L’area semantica del termine dedizione comprende quelli di SERVIZIO, CURA, OBBEDIENZA. Questo lessico evoca da un lato la detronizzazione dell’ego e dall’altro la valorizzazione delle esigenze e degli appelli che promanano dal nostro status presbiterale.
Si contrappone all’agire con DEDIZIONE, l’atteggiamento di autosufficienza di chi tenta di tradurre in realtà un piano arbitrariamente pensato senza curarsi delle esigenze oggettive del ministero.
A tal riguardo Meister Eckart[1] afferma che si dovrebbe essere indipendenti dal proprio volere e completamente immersi nell’amorevole bontà divina per poter compiere un’opera possente e perfetta. Chi ha rinunciato ad ogni arbitrio e alla ricerca del proprio tornaconto, può dedicarsi al ministero.
La capacità di avvertire le esigenze oggettive del ministero va di pari passo con l’abnegazione del proprio egocentrismo e lo sviluppo del senso comunitario o “senso del noi”. Si tratta di “perdere se stessi”, facendo riecheggiare l’espressione evangelica: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9, 24).
Non si dica di noi quello che Massimo Recalcati afferma degli uomini religiosi contemporanei di Gesù: “Gli uomini religiosi non sanno, infatti, cosa significa spendere tutta la propria vita nell’amore, non sanno cosa significa desiderare e amare la vita. Il loro risentimento li avvelena, la loro impotenza li intossica, la loro tristezza li inaridisce”[2].
Per crescere nella dedizione prima di tutto è necessario un appassionato amore per la vita e per tutto quanto è vivo. L’evangelista Giovanni ci riferisce l’obiettivo dell’incarnazione di Gesù. “Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza” (Gv 10, 10).
“La vita non si esaurisce mai per Gesù nella sua semplice presenza perché la sua meta non è la sua autoconservazione – la difesa securitaria della sua esistenza –, ma la realizzazione di una eccedenza”[3].
Erich From parla di biofilia e di etica biofila. “Biofilia è l’appassionato amore per la vita e per tutto quanto è vivo; è il desiderio di far crescere una persona, una pianta, un’idea o un gruppo sociale. La persona biofila preferisce costruire piuttosto che tesaurizzare. È capace di meravigliarsi e preferisce vedere qualcosa di nuovo piuttosto che veder riconfermato l’antico. Ama l’avventura di vivere più della certezza. Vede l’insieme e non le parti, le strutture e non le sommatorie. Vuole modellare e influenzare con l’amore, la ragione, l’esempio; non con la forza, facendo a pezzi le cose, non con l’amministrare burocraticamente le persone come se fossero cose. Poiché gode della vita in tutte le sue manifestazioni, non è un appassionato consumatore di eccitazione confezionata di fresco (…). Il contrario della biofilia è la necrofilia, il risultato di una vita non vissuta, dell’incapacità di spingersi oltre un certo stadio, oltre il narcisismo e l’indifferenza”[4].
Vittorino Andreoli afferma che “la maggior parte di noi è affetta dalla “fatica di vivere”. Siamo sempre in azione e mai soddisfatti, destinati a rincorrere un futuro che non c’è e forse non ci sarà mai, spinti nella lotta per il potere dalle nostre ambizioni, dalla paura dell’insuccesso o perfino della morte”[5].
Per noi presbiteri vivere bene significa vivere in modo sapiente, cioè dare sapore alle nostre giornate. Vivere con gusto. È il gusto che deve rivenire dal nostro spenderci per gli altri, animati dalla dedizione per gli altri.
La celebrazione quotidiana dell’Eucaristia è un richiamo costante a vivere la nostra vita come un dono per gli altri. È nell’Eucaristia che troviamo la forza e la gioia per affrontare le sfide quotidiane e per servire i nostri fratelli con generosità e dedizione.
