Bose fra parresia e diritto

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La storia della comunità di Bose racconta un percorso ecclesiale pubblicamente travagliato sin dall’inizio. Negli ultimi anni l’abbiamo apprezzata come esperienza adulta, che è cresciuta e si è consolidata aprendo proprie case anche in altre parti d’Italia. L’intuizione del fondatore ha quindi prodotto i frutti desiderati. Nessuna famiglia è priva di conflitti: perciò anche i fratelli e le sorelle di Bose devono averne vissuti lungo gli anni della loro compagnia. Tutti sappiamo che la gestione dei conflitti è facilitata dal rispetto di regole condivise.

Il diritto va apprezzato per la sua funzione di gestore dei conflitti, e il diritto canonico in modo particolare per la sua funzione di strumento per la salvezza delle anime. Qualcuno forse pensa che il diritto canonico possa essere un ostacolo per l’esercizio dei carismi, e talvolta si preferisce seguire strade tortuose invece di quelle impostate dal diritto. Qualche esperienza ecclesiale si mostra talvolta allergica al linguaggio del diritto, che parla di diritti e di doveri trasparenti e chiari, perché teme che questo possa spegnere la vitalità dei carismi.

Tutti i fondatori delle esperienze ecclesiali hanno dovuto scegliere fra la libertà dell’inizio e l’istituzionalizzazione della crescita. Questa è l’origine delle Regole e degli Statuti che da sempre – non senza conflitti e sofferenze – caratterizzano la specificità della vita delle differenti comunità religiose. Le diversità di carismi si riflettono nella pluralità di regole proprie. Per il diritto canonico queste diversità ormai millenarie si concretizzano in poche forme tipiche, alle quali corrispondono proprie regole generali e particolari: le prelature personali, le associazioni pubbliche e le associazioni private, gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. La scelta della struttura determina anche il grado di autonomia e il livello di vigilanza esercitata dalle diverse autorità competenti.

Da questo punto di vista, Bose è avvolta nel mistero. La mancanza di questa informazione propedeutica blocca sul nascere ogni possibile efficace ragionamento giuridicamente rilevante. E’ ovvio che le regole previste per una  “associazione privata di fedeli di diritto diocesano” (ipotesi suffragata ad esempio qui), non corrispondono a quelle stabilite per un “istituto di vita consacrata” (ipotesi suggerita dal comune accostamento delle comunità di Bose a comunità monastiche). La reticenza dimostrata da tutti gli interessati a rivelare con esattezza quali siano le regole seguite da questa comunità non deputa a vantaggio della necessaria trasparenza che dovrebbe essere garantita di fronte a fatti di pubblica e comune rilevanza.

Qui vorrei aprire una parentesi. Qualcuno pensa che la vicenda di Bose sia un fatto privato che coinvolge solo i diretti interessati. Come dire: “i panni sporchi si lavano in casa”, ma la casa di Bose non può non essere la casa comune. Soprattutto se essa ha deciso di rendere pubblico il proprio travaglio interno. Il diritto canonico segue un antico e saggio precetto: “Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet”, che – al di là delle considerazioni più tecniche – rinvia al principio di parresia, tanto caro a papa Francesco. Senza parresia non c’è diritto.

Purtroppo, la vicenda di Bose è caratterizzata da una costante opacità, resa più oscura negli ultimi mesi. Sappiamo che le cose non vanno bene – questo è evidente – ma non sappiamo perché. Certamente, deve essere qualcosa di molto importante, se il papa stesso nel 2019 ha inviato dei visitatori apostolici, che sono stati accolti con piacere dalla “comunità monastica”, sebbene di per sé la visita apostolica costituisca un evento eccezionale che dimostra l’incapacità del soggetto visitato di provvedere autonomamente alle proprie necessità. Non si può non osservare che anche i decreti relativi a questa visita, e i provvedimenti conseguenti, sono rimasti sub secreto. E questo non è un bene.

