Afghanistan nel vuoto silenzio

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Intervista al dottor Alberto Cairo – a lungo responsabile del programma di riabilitazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan – e ancora nel Paese governato dai Talebani con la ONG italiana Nove, mentre continua la collaborazione con C.R. per l’assistenza – sanitaria e sociale – dei disabili e mutilati di guerra, a Kabul e in gran parte del territorio afgano.

  • Alberto, come ci hai raccontato due anni fa, sei in Afghanistan dal 1990. Non te ne sei andato neppure con l’avvento dei Talebani al potere. Conti ancora di restare?

Anche se questi ultimi anni sono stati particolarmente difficili, conto ancora di restare. Sono stati due anni difficili soprattutto perché ho visto e continuo a vedere la condizione della popolazione peggiorare senza prospettive di un futuro migliore. Questa gente si è vista sottoposta a progressive restrizioni, senza sentirsi aiutata, nelle loro vite di ogni giorno, dal governo dei Talebani.

Anche per me, qui, straniero, col mio lavoro di assistenza – anche se non sono mai stato osteggiato – non è per niente facile respirare un clima “ufficiale” che non manifesta alcun senso di apprezzamento e di collaborazione da parte dei Talebani. Perciò mi sono chiesto più volte cosa fare: ma ogni volta la determinazione di restare è stata, almeno sino ad ora, la più forte.

Dopo tanti anni – andarmene – mi apparirebbe un tradimento per questa gente, fra cui ho instaurato legami profondi. C’è molto da fare, posso ancora essere utile, il lavoro con le persone regala gratificazioni: non posso andarmene ora. Naturalmente verrà il giorno in cui dovrò farlo, causa forza maggiore. Il tempo passa veloce. Invecchio.

  • Nell’intervista del 2 settembre 2021 (qui), ci eri apparso più possibilista circa i Talebani e loro aperture.

In tanti anni e cambi di regime, qui ho visto situazioni di ogni tipo, di violenza e dolore. Sapevo che la transizione avrebbe riservato nuovo dolore. Ma speravo. Gli stessi Talebani – o alcuni tra loro – dicevano di non essere più quelli di vent’anni fa. Francamente mi aspettavo qualche apertura, che purtroppo non c’è stata.

C’è da capire anche il “perché” di tutto questo: la cosiddetta comunità internazionale si è sempre più irrigidita nei loro confronti e parimenti questi Talebani si sono sempre più irrigiditi. È difficile, se non impossibile, stabilire un nesso di causa ed effetto. Sta di fatto che, giorno per giorno, mese per mese, l’Afghanistan è calato nel rigore più cupo e nel vuoto silenzio vuoto mostrato al mondo intero con l’abolizione della musica, per decreto.

  • Mentre il lavoro con i disabili e coi mutilati come va?

Il nostro lavoro non è cambiato. Le vittime delle mine sparse – a volontà – nel territorio sono ancora tantissime. Ogni anno tra le 500 e le 550 nuove persone si rivolgono ai nostri Centri perché hanno perduto arti – braccia e/o gambe – nelle esplosioni: nei primi otto mesi dell’anno si calcolano 1.500 incidenti. Gli ordigni risalgono alle pose di due e più anni fa. Ci sono tantissimi ordigni inesplosi. Ce n’è, di questo passo, per altri vent’anni, almeno.

Il numero dei nuovi pazienti che ogni anno si rivolge ai nostri Centri va da 15.000 a 18.000, di cui il 30% bambini con paralisi cerebrali: si aggiungono ai 220.000 già parte del programma di assistenza. Da questo punto di vista – quello dei grandi bisogni – non è cambiato proprio nulla.

Ospedali e sanità
  • Ci dicevi che Croce Rossa stava impiegando molto personale femminile locale: è ancora così?

Tra il 2021 e il 2022 una parte significativa del nostro personale ci ha lasciato, soprattutto donne: ma non per effetto dei decreti sul lavoro femminile o perché abbiano subito pressioni da parte della opinione pubblica. Si trattava spesso di donne che erano state nostre pazienti, quindi con qualche disabilità, donne che avevamo formato per divenire tecniche ortopediche e fisioterapiste.

Avevamo fatto su di loro investimenti importanti, di anni. Se ne sono andate perché sono riuscite, spesso senza dirci la verità, ad andare all’estero. Ora si trovano in Germania, in altri Paesi europei piuttosto che negli Stati Uniti o in Australia. Io le ho capite e mi fa piacere che si siano sistemate altrove. Certamente hanno messo i nostri servizi in seria difficoltà per un certo periodo. Siamo comunque riusciti a sostituire tutto il personale. Ora stiamo funzionando come prima. Le donne costituiscono ancora gran parte del nostro personale. Non subiscono – per questo nostro lavoro di cura – minacce dai Talebani.