La dedizione va di pari passo però con “l’abnegazione di sé”. Si tratta di mettere in disparte l’interesse individuale. Vivere l’oblio dell’ego e aver a cuore le esigenze della comunità a noi affidata. La ricezione di tali esigenze porta all’impegno e alla responsabilità, cioè a dare “risposta” alle esigenze stesse.
È quanto leggiamo nel testo di 1Re 3,5-14 a proposito del sogno di Salomone che chiede a Dio ciò che attiene al suo ruolo di re e di guida del popolo tralasciando altri desideri individuali come la longevità, la ricchezza, la vittoria sui nemici. La fama di Salomone appare una conseguenza della sua dedizione saggia e disinteressata al ruolo di guida del popolo.
Dedizione e bilanciamento delle motivazioni: il buon samaritano
Riguardo alla dedizione distinguo due diverse tipologie di attività di noi presbiteri: da una parte le attività miranti a realizzare obiettivi concreti. Queste azioni sono guidate dalla ragione e orientate al risultato, all’efficienza, al raggiungimento di scopi definiti. Tuttavia, se ci si dedica esclusivamente a questo tipo di attività, si rischia di ridurre la complessità dell’essere umano a un semplice strumento per il successo materiale, perdendo di vista la sua dimensione spirituale e relazionale. L’ossessione per il risultato, infatti, può portarci a considerare le persone come mezzi per raggiungere fini, generando alienazione e distacco emotivo.
Dall’altro lato vi sono azioni che si definiscono in base alla relazione che stabiliscono tra due o più individui. Sono attività che si fondano sull’essenza delle relazioni tra le persone, dove la finalità non è un obiettivo esterno, ma l’arricchimento reciproco, l’ascolto e la comprensione profonda. Queste azioni riconoscono l’unicità e la dignità spirituale di ogni individuo, creando connessioni autentiche e significative. Nel contesto spirituale, tali relazioni ci avvicinano all’altro in modo genuino, ricordandoci che l’essere umano non è solo un agente che opera nel mondo per ottenere qualcosa, ma anche un essere che vive attraverso l’incontro, l’amore e la solidarietà.
Se è vero che l’essere umano ha bisogno di agire e creare nel mondo per dare un senso alla propria esistenza, è altrettanto vero che questo agire deve essere temperato e integrato da una dimensione spirituale che onora la relazione con l’altro. Senza questo equilibrio, il rischio è la frammentazione della persona, la sua riduzione a mera funzione.
In un orizzonte spirituale, dunque, l’arte di bilanciare queste due forme di attività risiede nella capacità di agire senza perdere il senso del sacro che abita ogni relazione umana. È un richiamo a operare nel mondo con consapevolezza e compassione, cercando l’efficacia ma senza mai sacrificare la dignità dell’altro e l’amore che ci lega, come parte di una stessa realtà spirituale condivisa.
Come bilanciare i due tipi di attività? Prendo spunto dalla parabola del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,29-37), comunemente citata come esempio di dedizione al prossimo. Troviamo qui il confronto tra due tipi di comportamento: quello del sacerdote e del levita che procedono oltre senza curarsi dell’uomo abbandonato mezzo morto dai briganti; quello del samaritano che invece si prende cura di lui.
Il sacerdote e il levita possono essere considerati come la personificazione della dedizione assoluta ai rispettivi compiti, dedizione che non ammette deroghe, neppure quella di fermarsi a soccorrere un ferito. Sembra di trovarsi di fronte a persone quasi preda di un demone esclusivo, secondo l’accezione aristotelica. Lontane quindi dall’eudemonia che consenta di mettere in equilibrio le varie componenti del parlamento interiore.
Il samaritano, invece, benché impegnato in un suo progetto di viaggio, è pronto ad interromperlo per occuparsi del ferito. La cura diviene l’agire prioritario del momento presente. Mi pare interessante sottolineare che egli, dopo averlo portato in una locanda e personalmente curato per una giornata, estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai di più te lo rifonderò al mio ritorno”.
