Amazzonia: preoccupati, ma determinati

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Dario Bossi è religioso comboniano in Brasile. Dopo dieci anni passati nel Maranhão – Stato interessato da intense estrazioni minerarie –, è impegnato nella difesa dei diritti ambientali dei popoli. Lavora per la rete ecclesiale pan-amazzonica (REPAM) e nella pastorale sociale della Conferenza dei vescovi brasiliani. Giordano Cavallari gli ha posto alcune domande sulla preparazione e sugli esiti del Vertice degli otto Paesi amazzonici (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela), svoltosi l’8 e il 9 agosto a Belém do Pará per iniziativa del Presidente brasiliano Lula, dedicato al tema della protezione dell’Amazzonia.

dario bossi

  • Padre Dario, quanto avete potuto seguire forse partecipare al vertice degli Stati amazzonici?

Da gennaio – ossia da quando ci siamo resi conto che i Presidenti stavano preparando questo vertice – ci siamo mobilitati come rete ecclesiale pan-amazzonica (REPAM), insieme alla società civile di tutti i Paesi interessati, per far sentire la nostra voce: la voce delle popolazioni. Non poteva darsi, infatti, che si parlasse delle sorti dell’Amazzonia senza ascoltare i popoli che vivono dentro e accanto alla grande foresta.

Siamo riusciti a ottenere uno spazio di partecipazione in preparazione al vertice, organizzando cinque assemblee tematiche e tre assemblee trasversali col coinvolgimento complessivo di 30.000 persone, in rapporto coi governi. Per conto nostro, invece, abbiamo promosso l’Assemblea dei popoli della terra per l’Amazzonia e una grande marcia con 5.000 persone partecipanti, proprio nei giorni in cui è avvenuto l’incontro politico. Per effetto della mobilitazione, sei nostri delegati sono stati ufficialmente ricevuti dai politici e hanno potuto consegnare il nostro piano e le nostre istanze (qui) per la salvaguardia della foresta.

Stiamo lavorando per la continuità del metodo partecipativo nell’ambito dell’OTCA (l’Organizzazione per il Trattato della Cooperazione Amazzonica), lo stesso nel quale ha avuto luogo l’incontro ufficiale. Bisogna evitare in tutti i modi che ogni Paese proceda da sé e per sé, ora che è stato ripristinato e istituito questo spazio collettivo di confronto e di decisione. Il prossimo grande incontro sarà nel 2025. Noi non smetteremo di impegnarci, soprattutto perché l’OTCA sia un’OTCA sociale, cioè dotata di una rappresentanza permanente dei popoli presso il livello politico dei Presidenti. La mobilitazione ecclesiale e civile ha ottenuto buoni risultati sul piano del metodo. Dirò poi dei contenuti.

  • Il tema ambientale è dunque ben avvertito tra i popoli e le Chiese dell’Amazzonia?

La percezione è che la situazione sia così grave per la gente da non poter attendere e sopportare i tempi lunghi e inefficienti della politica. Siamo convinti che solo la mobilitazione e la partecipazione possano smuovere le inerzie e le resistenze molto forti della politica e, naturalmente, dell’economia. Tengo a precisare che il movimento dei popoli a riguardo non è solo ecclesiale e non vede soltanto l’impegno della rete ecclesiale pan-amazzonica: vi sono altri coordinamenti sociali che stanno lavorando molto bene insieme. Mi sembra un dato molto importante.

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  • Veniamo ai contenuti e alle conclusioni del Vertice: quali valutazioni ne state facendo?

In pochi giorni abbiamo prodotto un documento di valutazione (qui) sulla comunicazione politica finale del Vertice. Le nostre valutazioni non sono soltanto negative. Di positivo rileviamo il fatto che è stato ripristinato – dopo 14 anni – un organismo di cooperazione ambientale tra i Paesi amazzonici, messo fortemente in crisi dai governi di destra. Va dato atto ai Presidenti Lula e Petro (Colombia) di aver voluto questo Vertice e di aver affrontato non poche difficoltà per portarlo a termine: la partecipazione popolare non era da tutti gradita e dunque scontata.

