epiteto suona, in greco, polymetis, ricco di metis, e, quindi, in traduzione, astuto, intelligente.

La domanda che ci dobbiamo fare, a questo punto, è: che cos’è la metis?

Le energie che l’Occidente ha dispiegato nei secoli per riflettere e teorizzare il logos non si possono quantificare. Il logos è il perno del pensiero e della riflessione filosofica occidentale. Ma il mondo greco, fin dalle sue radici omeriche, ha sempre saputo che la vita è vitale non solo in forza del logos, ma anche grazie a metis.

Per capire cosa sia metis, partiamo da un mythos, da un racconto, che ha come protagonista Metis – scritto con la lettera maiuscola. Metis è una dea. Una dea antica, un’Oceanina della generazione dei Titani e delle Titanidi. Il suo primo apparire sulla scena mitica la vede nelle vesti di consigliera: è lei a dare a Zeus il saggio consiglio che gli permette di liberarsi della condizione di oppressione in cui era tenuto dal padre Crono. Grazie a Metis, Zeus riesce a detronizzare Crono e a prendere il suo posto.

Metis è la personificazione della saggezza, per questo Zeus la prende come sposa. Ma non solo. Poiché, secondo l’eterno ripetersi del mito, il figlio che nascerà da lei e da Zeus sarà a sua volta destinato a scalzare il padre dal trono per reggere il mondo al suo posto, quando Metis resta incinta Zeus la inghiotte e la fa sparire dentro di sé. La storia, poi, la conosciamo: sarà Zeus stesso a portare a compimento la gravidanza e il figlio che nascerà sarà, in realtà, una figlia, la dea Atena, che al momento del parto uscirà vestita e armata di tutto punto dalla testa del padre.

Ma torniamo a Zeus e a Metis. Cosa ci dice questo mito? Se Zeus inghiotte e assorbe dentro di sé Metis, la Saggezza, la Saggezza, a questo punto, si pone come attributo imprescindibile del Divino.

Da Metis con la maiuscola a metis con la minuscola, da nome proprio a nome comune. La dea non c’è più – è dentro Zeus -, ma rimane la saggezza (con la lettera minuscola). E metis, la saggezza, che cos’è? Se logos è parola, discorso, ragionamento, studio – pensiero sublime ma astratto, quasi impalpabile, inconsistente –, metis è invece il pensiero che non ha bisogno di pensare, il pensiero concreto che sbroglia i grovigli e scioglie gli incagli, il pensiero che agisce, che trova, risolve, che supera intoppi e leva gli intralci. Metis è il pensiero che si misura con la vita in tutta la sua concretezza e palpabilità.

Diranno, poi, che metis è l’intelligenza femminile, un gradino sotto il logos, o forse anche un po’ di più.

Ma lì, nell’Odissea, in uno dei testi fondativi dell’immaginario occidentale, l’eroe è tale perché polymetis, perché dotato di quella (femminile?) capacità di cavarsela in tutte le situazioni che è saggezza di vita e sguardo ironico sul mondo.

Prime conclusioni

Alcune conclusioni, ora, tirando i fili di queste nostre divagazioni etimologiche e letterarie.

L’etimologia suggerisce accostamenti inediti fra il maschio e la madre, la mascolinità e la maternità – che darsi e dare ragione del mondo fosse una prerogativa maschile, lo sapevamo; forse non sempre abbiamo considerato che anche il materno dovesse essere pensato in questa prospettiva.

L’etimologia, ancora, ci porta a pensare la femmina in risonanza con il padre, la femminilità con la paternità. Anche qui, che provvedere al nutrimento e prendersi cura della prole fosse una prerogativa femminile, di sicuro l’abbiamo sempre saputo; molto meno, probabilmente, abbiamo pensato alla paternità come esercizio di cura.

La ricognizione letteraria nei due capolavori della Grecia antica, Iliade e Odissea, ci ha fatto incontrare mascolinità (plurali) molto più sfaccettate e complesse rispetto all’idea comune, standardizzata, dell’eroe maschio impavido e invulnerabile, avventuriero astuto e temerario. Gli eroi dell’Iliade provano paura, piangono, soffrono, sentono dolore nel corpo e nell’anima, gridano e tremano – come le femmine, direbbe qualcuno –, mentre il polymetis Ulisse dispiega repertori di astuzie e stratagemmi degni della volpe più furba – e la volpe, si sa, è femmina per genere grammaticale, anche quando è maschio per sesso e per natura.