Dunque il samaritano, un commerciante, secondo gli esegeti, non trascura il suo progetto originario e le motivazioni ad esso sottese; delega all’albergatore il compito della cura e prosegue nel suo viaggio. Egli quindi ha trovato un modo per conciliare le varie motivazioni in gioco, quelle personali e quelle dettate dai bisogni dell’altro.
La parabola del buon samaritano ci introduce al concetto di “distribuzione del carico di cura” tra più persone. Potrebbe inserirsi a questo livello il concetto di corresponsabilità e sinodalità, ma anche la questione del burn out del clero. L’ossessione dell’iperattività e la tendenza sempre più forte al multitasking arrivano a produrre disturbi di natura depressiva e nevrotica[6].
Il contrario della dedizione
Mi soffermo brevemente a distinguere tra contrario logico e contrario psicologico. Il contrario logico è ciò che si oppone a una virtù o una emozione. Per esempio, il contrario logico dell’amore è l’odio. Il contrario psicologico è ciò che inibisce, impedisce, la pratica di una virtù. Per esempio, la volontà di potenza o il narcisismo impediscono di amare.
Il contrario logico della dedizione sarebbe il taedium operandi (accidia), secondo la terminologia scolastica. Il contrario psicologico è costituito dalla fuga nella fantasia. Tale fuga è descritta in modo pregnante da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov (Libro secondo, capitolo IV). Si tratta del dialogo tra lo starec Zosima e la madre della giovane Lise.
“Non di rado nelle mie fantasticherie ho formulato piani appassionati per servire l’umanità e forse mi sarei davvero fatto crocifiggere per gli uomini, se ce ne fosse stato improvvisamente bisogno, ma intanto non sono capace di vivere due giorni nella stessa stanza con qualcuno, e lo so per esperienza. Non appena qualcuno mi sta vicino, subito la sua personalità soffoca il mio amor proprio e limita la mia libertà. In sole ventiquattr’ore arrivo ad odiare le persone migliori del mondo: uno perché è troppo lento a pranzo, l’altro perché ha il raffreddore e si soffia il naso di continuo. Divento nemico degli uomini non appena qualcuno mi sfiora. In compenso avviene sempre che più odio gli uomini presi singolarmente, più ardente diventa il mio amore per l’umanità in generale”».
Quanto più cresce l’insofferenza, fino ad un vero e proprio odio, per il prossimo concreto, tanto più l’ego si gonfia di amore per l’umanità astratta e il proprio narcisismo risulta appagato da questa fantasia altruistica. In realtà si tratta di una fuga dalla dedizione genuina per rifugiarsi in fantasticherie e sogni ad occhi aperti dove la persona si identifica con un ideale dell’io di eroe o di santo e perde contemporaneamente i contatti con gli sta attorno.
La dedizione espressione di amore
L’evangelista Giovanni vedeva in visione – nel libro dell’Apocalisse – il fervore ed il raffreddamento; il cammino apostolico fatto di fedeltà e di tradimento della Chiesa di Laodicea (Ap. 3, 14-22) e dice: “conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza. Hai molto sopportato per il mio nome senza stancarti. Hai molto sopportato per il mio nome ho però da rimproverarti, hai abbandonato il tuo amore di prima!”.
L’amore di questa Chiesa per il suo Signore conosce la fatica, il sudore, la persecuzione, il maltrattamento e il sangue. Nonostante tutto, era una chiesa che ha saputo resistere a tante tentazioni ma, tutte le esperienze negative del suo cammino di fede le avevano fatto dimenticare il suo amore: il cuore di questa Chiesa s’è raffreddato!
Giovanni mette nella bocca di Gesù e lo fa dire così a questa Chiesa: vedi che non sei come prima perché prima mi amavi di più; prima facevi più sacrifici per me ed eri più generosa; prima eri pronta a mettere in gioco e compromettere la tua vita per me; sì prima eri pronta a salire sulla croce per Lui e per il mio Regno; ora non più. Ora, hai dimenticato il tuo primo amore. Sembri rassegnata, delusa e frustrata. E conclude con una esortazione di: “alzarsi, pentirsi, e camminare”.