Alcune decisioni prese non sono trascurabili: nel nostro documento apprezziamo la decisione collettiva degli Stati di contrastare il narcotraffico nell’Amazzonia con comuni strategie e scambio di informazioni; apprezziamo pure la risoluzione dello scambio dei dati scientifici sullo stato di salute della foresta, delle acque, dei terreni devastati dalla ricerca illegale dell’oro.

Di negativo – e qui la nostra critica è pesante – c’è la realtà di un accordo raggiunto solo al ribasso rispetto alle nostre aspettative. Va detto che gli accordi dell’OTCA possono essere raggiunti soltanto all’unanimità. Sui grandi obiettivi l’accordo non c’è stato. Perciò le conclusioni politiche risultano vaghe. Puntavamo al raggiungimento dell’obiettivo «disboscamento zero» da parte di tutti gli otto Paesi amazzonici da raggiungere nel 2030. Si tratta di un obiettivo già adottato dal Brasile e dalla Colombia, ma non dagli altri Paesi. L’altro grande obiettivo era e resta la riduzione progressiva – sino alla sospensione – dell’estrazione mineraria e petrolifera in Amazzonia: ma di questo, purtroppo, nelle conclusioni del Vertice non si parla assolutamente. Siamo molto rattristati ma non rassegnati; anzi, intendiamo rilanciare la nostra protesta e il nostro impegno.

  • Come giudicate, in particolare, l’operato del governo brasiliano, apparso ad alcuni commentatori ecclesiali piuttosto contraddittorio, per non dire ambiguo?

Bisogna ricordare che l’attuale governo brasiliano è composto da un fronte politico ampio e diversificato: è stato costruito sulla sconfitta dell’estrema destra e sui quattro anni di fascismo precedenti. È quindi un governo fragile, che ha grande difficoltà a costruire una linea condivisa, specie sui temi sociali e ambientali: di fatto, vive disputando giorno per giorno, tema per tema. Per questa ragione riteniamo determinante la manifestazione della volontà delle comunità cristiane nella società civile brasiliana. Bisogna far rumore, gridare, richiamare l’attenzione, anche della comunità internazionale.

  • Cosa state gridando dal Brasile e dai Paesi amazzonici alla comunità internazionale?

Stiamo gridando da tempo che bisogna porre argine e fine al sistema sviluppista fondato sull’estrattivismo: non ne va soltanto delle sorti della foresta amazzonica e dei suoi popoli ma anche – come ormai dovremmo sapere tutti – delle sorti del creato e dell’umanità intera. Il decennio che stiamo vivendo è quello decisivo per il clima globale. La foresta amazzonica è un sito mondiale decisivo per il clima e per l’aria che tutti respiriamo, in tutto il mondo.

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  • Qualche risultato concreto è stato ottenuto?

Le pressioni civili sono riuscite a far sospendere il nuovo progetto di estrazione alla foce del Rio delle Amazzoni: l’Istituto brasiliano per l’Ambiente non ha concesso la licenza alla Compagnia petrolifera interessata; ma è certo che questa tornerà all’attacco per aprire i pozzi. E noi cercheremo ancora di resistere. Per farlo, abbiamo bisogno della condivisione e del sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Il 20 agosto prossimo si terrà in Ecuador un referendum per evitare che si vada a scavare nel Parco nazionale di Yasuni per estrarre il petrolio. Questa cosa si deve sapere, perché è una questione che interessa tutto il mondo. Se il petrolio resterà sottoterra ne trarrà beneficio tutta l’umanità. C’è bisogno, dunque, dell’aiuto concreto di tutta la comunità internazionale per vincere queste «buone battaglie».

  • Si riuscirà mai a vincere, secondo te, la sfida dell’ambiente globale o gli interessi economici sono troppo forti, in Brasile, in America Latina, ovunque?

Non sono naturalmente in grado di rispondere a una domanda così grande. Ciò di cui sono convinto è che dobbiamo continuare a combattere queste buone battaglie, quotidianamente. Abbiamo preparato un programma concreto di azioni da ora alla COP 30 che si terrà proprio a Belém, qui in Brasile. Dobbiamo rimanere costantemente mobilitati. In fondo sono i governi stessi ad aver bisogno della nostra mobilitazione e della forza dei popoli e della società civile per avere ragione di chi, nel mondo, manovra i capitali e gli interessi.

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