Comprimere le mascolinità e le femminilità (plurali) dentro la forma astratta di una singolarità ideale è un’operazione pericolosa e violenta, molto violenta. C’è da chiedersi, ad esempio, quanto male abbia fatto, non solo alle donne ma anche agli uomini, pensare Penelope come il prototipo ideale della femminilità passiva e accondiscendente.

Ci sarebbe molto, molto da dire su Penelope. Vorrei solo proporvi di rileggere con me la meravigliosa similitudine che suggella il suo riconoscimento del marito dopo vent’anni di lontananza, nel libro XXIII dell’Odissea:

Come appare gradita la terra ai naufraghi
che hanno combattuto i vasti flutti e i venti,
tanto che pochi scamparono dal mare canuto
nuotando fino a riva, con le membra
tutte incrostate di schiuma e di sale,
e lieti, vinto il pericolo, raggiungono la spiaggia;
così gioiva Penelope, guardando
il marito, e non riusciva a staccargli
le bianche braccia dal collo.
  (Odissea XXIII, 295-304)

Penelope che abbraccia Ulisse e non riesce a staccargli le braccia dal collo è come un naufrago che raggiunge finalmente la terra ferma – immagine potentissima che rimette in gioco e rovescia lo stereotipo, giacché Ulisse, il naufrago ondivago per antonomasia, si fa qui terra ferma, immobilità stabile e passiva, mentre la statica, immobile Penelope, lei che mai, in quei lunghi vent’anni d’attesa, si era allontanata da Itaca, è la donna coraggiosa che, incrostata dalle fatiche della sua solitudine, ha combattuto i venti e i flutti dei naufragi della vita e, dopo aver vinto il pericolo, è riuscita finalmente a raggiungere l’approdo.

Bridge

A questo punto del nostro percorso, dobbiamo tracciare l’arco del ponte che ci permetterà di collegare la prima parte del titolo, dedicata alla mascolinità nel plurale delle sue declinazioni, alla seconda parte, che tratta della cosiddetta “riserva maschile” nella Chiesa cattolica.

Per tracciare questo arco mi servo ancora di una parola o, meglio, di una radice indoeuropea, la radice vi-, che porta in sé l’idea di fondo della forza vitale e del principio energetico che agisce e opera nella natura e attraverso la natura, nel mondo e nell’umanità. Troviamo questa radice in tantissime parole di origine latina: vis/forza, con il suo derivato violentia/violenza; vita/principio vitale; ver/primavera; viridis/verde, con il suo derivato viriditas, tanto caro ad Ildegarda di Bingen; virga/virgulto. La ritroviamo, altresì, nelle parole vir/uomo e virgo/donna, giovane donna.

Non siamo ancora alla chiave di volta, ma questo è certo un pilastro strutturale imprescindibile del nostro discorso: vir e virgo hanno il medesimo statuto etimologico, entrambe le parole parlano di una forza vivificante e vitale, pronta ad estrinsecarsi e ad agire nel mondo.

Ben altro, però, il portato epistemologico, ben altre le sovrastrutture di senso che si sono sovrapposte a questo significato di fondo, facendo sì che da vir e virgo prendessero forma, per superfetazione, i due modelli normativi e paradigmatici della virilità e della verginità.

Virilità e verginità rappresentano la modellizzazione spinta all’estremo della mascolinità e della femminilità. Ora, se per mascolinità e femminilità risulta ormai possibile ed è in atto il passaggio che, dall’astrattezza ideale del singolare, spinge al recupero della concretezza del plurale, virilità e verginità abitano ancora e soltanto il regno dell’ideale, sono ancora e soltanto un ideale. Un ideale da perseguire in una forma che, nella sua essenza, è, prima di tutto e forse soltanto, una forma sessuale e sessuata.