Anche noi, come presbiteri, ma anche come comunità diocesana, come presbiterio, a volte manifestiamo segni di stanchezza nelle gambe. Il nostro zelo è meno entusiasta di prima.
La virtù dello zelo deve spronarci ad essere e a fare di più come. La causa del Regno di Dio ha bisogno di uno zelo fervente. Questa virtù, ovviamente riguarda tutti gli ambiti della nostra vita: pensieri, desideri, azioni pastorali e vita comunitaria; un fervore d’amore gratuito capace di cambiare il mondo.
La dedizione, lo zelo, fondamentalmente è espressione di amore. Il vero zelo, presente nel presbitero, lo fa diventare ‘apostolico’ perché fa superare barriere e frontiere e fa andare oltre ogni parziale realizzazione, specialmente nel campo dell’apostolato e del servizio.
Il libro dei Proverbi, però ci mette in guardia da un rischio: lo zelo (il desiderio ansioso) senza conoscenza (senza riflessione) non è una cosa buona (19,2). Quindi, lo zelo senza conoscenza è un correre a vuoto, un apostolato senza sostanza, un viaggio per il gusto di camminare.
Lo scopo ultimo dello zelo è la salvezza delle anime; questa virtù richiede compassione, disponibilità assoluta, generosità e tanti sacrifici e rinunce da parte nostra. Soprattutto, per noi presbiteri, si richiede una sensibilità spirituale e umana ai bisogni spirituali e materiali delle persone a noi affidate.
“(I sacerdoti) nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana (…) Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In” (LG 28; cfr. (F. Ciollaro, Linee pastorali per l’anno 2024-2025, p. 85).
Sorgente della dedizione
Fonte sorgiva è Dio stesso. Lo zelo nasce infatti dall’amore che Lui ha per noi e che noi cerchiamo di contraccambiare, impegnandoci in una risposta che vuole render gloria a Dio, ricercare la sua volontà, collaborare al compimento del suo Regno (cfr. il Padre Nostro).
Modello concreto è Cristo stesso. È il Cristo del Vangelo, che si riconosce ‘mandato dal Padre’ per evangelizzare, che sente compassione, e che spinge la Chiesa e la comunità a ‘rendere effettivo il Vangelo’.
I nemici della dedizione
Il nemico principale di questa virtù è “l’amore piegato in se stesso” (elefantiasi dell’ego). Ed è l’avversario principale della nostra vita spirituale ed apostolica. Questo amore egoista, si concentra su se stesso, si preoccupa della propria comfort zone e della propria comodità. È un amore mondano contrariamente al consiglio di Paolo: “non conformatevi a questo mondo” (Rm 12,2).
Questo amore piegato in se stesso ci rende in preda di atteggiamenti che agiscono in modo chiaro o nascosto per impedire la disponibilità e l’impegno nel vivere questa virtù. Essi sono:
- l’insensibilità: non permette di essere toccati dai bisogni e miserie, corporali e spirituali, del prossimo; si rimane indifferenti a ogni richiesta o necessità;
- l’asprezza e la durezza di cuore: fanno solo inasprire gli animi, mentre invece bisogna lasciarsi guidare da ‘viscere di misericordia’;
- le comodità, proprie di una vita borghese, di un adattarsi allo stile di vita del nostro tempo che fa considerare sorpassati i sacrifici e le rinunce richieste dal ministero;
- l’individualismo, che richiama l’egoismo, il proprio interesse e tornaconto: è pericoloso perché frena anche le forze e le potenzialità comunitarie, e può arrivare a rompere lo stesso dinamismo apostolico;
- l’orgoglio e la presunzione, che non fa mettere al centro dell’attenzione né Dio né gli altri, ma solo la realizzazione delle proprie aspettative e interessi;
