
Il capitolo V dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco è dedicato alle politiche della fratellanza come tecnica volta a realizzare un’amicizia sociale capace di maneggiare in modo costruttivo e creativo la conflittualità che circola all’interno del corpo delle società umane. Le democrazie uscite dalle due grandi rivoluzioni moderne sono sostanzialmente imperniate sul binomio libertà-uguaglianza quali diritti esclusivi delle nascenti classi borghesi commerciali e imprenditoriali. In vario modo, dunque, la fraternità sembra essere la grande esclusa dall’esperimento democratico occidentale.
Inoltre, uguaglianza e libertà sono diritti rivolti all’individuo e hanno finito per dare forma a un soggetto insulare, senza legami e passioni sociali. La fraternità, invece, si rivolge al collettivo e permette di non perdere di vista il senso del valore espresso da libertà e uguaglianza (Rawls). La riscoperta tardo-moderna della fraternità, come correttivo al dominio dei liberi e uguali che hanno (e quindi sono… soggetti dei diritti) su tutti coloro che non hanno o hanno meno, si è sostanzialmente scontrata con la difficoltà a inquadrarla negli schemi giuridici e politici tipici della modernità.
Le società neo-liberali odierne, sottoposte all’ingiunzione tecno-finanziaria dei nuovi poteri digitali, secondo Francesco, «parlano di rispetto per la libertà, ma senza la radice di una narrazione comune» (FT 163). Il tema del «comune» rimanda, nell’orizzonte di pensiero di papa Francesco, alla categoria di popolo che è centrale sia per il suo immaginario ecclesiale sia per quello sociale. Questa categoria di popolo è stata spesso criticata e sovente mal compresa – con essa, infatti, Francesco intende dire che la società «è più della mera somma degli individui» (FT 157). Ossia, che i legami sociali, le relazioni umane e le interazioni comuni non sono dei semplici accidenti di soggetti che sarebbero perfettamente sussistenti in sé stessi. Il carattere personale dell’essere umano si genera esattamente in ragione di un suo essere in «comune» altrettanto originario – e, quindi, portatore di diritti che eccedono la sfera puramente individuale.
Per papa Francesco, la tenuta stessa della forma democratica del vivere-insieme fra molti diversi tra di loro dipende dalla capacità politica di riattivare la sua dimensione popolare e fraterna. Riattivazione, questa, che implica ben più di un semplice aggiustamento dell’ordine democratico prodotto dalla modernità occidentale perché imperniata su una pratica della fraternità come ragione operativa di libertà e uguaglianza.
Far parte di un popolo, ossia essere più che un soggetto insulare, significa essere «parte di una identità comune» (aperta e dinamica) fatta di legami sociali e culturali pronti ad ampliarsi grazie all’incontro con altre pratiche culturali dell’umano che è comune a tutti noi. «Questo – scrive papa Francesco – non è una cosa scontata, anzi è un processo lento verso un progetto comune» (FT 158).
Legare la fraternità alle dinamiche culturali di popolo, in vista di un progetto comune ospitale, significa intenderla come «fraternità di fine» – ossia quella che risulta da partiche comuni condivise dal corpo sociale che cerca effettivamente quel bene che sostiene lo sviluppo integrale di tutti i soggetti coinvolti in esse.
Nella visione di papa Francesco, la narrazione culturale che costituisce un popolo implica una dimensione aperta delle pratiche nelle quali vengono assunte «nuove sintesi che le rendono ospitali a ciò che è diverso» (cf. FT 160). Il corpo sociale fraterno così inteso, non si chiude a riccio su sé stesso logorandosi nel gioco di contrapposizioni interne, ma è aperto all’ospitalità decentrata di cui è immagine il poliedro. Nel poliedro, secondo papa Francesco, ogni voce trova ascolto e ogni concezione di vita trova il suo posto – senza totalizzazione, ma in interconnessione con le altre visioni e stili del vivere umano (cf. FT 190).