Mi spiego meglio. I femminismi hanno portato avanti delle riflessioni decisive sulla questione femminile, innescando, di conseguenza, percorsi di pensiero che hanno messo a tema anche la questione maschile e la mascolinità. Da qui i concetti di mascolinità tossica e di mascolinità egemone, termini che oggi vengono comunemente impiegati per indicare dei modi di porsi dei maschi divenuti ormai inaccettabili. Da qui l’immagine di una mascolinità multiforme e variegata, non più stereotipizzata sul modello del maschio “che non deve chiedere mai”, come recitava lo slogan di una storica pubblicità di dopobarba degli anni ’80. Da qui la libertà e il respiro largo di una mascolinità capace di tutta l’infinita gamma di sentimenti e di emozioni di cui è capace l’umano, maschio o femmina che sia.

Che la gabbia di quella mascolinità astratta e ideale, tutta d’un pezzo, sia ormai stata aperta, lo si può cogliere a partire già da piccoli, minuti segnali – dalla cura che prestano al corpo e ai sentimenti tanti maschi delle nuove generazioni, alle lacrime del ministro che in diretta televisiva piange chiedendo scusa alla moglie, a Vasco Rossi che canta “Stammi vicino… vado dove vai tu”, ai giovani padri che vanno al supermercato a fare la spesa tenendo i figli per mano.

Da parte sua Marcel Gauchet, nel suo recente saggio La fine del dominio maschile, entra nel vivo dell’argomento senza mezzi termini:

L’avvenimento non è di poco conto. Anzi, è talmente enorme da suscitare incredulità – del genere: «una cosa simile non può succedere». Eppure è così: stiamo assistendo alla fine del dominio maschile. Intendiamoci: è morto come principio, lasciando però dietro di sé tutta una serie di strascichi che possono nascondere la profondità della rottura o consentire di negarne l’esistenza. La fine, comunque, c’è stata, e bisogna farci i conti.

Ma se femminilità e mascolinità si sono liberati o sono sulla via di liberarsi dalle pastoie dell’astrattezza ideale, trascinando con sé, in questo movimento di rottura, anche le strutture profonde del dominio maschile, verginità e virilità sono fantasmi che ancora aleggiano nei sogni notturni e diurni di tante persone.

Bridge: verginità

Ci stiamo avvicinando alla chiave di volta dell’arco del nostro ponte. Superfetazione di senso, dicevo. Già, perché quello che – nella pro-posta dell’etimologia – è, sia per virginitas che per virilitas, energia e tensione e apertura vitale, vis, nella im-posizione modellizzante dell’immaginario è diventata, semplicemente, una questione di imeni intatti ed erezioni.

Ecco, infatti, le figure della virgo intacta e del vir potens, apoteosi del femminile e del maschile, figure in cui la sovraestensione della sessualizzazione invade in modo subdolo e pervasivo ogni piegatura di significato; figure inconciliabilmente e assurdamente antinomiche, il cui incontro non può che generare conflitti e guerre continue. Sì, perché, in un gioco di ruoli così strutturato, alla vera femmina spetta l’impegno sovrumano di conservare saldamente serrata la chiusura che il vero maschio, se tale vuole essere considerato, ha il compito di continuare a forzare. Ça va sans dire, ogni femmina è una potenziale vittima, ogni maschio un potenziale predatore.

Ma qualcosa è accaduto. C’è stata un’ondata femminista. Una prima, una seconda, una terza ondata. Una quarta, ora. Le donne, è evidente, non ci stanno più ad adeguarsi in modo passivo al modello virginale, tutt’al più sublimato in quello materno, che per secoli è stato loro imposto, non solo dagli uomini ma anche dalle donne stesse. Il modello virginale, che ha tenuto e funzionato così bene per secoli e secoli, ora non funziona più, non riesce più a dire nulla.

Emblematico il caso di santa Maria Goretti. Morta dodicenne il 6 luglio 1902 per i colpi di punteruolo che le erano stati inferti dal giovane vicino di casa a seguito di un tentativo di stupro non riuscito, Maria Goretti venne proclamata santa quasi cinquant’anni dopo, nel 1950.

Ogni epoca ha o, meglio, proclama i santi che più corrispondono alle sue aspettative o alle sue urgenze. L’emancipazione della donna avanzava ormai a passi decisi anche in Italia, in quei primi decenni del Novecento. Mussolini e la Chiesa, stretti nel Concordato, avevano trovato motivo di ulteriore concordia e di reciproco rinforzo nella comune volontà di arginare la novità dirompente e traumatica dell’emancipazione femminile.