Tuttavia, il pubblico ha potuto appassionarsi alla vicenda seguendo i comunicati emessi da più parti e molti autorevoli commenti ospitati su grandi organi di comunicazione. In primo luogo, abbiamo appreso dalla medesima “comunità monastica” che gli esiti della visita apostolica non sono stati commendevoli, tanto che il papa il 13 maggio 2020 ha emanato un Decreto singolare, approvato in forma specifica, col quale ha nominato uno psicologo suo Delegato pontificio (ad nutum Sanctae Sedis), e ha disposto l’allontanamento e la decadenza dai loro uffici di quattro membri della comunità, fra cui il fondatore.

I fatti in causa restano ignoti, ma la pesantezza delle sanzioni lascia propendere per una certa gravità. La linea comunicativa seguita dagli interessati è stata ambigua. Le informazioni sono state diffuse in modo parziale e unilaterale – a conferma di scarsa capacità comunicativa – come corredo di provvedimenti giuridici presentati come fatti intoccabili, assecondando così una pericolosa tendenza a usare il diritto come strumento di potere coercitivo.

Le cronache raccontano che gli interessati colpiti dal Decreto di allontanamento del 13 maggio hanno, in un primo tempo, opposto resistenza, ma poi hanno obbedito, ad eccezione del fondatore, che si è allontanato dalla vita comune pur rimanendo ad abitare in un eremo presso la sede centrale della comunità a Bose. In attesa – diceva – di ricevere i chiarimenti opportuni (a cui per la verità ha diritto).

Sotto il profilo giuridico è bene segnalare che i decreti singolari sono atti amministrativi disciplinati dal Codice di diritto canonico. Essi devono essere motivati e dati secondo le regole stabilite dal diritto, anche perché contro simili decreti è ammesso un ricorso amministrativo a tutela dei diritti delle parti. Si tratta di una vera e propria norma di civiltà giuridica entrata nella vita della Chiesa – dopo il Concilio Vaticano II – allo scopo di prevenire gli abusi di potere.

Visto dal versante statale, il Codice del 1983 esprime a riguardo solo qualche primo balbettio, che in ogni caso va nella direzione di assegnare linee direttive chiare a tutela di interessi giuridicamente protetti, che nella comunità ecclesiale talvolta sono travolti da logiche di sottomissione e obbedienza non necessariamente evangeliche. Ciononostante, il Regolamento generale della curia romana (emanato nel 1999) – forse per limitare l’appellabilità degli atti emanati dai Dicasteri romani[1] – ha avuto cura di precisare (art. 126) che – seguendo determinate condizioni previste dalla norma – un Dicastero può chiedere al Sommo Pontefice l’approvazione in forma specifica di un suo atto amministrativo, che recherà perciò la formula «in forma specifica approbavit», rendendolo con ciò inappellabile, dato che «non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (can 333, § 3).

Il Decreto singolare che ha colpito i fondatori di Bose è quindi protetto da questa eccezionale garanzia di stabilità, anche se non sappiamo a quale titolo sia intervenuta proprio la Segreteria di stato, circostanza che in ogni caso accresce la riferibilità del Decreto alla volontà del papa.

Che cosa stia succedendo a Bose continua a restare ignoto. Ma la querelle sollevata intorno al destino del suo fondatore, apparentemente inviso a una parte della comunità raccolta intorno al nuovo Priore liberamente eletto, e sostenuto dal Delegato apostolico, è continuata per altri mesi, finché un ennesimo comunicato – questa volta del Delegato apostolico – annuncia l’avvenuta emanazione di un ulteriore Decreto (del 4 gennaio 2021, che egli ha notificato all’interessato l’8 gennaio) che intima a Fr. Enzo Bianchi di trasferirsi nei locali della fraternità di Bose a Cellole, in Toscana, e alla Comunità di Bose «di interrompere a tempo indeterminato i legami con la “Fraternità Monastica di Bose a Cellole” […] la quale pertanto è stata chiusa e non può essere considerata come “Fraternità della Comunità Monastica di Bose”, fino a quando non si deciderà altrimenti».

