Uno dei miei maestri di filosofia, il compianto Salvatore Veca, mostra come il sapere, non solo filosofico, proceda attraverso l’incontro e la tensione tra il coltivatore di memorie e l’esploratore di connessioni. L’esploratore è sempre pronto a cogliere i nessi che legano idee e fenomeni spesso distanti e lontani. Egli lega, associa eventi, pensieri, suggestioni, crea ponti, stabilisce connubi.
È un innovatore. Crea, come un artista, “mosaici”, immagini inedite a partire da tessere preesistenti. Rischia, come un vero scopritore di nuovi mondi, apre sentieri mai battuti prima. Il coltivatore di memorie fa tesoro del patrimonio culturale acquisito, lo custodisce, lo feconda. Egli, ad esempio, smaschera i falsi novatori, coloro che spacciano per nuove verità già acquisite.
Ecco, in un contesto assai diverso, e con altri obiettivi, anche la psicoterapia sembrerebbe procedere in modo simile. Mi riferisco soprattutto a quella psicodinamica, di matrice psicoanalitica. Paziente e terapeuta provano a esplorare territori poco battuti o impervi, servendosi delle cosiddette “libere associazioni” di idee (quelle che io amo definire più o meno libere).
È un po’ come nei sogni: New York può venir accostata a Pechino, gli Inuit incontrano gli aborigeni d’Australia, un ricordo lontano evoca un episodio di ieri. Tutto ciò richiama il modo di procedere dell’esploratore di connessioni. D’altro canto, durante un percorso terapeutico in genere viene valorizzato il racconto biografico, la narrazione di sé, spesso legata a memorie vicine e lontane, anche familiari. E qui si pone l’analogia con il coltivatore di memorie. Si tratta, infatti, di custodire e attualizzare tracce di un passato recente o remoto.
Le due figure tratteggiate da Veca, cioè, sembrerebbero agire, in forme differenti, anche nella stanza di psicoterapia.
C’è di più.
L’esploratore di connessioni, sempre pronto a cogliere i collegamenti, magari sottili e sotterranei, fra figure, idee e concetti, è tentato di intrappolarli in risposte ultime, mentre il coltivatore di memorie, forte di un sapere che sfida i millenni, prova a ricollocarli nella dimensione del “penultimo”. Così dalla tensione e dall’integrazione fra tali due modi di procedere e di filosofare trovano un senso e un ritmo le costruzioni teoriche. Anche in psicoterapia terapeuta e paziente possono restar come folgorati dalle loro “associazioni” e ipotesi, scambiandole per una rivelazione: ecco, abbiamo capito cosa ci sia dietro questo o quel comportamento, ad esempio.
Per contro, è come se la saggezza del “coltivatore di memorie” mitigasse gli entusiasmi e relativizzasse la portata delle acquisizioni inedite. Le “costruzioni” di paziente e analista vengono ricollocate nel loro alveo naturale, come ipotesi di lavoro, suggestioni, spunti, stimoli. Non andrebbero scambiate con le essenze ultime delle cose. Si tratta piuttosto di piste, tracce, allusioni. Anche qui, insomma, roba da collocare magari nella dimensione del “penultimo”, non dell’ultimo.
Quelle del coltivatore di memorie e dell’esploratore di connessioni, dunque, sono metafore. Del lavoro filosofico e, per certi versi, della psicoterapia. Metafore di un metodo, di un modo di procedere.
E, io direi, le loro valenze riguardano anche le nostre esistenze, personali e sociali. Chi di noi o quale gruppo umano, in misura maggiore o minore, non è tentato di esplorare nuovi territori, spazi altri, connettendo quelli già disponibili, e, nello stesso tempo, di salvaguardare le proprie acquisizioni, provando a non smarrirle?