L’impegno profuso dai promotori della causa di beatificazione della piccola Maria Goretti aveva messo d’accordo, in nome della pubblica moralità, ideologia fascista e catechesi cristiana, come ben si coglie dalle parole rivolte da Pio XII ai pellegrini affluiti a Roma nell’aprile del 1947 per la proclamazione della nuova beata:

Noi abbiamo già in altre occasioni ampiamente mostrato come in questo mezzo secolo il mondo femminile dalla riservatezza e dal vivere ritirato – caratteristiche della precedente età, – è stato lanciato in tutti i campi della vita pubblica, fino allo stesso servizio militare. Questo procedimento si è compiuto con una, vorremmo dire, spietata celerità.

Se non si vuole che così profondi e rapidi mutamenti determinino nella religione e nei costumi della donna le più gravi conseguenze, anzitutto debbono in pari grado e tempo essere in lei rafforzati quegli intimi e soprannaturali valori, che rifulsero nella novella Beata: spirito di fede e di modestia, e questa non solo come sentimento di pudore naturale e quasi inconsapevole, ma come cosciente e premurosamente coltivata virtù cristiana. Inoltre tutti coloro, cui sta a cuore il bene della umana società e la salute temporale ed eterna della donna, hanno risolutamente da esigere che la pubblica moralità si ponga a tutrice dell’onore e della dignità di lei.

Tre anni dopo, il 24 giugno 1950, Maria Goretti, “la piccola e dolce Martire della purezza”, una povera bambina analfabeta, che aveva fatto la comunione sì e no cinque volte nella sua brevissima vita, è santa.

Teniamolo ben fermo, all’orizzonte del nostro ragionamento, quel 1950.

Perché non è un caso che, proprio quello stesso anno – anno santo, anno giubilare -, il 1° novembre, Pio XII proclamasse il dogma dell’Assunta con la bolla dogmatica Munificentissimus Deus:

L’Immacolata Madre Sempre Vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo.

Maria, madre vergine, immacolata nell’anima, assunta in cielo con il corpo: un modello femminile sempre più ideale, sempre più astratto, inarrivabile, irraggiungibile.

Così irraggiungibile che ormai, declinato in quel modo, questo modello non funziona più e non interessa più a nessuna, così come non funziona più Maria Goretti come modello di martirio da additare alle bambine. Al limite, oggi, a Maria Goretti possiamo guardare come alla povera vittima di un femminicidio e, prima ancora, della miseria feroce, fatta di fame, ignoranza, sporcizia e lavoro brutale, che caratterizzava tante zone rurali d’Italia all’inizio del secolo scorso.

E dunque, con buona pace di Pio XII, non ci resta che constatare che davvero profondi e rapidi mutamenti hanno determinato nella religione e nei costumi della donna le più gravi conseguenze. Se avevamo dei dubbi, se non ci basta osservare come le nostre figlie e le amiche delle nostre figlie percorrano oggi, da sole, strade su cui noi – le donne della mia età – neanche ci azzardavamo a mettere piede, i numeri piani e inequivocabili delle statistiche sono lì, pronti a ricordarcelo: le donne non fanno più figli, non vanno più in convento, e non vanno neanche più a messa. Questo è il ritratto delle nostre società occidentali.

Quanto ho affermato prima merita, dunque, una correzione. Perché, almeno per le donne, in Occidente, il fantasma della verginità non è più un fantasma.

Bridge: virilità

Ma un altro fantasma continua a perseguitarci: come l’ombra di Banquo nel Macbeth di Shakespeare, lo spettro del vir potens si aggira funesto nella nostra mente e nelle nostre vite.

Presenza ossessiva che alimenta allucinazioni e spinge alla follia, il vir potens ha un’unica missione da portare a termine: dimostrare al mondo intero di non essere impotente. Schiacciato dall’ansia da prestazione, profonde ogni sua energia nell’affermare primazie e definire gerarchie, arrogandosi privilegi e dispiegando di continuo scenari esistenziali popolati da nemici da combattere, vittime da sottomettere, primati da raggiungere.