Il poliedro infatti «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità […]. È l’unione dei popoli che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità: è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti» (Evangelii gaudium 236). Mantenendo le parzialità, il poliedro non nega l’«antagonismo sociale» né cerca di annullare il conflitto che costituisce il corpo vivente della società umana; piuttosto, opera per incanalare queste forze originarie all’interno di processi costruttivi del «comune» che riguarda tutti quanti. Fa questo perché abitato dalla consapevolezza che nell’uniformità dell’uguale, nel regno della medesimezza, si finisce per «fagocitarsi culturalmente gli uni gli altri» (FT 191).
La fraternità, come forza socio-politica ospitale dei molti in vista dell’elaborazione di una narrazione comune, implica quindi il conflitto dei racconti a cui chiede di riconoscersi nella loro parzialità, per fare di questo antagonismo narrativo la tessitura di un vivere-insieme che non elimina l’originalità di ciascuno di essi. Di questa forza fraterna, oggi, la democrazia ha bisogno urgente per non cedere alla tentazione autoritaria di una solo presunta soluzione definitiva del conflitto – mediante la localizzazione del negativo in un gruppo sociale o un attore politico, la cui eliminazione garantirebbe la grande bellezza di una società senza alcuna opacità conflittuale (solo gli uguali nella medesimezza messianica del monarca dei tempi ultimi).
L’originalità della democrazia è quella di aver sciolto in nesso che legava il potere a un corpo (del re, del tiranno, di un gruppo sociale), così che il sito del potere rimanesse vuoto, occupabile solo temporaneamente ma non più incorporabile definitivamente. Sotto questo punto di vista, il cristianesimo rappresenta la forma più radicale di democrazia, perché con la morte e risurrezione di Gesù il posto/potere di Dio non solo non è più incorporabile da qualsiasi potenza mondana, ma non può essere occupato da nessuno anche solo temporaneamente. Fedeltà alla democrazia significa dunque attivare politiche che custodiscano il sito vuoto del potere proprio nel momento in cui si entra temporaneamente in esso; ossia, abitarlo non come un bene proprio ma come quel «comune» indisponibile alla volontà di potenza di alcuni sugli altri.
In questa prospettiva, il poliedro come spazio di confluenza delle parzialità che impedisce la totalizzazione di una sulle altre e le dispone al lavorare-insieme per dare forma a una narrazione comune, assume anche un significato squisitamente politico – nel senso della «true democracy» di Simon Critchely. La vera democrazia consiste nel «lavorare insieme verso il controllo del posto da cui si parla e in cui si agisce; lavorare insieme in una situazione concreta come soggetto politico impegnato in un piano, un luogo, uno spazio, un processo, un evento. […] Si tratta dell’articolazione politica di questi spazi in un fronte comune».
Il contributo politico dei cattolici alla Costituzione italiana
Politiche della fraternità così intese sono spesso derise e dichiarate impossibili in nome della Realpolitik, da un lato, e da una sorta di naturalizzazione dell’egemonia delle ragioni economiche sulle pratiche politiche, dall’altro. Oggi è proprio il ceto erede della borghesia moderna ad affermare l’impossibilità di una seconda «rivoluzione democratica» (Yannis Stavrakakis) di cui essa fu pur sempre l’artefice principale. E nei suoi momenti migliori anche la Realpolitik è stata capace o si è dovuta piegare alla forza delle politiche della fraternità.
La nascita della Repubblica italiana si deve proprio alla confluenza poliedrica di parzialità politiche e culturali che hanno lavorato insieme per redigere quella narrazione comune fondante che è la Costituzione. Sarebbe non solo interessante, ma anche politicamente necessario oggi leggere i lavori dell’Assemblea Costituente (1946-1948) attraverso la lente delle politiche della fraternità: perché ne emergerebbe un quadro capace di riattivare il meglio della tradizione democratica verso quella «true democracy» che sempre deve ancora venire – e si attesta nelle sue attuazioni contingenti senza essere mai realizzata da esse.