  • Ospedali pubblici: ce ne sono e funzionano in qualche modo?

Sin da subito, circa due anni fa, il governo dei Talebani ha dichiarato di non avere soldi per pagare gli stipendi dei suoi dipendenti negli ospedali. Perciò, le Organizzazioni internazionali, tra cui C.R., hanno deciso di farsi carico anche degli stipendi del personale sanitario pubblico: C.R. ha sostenuto 33 ospedali; le Nazioni Unite hanno fatto la stessa cosa per altri ospedali.

Ora, però, le difficoltà si fanno serie per tutti: questo mese di agosto sarà l’ultimo in cui C.R. potrà intervenire; anche i donatori statali delle Nazioni Unite si sono defilati. Il mondo sembra non avere più soldi da donare all’Afghanistan. Ciò avrà conseguenze facilmente prevedibili: i medici e il personale sanitario in genere diserterà gli ospedali pubblici e andrà in quelli privati. Il rischio del collasso è dietro l’angolo.

  • Ci sono ospedali privati in Afghanistan?  

Sì, ci sono e non sono pochi. A parte gli ospedali di Emergency che funzionano e sono gratuiti (ma sono pochi) sono nati molti servizi sanitari ospedalieri privati – per iniziativa dei pochi facoltosi afgani e pakistani – chiaramente a pagamento: ci sono famiglie e persone che possono metterselo, altre che si indebitano pur di avere le cure per i congiunti, ma la maggior parte della gente – povera – non ci può andare e quindi non ha e non avrà le cure.

Società
  • La situazione sociale, insieme a quella sanitaria, qual è?

La Banca Mondiale rileva che qualche indice economico dell’Afghanistan è migliorato, ad esempio le esportazioni: francamente non so verso dove, certamente non verso l’Europa e l’Occidente. Ma se pure è così, questo non significa di fatto nulla per la maggior parte della popolazione, che è povera e sempre più povera.

Basti pensare a tutti i lavori che sono scomparsi. L’aver proibito, ad esempio, gli esercizi di bellezza femminile – parrucchiere, estetiste, ecc. – ha spazzato via qualcosa come 60.000 piccole imprese a conduzione famigliare: 100.000 donne sono rimaste, di colpo, senza lavoro. Forse tutto questo si sarà trasferito nel chiuso delle case o, forse, no.

Tutte le insegnati, o quasi, sono pure rimaste senza lavoro. Gli esempi possono essere poi altri, anche sul versante maschile. Tutto questo senza che sia stato minimamente pensato un piano economico alternativo per far fronte alla perdita di lavoro e quindi di introiti da parte delle famiglie.

Non solo: i Talebani sono molto abili almeno in una cosa, ossia a far pagare le tasse, a spremere la gente già povera.

Il risultato è che in Afghanistan abbiamo, per certo, circa 3 milioni di bambini sotto i 10 anni in stato di malnutrizione: è un dato che impressiona o che dovrebbe impressionare tutti.

  • Croce Rossa è una delle poche organizzazioni che sono sempre rimaste in Afghanistan. Altre sono tornate?

Comprensibilmente, molte grandi organizzazioni, che si sono ritenute a rischio due anni fa, se ne sono andate: anche alcune Istituzioni cattoliche. Un deciso movimento di ritorno, ora, direi proprio che non c’è, per le ragioni generali a cui ho accennato. Soprattutto le organizzazioni dedicate alla condizione femminile incontrerebbero oggi molte più difficoltà, con tutti i divieti introdotti dai Talebani.

Non conosco organismi cattolici che siano ritornati qui. Le poche formazioni cristiane di cui ho qualche notizia lavorano in ambiti rurali sperduti, molto lontani dalle città.

  • Le piccole organizzazioni come NOVE Onlus, a cui appartieni, cosa posso fare in Afghanistan?

Le piccole organizzazioni non possono certo avere l’impatto delle più grandi, ma hanno un ruolo comunque importante in Afghanistan, specie per la loro “agilità” o capacità di occuparsi di situazioni molto in dettaglio.

NOVE Onlus cura programmi per donne e per persone con disabilità: non potendo più occuparsi di istruzione femminile, a causa dei divieti, offre assistenza a donne capofamiglia in gravi difficoltà economiche; sostiene inoltre alcuni orfanotrofi e continua a finanziare lo sport per persone disabili, in particolare il basket in carrozzina, organizzando allenamenti e tornei. Lo sport ha un effetto straordinario sulle persone con disabilità.

Religione
  • Come viene usata la carta religiosa islamica da parte dei Talebani?

I Talebani – pur con significative differenze tra loro – sono tutti sunniti. Vedono di pessimo occhio i pochi sciiti presenti nel Paese e ancor peggio gli ismaeliti che considerano veramente eretici. Appaiono quindi più interessati alle questioni religiose interne all’universo musulmano che alle religioni altre. In fondo non sentono il bisogno di avere a che fare con le altre religioni: semplicemente le ignorano.