Il Decreto impone anche la concessione in comodato gratuito a Fr. Enzo Bianchi della residenza di Cellole, dove egli si «dovrà recare entro e non oltre martedì 16 febbraio p.v.». Anche questo è un Decreto singolare, almeno per i toni, ma non sembra essere stato approvato in forma specifica dal papa. Sebbene – si legge – sia stato concordato col Priore della comunità e col vescovo toscano territorialmente competente. Devo ammettere che i toni del Decreto – come emergono dal comunicato – mi hanno meravigliato. Essi ricordano il peggiore stile poliziesco di cattiva memoria inquisitoria. In un incubo mi è apparso il Delegato apostolico che ordinava alle guardie svizzere di recarsi a Bose per tradurre il ribelle con i suoi in quel di Cellole, fino a nuovo e improbabile avviso.

In ogni caso, il termine è trascorso invano. I monaci e le monache di Bose ci hanno fatto sapere la loro sofferenza, e nulla più. Finché – colpo di scena – il 3 marzo la Sala stampa vaticana annuncia che il papa avrebbe ricevuto il Delegato e il Priore di Bose prima di partire per l’Iraq e ieri la stessa Sala stampa annuncia che il papa – dopo l’incontro – è rimasto del suo parere: perciò il Decreto del 13 maggio va eseguito, e la Comunità di Bose deve continuare il suo cammino di conversione. Dei due aspetti, a me colpisce soprattutto il secondo: cosa c’è che non va a Bose?

Per i canonisti la storia a questo punto trova un ennesimo punto fermo: Roma locuta, causa finita. Tuttavia, questa vicenda – a prescindere da come e se finirà – lascia l’amaro in bocca. Bose è stata per molti un riferimento spirituale importante. Segno di freschezza evangelica e rinnovata presenza monastica nel mondo. Nessuno si scandalizzerebbe se il cammino di questi fratelli e sorelle è affaticato, sofferente e bisognoso di conversione. La libertà evangelica di Bose, la sua liturgia, la vita monastica di fratelli e sorelle battezzati in Cristo ha testimoniato l’adesione alla regola evangelica (di altre regole? non si sa) senza bisogno di ricorrere al potere.

Purtroppo, oggi Bose ci fa invece scontrare con le strettoie antiche dell’uso autoritativo del potere clericale. Essa si fa forte della forma contro la sostanza. Domanda obbedienza cieca mentre nasconde la verità dei fatti. E anche il papa a questo punto si trova vittima dell’esercizio di un potere apparentemente senza limiti, che sfugge persino alle regole del diritto canonico. Roma locuta, causa finita non è una sentenza, ma una tentazione ricorrente di cui ci si dovrebbe liberare. Essa si presenta come una coperta sulla trasparenza. Oscura persino il coraggio di un viaggio apostolico senza precedenti. Verrebbe voglia di non sapere. Di fare finta di niente. Di minimizzare. Di lasciare Bose al suo destino. Ma bisogna avere invece il coraggio di gridare sui tetti, di fare entrare la luce, di discutere di diritti e di doveri reciproci.[2]

P.S.

Dopo la chiusura di questo post è stato reso pubblico un comunicato di Enzo Bianchi che, a mio modesto parere, ne rafforza il contenuto.

Pubblicato sul sito dell’Università di Pisa, qui.


[1] In questo senso G.P. Montini, L’approvazione in forma specifica di un atto impugnato, in Periodica de re canonica, 2018, pp. 37-72.

[2] Per maneggiare diritti e doveri servono giuristi. Ma questo è un altro discorso ancora, che prima o poi bisognerà pur fare. In loro mancanza, ecco dove siamo arrivati.

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5 Commenti

  1. Lorenzo M. 15 marzo 2021
  2. Cesare Pavesio 15 marzo 2021
  3. Alan 9 marzo 2021
  4. Gian Luca 9 marzo 2021
  5. SAVIO GIRELLI 9 marzo 2021

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