Il contributo che i giuristi cattolici diedero all’insieme della Costituzione, in particolare per ciò che concerne i «principi fondamentali» raccolti nei suoi primi dodici articoli, mi sembra essere una delle realizzazioni più alte di quella «migliore politica» descritta da papa Francesco in Fratelli tutti. Apporto che declinò insieme, con grande intelligenza politica, la forza della fraternità e le ragioni della Realpolitik.
Nell’Assemblea Costituente soggetti politici diversi lavorarono insieme per redigere una Costituzione che fosse fedele alla realtà sociale del paese e capace di fare dell’antagonismo politico del corpo sociale un elemento costruttivo della cittadinanza comune del popolo italiano. A essa i cattolici parteciparono senza voler occupare tutto lo spazio giuridico costituzionale con la dottrina cattolica, ma introducendo in esso quell’umanesimo fraterno che trova la sua radice nel Vangelo – lavorando insieme con altre tradizioni culturali e politiche. In quegli anni si trattava di far nascere la Repubblica come unità concreta, non imposta dall’alto, e quindi bisognava che la sua carta costituzionale cogliesse i nessi già presenti nella società italiana. Fu Giorgio La Pira a indicare tre cardini architettonici della Costituzione che non erano creati in laboratorio ma colti nel corpo sociale italiano: personalismo; organicismo; e pluralismo. Intorno a essi fu possibile raccogliere un consenso e porli come architrave della redigenda Costituzione.
Fu Aldo Moro a sostenere che fosse importante esplicitare quel referente ideologico davvero comune a tutta l’Assemblea e a tutti i soggetti politici che la componevano – inteso non solo a evitare la possibilità di un nuovo autoritarismo totale, ma anche a dare un fondamento anti-fascista alla nuova Repubblica. «Questo elementare substrato ideologico nel quale tutti noi uomini della democrazia possiamo convenire, si ricollega appunto alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità e della solidarietà sociale». E continuava affermando che la nuova Costituzione nasceva dalla negazione del fascismo per affermare i «valori supremi della dignità umana e della vita sociale». È chiaro che qui Moro metteva in luce quel legame costitutivo che esiste fra l’originalità di ogni esistenza umana e il suo praticarsi concreto all’interno di una multiformità di corpi sociali – tra i quali anche ma non solo lo stato.
Negare il fascismo significava anche lasciarsi alle spalle una certa idea di stato, come si premurò più volte di richiamare La Pira – sia in sottocommissione che in sede di Assemblea generale. Si trattava di dare vita a un nuovo stato che, da un lato, nel primato della Costituzione impediva una sua regressione totalitaria e autoritaria. «Questi principi [espressi poi nei primi 12 articoli] sono la chiave di volta della nostra Costituzione. […] Veramente fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere la formula di una convivenza, significa fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello stato. […] Si può dare un’espressione tangibile a questa immutabilità, la quale è stata affermata così autorevolmente da un maestro quale l’onorevole Calamandrei, proprio ponendo nella Costituzione questi principi, ponendoli nella Costituzione come norme di legge e facendoli superiori alla legge ordinaria e inattingibili da essa. […] L’effetto giuridico è quello di vincolare il legislatore, di imporre al futuro legislatore di attenersi a questi criteri supremi che sono permanentemente validi. Ciò significa stabilire la superiorità della determinazione in sede di Costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari» (Aldo Moro).
Si dava in tal modo forma non solo al nuovo stato italiano, ma anche al suo carattere costitutivo di essere uno stato costituzionale – sottratto nei suoi principi portanti non solo alle effimere maggioranze parlamentari ma anche a una comprensione della democrazia come mera espressione della volontà popolare. In questo modo, la Costituzione chiede al popolo italiano come primo compito politico quello di trovare, nella contingenza dei momenti storici, sempre di nuovo una «formula di convivenza» – ossia di esercitare l’antagonismo sociale nello spazio costituzionale di politiche della fraternità.