La loro propaganda è contro tutto ciò che è occidentale. Dentro quella propaganda, c’è tutto. A loro non interessa, ad esempio, se io sono cristiano o cosa sono: sono uno straniero, un occidentale, e questo basta per non cercare con me alcun dialogo.

  • Come sviluppano – i Talebani – la loro campagna contro l’Occidente?

Non so molto perché non li seguo, ma so che ci sono canali internet dei Talebani: tutto il giorno divulgano la stessa tiritera. La televisione un tempo più libera – la Tolo – ora è super controllata dalla propaganda; la televisione nazionale, ovviamente, pure. Io non ho la televisione: non vi si trova neppure un po’ di musica, un po’ di cultura; questo è molto triste.

  • C’è gente che dall’Afghanistan scappa ancora via?

Non c’è settimana che non sappia di conoscenti – soprattutto giovani figli di conoscenti – che partono. Se chiedessimo a tutti i giovani afgani sotto i vent’anni se vogliono partire, la percentuale dei “sì” sarebbe altissima. Cosa può pensare un giovane in un Paese in cui le possibilità di studiare, di fare un buon lavoro, di andare in giro e persino di ascoltare un po’ di musica, sono limitate o proibite? E tutto questo senza che i giovani possano intravvedere prospettiva alcuna.

Il problema è che non è affatto facile partire. Una – davvero – esigua minoranza cerca di percorrere i canali legali di emigrazione/immigrazione, ma servono mesi e anni per ottenere i permessi. Perciò i giovani scappano e si mettono nelle mani dei trafficanti: attraverso l’Iran e la Turchia, verso le rotte balcanica o mediterranea. Qualcuno poi finisce – come è finito – morto sulle spiagge italiane di Cutro. Basta vedere il numero di morti afgani nel mare nostrum.

  • La discriminazione delle donne com’è percepita dalle stesse afgane?

Penso che le percezioni e le consapevolezze siano molto diverse tra estreme zone rurali e città. In certe zone la condizione delle donne non è mai cambiata. Non escono mai di casa, se non scortate, vivono e fanno figli, poi muoiono. Non si aspettano altro dalla vita.

Nelle città la situazione è diversa, pur in mille gradi diversi. Nelle città anche i padri – anche quelli conservatori che stanno dalla parte dei Talebani – riescono a capire che non è giusta la discriminazione che colpisce le loro figlie che non possono andare a scuola. Anche loro arrivano a capire che avere una figlia istruita è un bene per tutta la famiglia, oltre che per il futuro marito e la figlia stessa.

Le percezioni sono dunque diverse, ma direi che è cresciuta e sta crescendo la consapevolezza di tante donne e tante famiglie che abitano soprattutto nelle città, ossia la maggior parte.

  • In che misura una tale chiusura, per non dire ottusità, può essere indotta o provocata dall’atteggiamento di condanna – di sanzione – che l’Occidente tiene nei confronti dell’Afghanistan dei Talebani?

È una domanda a cui è difficile rispondere con sicurezza. Come ho detto l’irrigidimento dei Talebani su certe questioni di principio è andato di pari passo con l’atteggiamento tenuto dall’Occidente e, in fondo, tenuto da tutta la comunità internazionale nei loro confronti. La questione della donna è emblematica. Penso proprio che – nel clima della contrapposizione ideologica ingeneratasi – sia quasi impossibile capirsi: è un dialogo tra sordi, anzi non c’è stato e non c’è proprio alcun dialogo.

  • I 9 miliardi di dollari che giacciono nelle casse delle banche occidentali – e che dovrebbero tornare alla banca centrale afgana (qui) – non tornano, gli aiuti internazionali per la popolazione, come hai detto, vanno ad esaurirsi, le sanzioni commerciali non si allentano: ci sono altri modi, secondo te, per rapportarsi a questo Paese?  

Penso che i Paesi democratici non possano e non debbano rinunciare a tenere alta l’attenzione sui diritti umani fondamentali anche in Afghanistan. Sicuramente c’è modo e modo. Per quanto sia difficile, bisogna trovare un modo per comunicare anche con i Talebani che governano questo Paese e questa povera gente. I Talebani costituiscono solo una parte di una popolazione molto più ricca di etnie. Non creare le condizioni della cura delle persone e, naturalmente, della buona alimentazione dei bambini non è mai, ritengo, un buon metodo per arrivare alla comprensione e alla soluzione di qualche problema.

Spero che la politica – con la diplomazia – internazionale non voglia dimenticare l’Afghanistan (come sembra stia accadendo) e voglia altresì tentare la via della comunicazione e del dialogo: un modo ci deve pur essere per comunicare, se siamo tutti umani.

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