Non fa distinzioni di censo e di classi sociali. Perseguita la mente del capitano d’industria, ossessionato dalla concorrenza, e quella del disoccupato senza arte né parte che, però, qualcuna a cui far vedere chi è che comanda riesce sempre a trovarla.

Si trova a suo agio fra i tavoli della politica, vive bene nei palazzi del potere, al posto d’onore, in prima fila, sugli altari, nella regia occulta e nelle stanze dei bottoni. Si materializza nei toni e nelle parole aggressive, si sostanzia di furori guerrafondai; con melliflua perfidia manipola, soggioga, condiziona.

Costruisce armi, il vir potens, indossa elmetti, imbraccia il fucile, usa il coltello, il bastone, lo scettro e il pastorale – simboli fallici così evidenti, da non aver bisogno di spiegazione alcuna.

Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Inizia così un’intensa poesia di Salvatore Quasimodo, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

La poesia è del 1947. L’orrore della Seconda guerra mondiale è una ferita fresca, non rimarginata: l’anelito alla pace, il desiderio di relazioni che sappiano parlare di fratellanza e di amore – che sappiano di Cristo – è forte, eppure l’uomo è ancora e sempre il vir potens che piega allo sterminio ogni sua conquista di pensiero e vaga per le strade cercando sangue, odorando di sangue.

Se non è guerra calda, è guerra fredda, guerra a pezzi, guerra a bassa intensità. Come quella che ogni anno fa strage di donne e si chiama femminicidio.

E se non bastasse, il gioco sporco dei campi di battaglia si ripropone ogni volta, ripulito e incravattato, nel dispiegamento di forze cerebrali e verbali che, ad ogni nuovo conflitto, vede impegnati gli analisti esperti di geopolitica e di strategia militare, lanciati nell’agone dei dibattiti e protesi, con orgasmico autocompiacimento, a scavare il più profondamente possibile nelle supposte ragioni della guerra.

Come se il dire le ragioni non fosse già un dare ragione, un giustificare la guerra in sé come principio, come teatro in cui la messa in scena della virilità vive i suoi più plateali trionfi.

La messa in scena della virilità. Ecco la chiave di volta che ci permetterà di giungere rapidamente, ormai, alla conclusione di questa relazione che, in base a quanto indicato dalla seconda parte del titolo, deve ora occuparsi della cosiddetta “riserva maschile”. Che a questo punto, giuste le premesse sin qui illustrate, risulta più consequenziale ed onesto definire, piuttosto, “riserva virile”.

La riserva virile

C’è stato un tempo in cui le donne erano esseri inferiori, e lo sapevano tutti, anche le donne stesse. Non avevano anima e non avevano intelligenza, erano deboli e bisognose di protezione, erano irrazionali e incapaci di autocontrollo e, soprattutto, erano impure. Logico quindi, anzi necessario, precludere loro il mondo e tenerle per bene sottochiave.

Era un tempo in cui gli ambiti riservati ai soli maschi non si contavano. Dentro casa il gineceo e l’harem definivano confini tra stanze ad accesso consentito alle donne e stanze ad accesso vietato; fuori casa alle donne erano proibite le strade e i marciapiedi (luoghi notoriamente frequentati solo da “passeggiatrici”), le scuole (sia mai il monstrum di una donna capace di leggere e scrivere, sia mai lo sproposito di dottorare le donne!)  e tutti i luoghi d’esercizio del potere e del divertimento (che è poi un’altra forma di potere).

Tutte le religioni hanno sempre, sostanzialmente, assunto come dato naturale questa concezione di un femminile limitato ed immondo e pertanto, inevitabilmente, attorno agli spazi del sacro hanno sempre alzato barriere invisibili che alle donne è stato interdetto superare.

Nella Chiesa cattolica la tradizione ecclesiastica per secoli ha precluso alle donne l’accesso all’altare. Solo nel 2021 il motu proprio Spiritus Domini di papa Francesco, un papa proveniente dall’America latina (e non credo sia un caso), ha scardinato questa norma secolare, modificando il canone 230 § 1 del codice di diritto canonico e permettendo l’accesso al ministero istituito del lettorato e dell’accolitato anche “alle persone di sesso femminile”. Tradotto in termini spaziali, le donne sono state autorizzare ufficialmente (come se non lo facessero ormai da decenni…) a mettere piedi, mani e voce nella zona off-limits del presbiterio dove, fino al 2021, secondo il diritto canonico l’accesso era riservato al solo clero officiante.