E così andava pensata anche la concezione del nuovo stato italiano, opponendosi a quella che vedeva nello stato «l’unica unità sostanziale» e non una unità di relazione. Secondo La Pira questo stato, che lui chiama hegeliano, rende impossibile affermare l’anteriorità della persona umana allo stato stesso e, quindi, la rende soggetta allo stato per ciò che concerne i suoi diritti – che sarebbero soltanto riflessi, ossia conferiti dal potere dello stato e da esso sempre revocabili. Questo stato, sottolineava La Pira, «elimina in radice la libertà umana» e fa della persona un mezzo a disposizione della volontà statale. Si doveva quindi perseguire una concezione dello stato come «forma essenziale, fondamentale, della solidarietà umana» (Aldo Moro).
Cercando un termine che fosse capace di esprimere i diritti fondamentali della persona umana come diritti originari, non derivati e non conferiti, La Pira ricorre all’antropologia della grande scolastica la cui visione permette di affermare il «valore trascendente della persona umana sul corpo sociale». Solo in tal modo si potranno affermare diritti propriamente originari della persona – anteriori allo stato che sarà chiamato a riconoscerli e proteggerli. Bisogna ricordare che il personalismo cattolico non è l’individualismo monadico a cui approda il pensiero moderno del soggetto. La Pira lo afferma nel medesimo intervento in Assemblea generale, quando ricorda, richiamandosi ancora una volta a Tommaso e alla scolastica, che la persona è al tempo stesso in «relazione reale con gli altri» – cioè abitata da una relazionalità che non dipende dalla volontà del singolo e si articola organicamente nei corpi sociali (compreso lo stato).
A dire il vero, nella Summa contra gentile, Tommaso offre una nozione ancora più forte di relazionalità: quella della relazione sussistente – ossia una relazione che fa sussistere il soggetto stesso in quanto tale. L’essere relazione reale/sussistente lega, altrettanto originariamente, la persona umana al corpo sociale e a quei corpi intermedi in cui si sviluppa organicamente la sua personalità. Che questo sia l’orizzonte inteso da La Pira, lo si può cogliere nella sua forte rivendicazione di inserimento dei diritti sociali all’interno della Costituzione italiana.
Si esce quindi dal monismo democratico del costituzionalismo moderno (americano e francese) per entrare nel costituzionalismo sociale proprio alla Repubblica italiana (e ad altre costituzioni scritte dopo la II Guerra mondiale): «Bisogna limitarsi alla affermazione di quei diritti naturali di eguaglianza e di libertà (civili e politiche) contenuti nelle carte costituzionali americane e francesi? O, invece, accanto a questi diritti, cosiddetti individuali, bisogna affermare i cosiddetti diritti sociali che sono per la persona umana altrettanto essenziali quanto i primi? La risposta è evidente: la grave lacuna che si trova nelle Costituzioni precedenti va eliminata. Senza la tutela dei diritti sociali – diritto al lavoro, al riposo, all’assistenza, ecc. – la libertà e l’indipendenza della persona non sono affettivamente garantite» (Giorgio La Pira). Senza riconoscimento dei diritti sociali, quelli individuali potranno al più essere affermati in linea teorica ma non goduti concretamente dai cittadini della Repubblica italiana.
La tutela costituzionale dei diritti sociali implica, secondo La Pira, «mutamenti strutturali dell’ordinamento giuridico, economico e politico […] questi mutamenti sociali – che sono richiesti da una concezione sostanzialmente democratica dello stato – permetteranno l’attuazione dei diritti sociali e renderanno così effettiva l’autonomia e l’indipendenza anche politica della persona».
Fra la persona umana e il corpo sociale sussiste, dunque, un rapporto organico. È questa la base su cui La Pira sviluppa la necessità di introdurre nella Costituzione italiana anche il riferimento ai cosiddetti corpi intermedi: «Accogliendo la concezione organicista della società che vede frapposte organicamente e progressivamente fra i singoli e lo stato le comunità naturali attraverso le quali la personalità umana ordinatamente si svolge» – per cui «nel sistema integrale dei dritti della persona bisogna includere anche i diritti essenziali di queste comunità naturali».
Su questo tema, La Pira tornerà anche in sede di Assemblea generale nel marzo del 1947. A questo suo discorso Moro si richiama direttamente per riaffermare la «concezione del pluralismo sociale e giuridico» che dovrà caratterizzare la nascente Repubblica italiana. Secondo Moro, La Pira «ha chiarito questa caratteristica considerazione della società, la quale non è unica, non è monopolizzata dallo stato, ma si svolge liberamente e variamente nelle forme più imprevedute, soprattutto in quelle fondamentali, che corrispondono più pienamente alle esigenze della personalità umana. [Si tratta] della dignità della persona considerata nelle formazioni sociali nelle quali essa si esprime e si compie […]. Sta di fatto che la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali, quando si siano svolte pure con il concorso della società, hanno una loro consistenza e non c’è politica di stato veramente libero e democratico che possa prescindere da questo problema fondamentale e delicatissimo di stabilire, fra le personalità e le formazioni sociali, da un lato, e lo stato, dall’altro, dei confini, delle zone di rispetto, dei raccordi. E io insisto su questo punto: quello dei raccordi da stabilire, perché, quando noi parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nel suo mondo. Non intendiamo di attribuire a esse un’autonomia che rappresenti uno splendido isolamento. Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale».
L’immaginario di politiche della fraternità, disegnato da papa Francesco in Fratelli tutti, mi sembra essere un invito a rinnovare, in contesti geopolitici profondamente mutati, le prassi che ci sono state lasciate in eredità dai costituenti italiani approdate a quei dodici principi che fissano il quadro costituzionale di tutte le politiche a venire.
Francesco ha colto benissimo la necessità di dover dare vita a un nuovo soggetto politico che nella condivisione associata di pratiche fraterne che sappiano pensare i nessi di cui parlava Aldo Moro e immaginare un ordinamento mondiale che sappia rendere giustizia alla dignità originaria di ogni essere umano – che è individuale e sociale al tempo stesso: «La buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per evitare i suoi effetti disgreganti» (FT 182).
- Ringrazio i miei studenti e studentesse di Reggio Emilia per aver colto il nesso fra le politiche della fraternità e la Costituzione italiana. Questo articolo è frutto del lavoro fatto insieme su questo tema.






Sembra quasi impossibile trovarsi a dover aggiungere che il valore politico sia della lettera che dello spirito della Costituzione della Repubblica quali sono in essere dall’immediato dopoguerra devono essere riaffermati intangibili nei loro presupposti, prima di voler provare ad amaggiormente trarre qualsiasi progetto innovativo a favore di una comune serena strutturazione della convivenza relazionale su questo territorio, mirando a cogliere le possibilità di apporti, adeguamenti e cambiamenti nel senso dei “perfezionamenti” sociali che la storia non può cessare di proporre. Ogni giorno avvengono molteplici morti sul lavoro e omicidi di soggetti femminili, e anche per questo mi sembra inutile sottilizzare se nello Stato tra le persone debba circolare maggiormente un sentimento di fraternità o di attaccamento ai diritti inalienabili. Per stabilire una cesura, nel 2022 in Italia la premessa antifascista è venuta meno, , una volta accomodatosi al governo un partito che non si fa scrupolo di contare trai suoi ministri i nomi noti di personalità che a proposito della costruzione della propria immagine pubblica non hanno mai rinnegato la prosecuzione dello squadrismo che dall’inizio del Novecento ha iniziato a creare lutti. Non meno di quarantott’ore fa dall’Emilia-Romagna (peraltro da non moltissimo tempo arresa e scarsamente soccorsa dall’istituzione di fronte a diversi disastri alluvionali) proprio di un analogo squadrismo abbiamo dovuto sentir riecheggiare gli accenti in un canto mussoliniano della prima ora nelle strade di Parma, città che, come Reggio Emilia lo è stata mezzo secolo fa a causa della violenza stragista dello stesso segno, è politicamente martire e per la sua attività di Resistenza decorata alla conclusione della seconda guerra mondiale. Poiché la cronaca è così monotonamente incalzante da soli o in più d’uno pare per ora difficile recuperare il respiro sufficiente a formulare in qualsiasi tono una risposta organica e degna di tale e tanta documentazione.