Oggi che, grazie alle rivendicazioni femministe, si è scoperto e ammesso che anche noi donne abbiamo anima, intelligenza e coscienza autonoma, come gli uomini, che siamo individui interi, e non dimidiati, allo stesso titolo degli uomini e che perciò, allo stesso titolo degli uomini, possiamo esercitare diritti e assumere doveri, gli ambiti riservati ai soli maschi si sono andati drasticamente riducendo di numero – almeno in Occidente.

Fra gli ultimi bastioni degli ambiti riservati maschili è rimasto il sacerdozio nella chiesa cattolica. Come non ricordare il Cardinale Martini? La Chiesa è in ritardo di duecento anni.

Io non ho competenze accademiche per entrare nel merito delle questioni teologiche che ad oggi continuano a mantenere sigillata per le donne, a doppia, tripla mandata, la porta del ministero ordinato. Sono semplicemente un’insegnante e leggo, per passione e per mestiere. Abbiamo intrapreso la nostra riflessione rileggendo alcune parole e alcune rappresentazioni letterarie. Vorrei concluderla rileggendo, come in sinossi, alcune immagini.

Prendete un giovedì santo, la mattina, in cattedrale, quando il vescovo celebra la Messa crismale e tutti i sacerdoti della diocesi sfilano in processione dietro di lui e poi vanno a riempire presbiterio e navate.

Prendete un’azione militare in un film di guerra, un film qualsiasi che racconta una guerra qualsiasi.

Nell’una e nell’altra scena il protagonismo maschile è esclusivo e indiscutibile, sul piano numerico e sul piano simbolico. Nello sviluppo della trama narrativa potrebbero anche esserci delle presenze femminili – delle coriste o delle fedeli che assistono alla celebrazione, delle crocerossine che soccorrono i feriti –, ma non c’è dubbio che sarebbero solo figure marginali e di sfondo, giusto quel tocco di colore che conferisce vivacità alle immagini e fa sentire tanto politically correct.

Non c’è dubbio che i veri protagonisti siano loro, i maschi, i preti dai paramenti fruscianti, in soldati in armatura o mimetica. Non c’è dubbio che entrambe le rappresentazioni raccontino la stessa cosa – la sceneggiata della virilità, la smaccata autocelebrazione del vir potens, ancora e sempre in cerca di conferme.

E poi pensate a Gesù di Nazareth, il Gesù dei Vangeli. Pensate ai suoi piedi sulle strade di Galilea, alle sue mani che toccano e liberano. Pensate al discepolato di uguali che ha fatto innamorare le donne della sua parola di libertà e verità, pensate a Maria di Magdala e alle molte altre – senza volto, senza nome e senza voce, senza tradizione – che lo hanno seguito, in ogni luogo e in ogni tempo.

Io lo penso spesso, Gesù. Penso a Gesù disarmato e penso a Gesù che si cinge i fianchi con un telo di lino. Non riesco a vederlo assiso sullo scranno, con la mitria in capo e il pastorale in mano, circondato solo da maschi.

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20 Commenti

  1. Aldo Ciaralli 5 dicembre 2024
  2. Marco 2 dicembre 2024
  3. Emanuele 1 dicembre 2024
  4. Gian Piero 1 dicembre 2024
    • Aldo Ciaralli 5 dicembre 2024
  5. Ervens Mengelle 1 dicembre 2024
  6. Claudio Santi 30 novembre 2024
  7. Marco 29 novembre 2024
    • Marco 29 novembre 2024
      • Marco 30 novembre 2024
        • Marco 30 novembre 2024
          • Marco 2 dicembre 2024
          • anima errante 2 dicembre 2024
        • Pietro 30 novembre 2024
          • Gian Piero 1 dicembre 2024
          • Anima errante 2 dicembre 2024
          • Marco 2 dicembre 2024
        • Aldo Ciaralli 8 dicembre 2024
      • Giovanni Di Simone 2 dicembre 2024
  8. 68ina felice 29 novembre 2024

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