- l’apatia spirituale, o tiepidezza,stato d’animo che impedisce di avanzare con audacia e confidenza sul cammino dietro a Cristo; ci vuole allora una ‘solida vita interiore’, diversamente tutto perde significato e colore e si trasforma in semplice attivismo;
- la pigrizia e l’accidia, che S. Vincenzo de’ Paoli definisce come il ‘vizio degli ecclesiastici ‘ ed è lo stato di vita che Dio più aborrisce! In Ap 3,16 si dice che Dio vomita dalla sua bocca chi è tiepido! La pigrizia si può camuffare sotto forma di equilibrio, di prudenza, di rispetto umano … Ma l’amore non si sottrae ai rischi. Li corre, perché “la carità non cerca se stessa”, non si accontenta, non cerca il comodo o l’interesse;
- l’ozio, nemico un po’ di tutte le virtù;
- lo zelo indiscreto: è lo zelo ansioso di accaparrare a sé la volontà altrui, il cui modello esemplare resta la manzoniana donna Prassede (I Promessi Sposi, capitolo XXVII); lo zelo indiscreto è la pretesa di voler cambiare subito gli altri; è non sapere attendere, non aver tempo per riflettere, non saper rispettare i ritmi di comprensione, crescita e conversione delle persone, mancando delle necessarie virtù della prudenza e della pazienza. Zelo indiscreto è anche voler abbracciare troppe cose, con il rischio di non riuscire a portare a giusto compimento nessuna iniziativa.
Manifestazioni dello zelo
Nei rapporti con Dio esso comporta la totalità di adesione di tutta la persona. Il Dio ‘geloso’ vuole tutto per sé, proprio come risposta al suo ‘aver donato tutto’. Nei confronti del prossimo, soprattutto da parte del presbitero, richiede tutta una serie di disposizioni e di altri atteggiamenti, umani e spirituali, che sono:
- la parresia, che è il coraggio nell’annunciare il Vangelo con libertà di parola (1Tes 2,2; 1Cor 3,12; 2Cor 3,12);
- l’accettazione della prova e della persecuzione (cfr. 2Cor 4,9-13);
- il costante e disinteressato servizio della Parola (cfr. Rom 15,16; Col 1,23);
- la ricerca di una comunicazione, che, ispirata dall’amore, sa assumere anche ‘toni materni’ (1Tes 2,2).
La dedizione o lo zelo indica il particolare clima di letizia e di fervore spirituale, in cui il presbitero è chiamato ad esprimere l’annuncio di Cristo e si salda con la carità.
Come si farebbe ad annunciare l’amore di Dio se si fosse fiacchi e indifferenti?
Come si potrebbe testimoniare l’amore di Dio se il proprio cuore fosse spento? Abbiamo ancor più oggi, in un contesto di indifferenza globalizzata, come spesso afferma papa Francesco, vibrare di calore spirituale e apostolico. Una carità senza calore umano non è carità piena. Un gesto di solidarietà senza una relazione piena di simpatia da persona a persona non è che una carità dimezzata. L’uomo diventa se stesso nella carità. Non si dà umanità autentica al di fuori della carità. L’insensibilità di fronte alle cose di Dio e alla salvezza del prossimo è un atteggiamento antievangelico.
Ce lo ricorda S. Vincenzo de’ Paoli: “L’ultimo nemico è l’indifferenza nelle cose di Dio e del prossimo. Un uomo che abbia questo vizio, non sente alcun affetto e non si sente per nulla attratto verso le cose che si riferiscono alla sua salvezza eterna …. Si va in chiesa per pregare, cantare, dire la messa e fare le altre funzioni ecclesiastiche, ma tutte queste funzioni si fanno senza sentimento, senza gusto, senza devozione.
Abbiamo lo zelo di edificare il popolo, facendogli vedere come dobbiamo trattare la parola di Dio, trattandola noi stessi come si deve; perché, credetemi, il popolo sta con rispetto in chiesa e fa conto della parola di Dio, se vede che anche noi la stimiamo. Ah! fratelli, se fossimo fedeli nel far bene le cerimonie e le preghiere, riceveremmo da Dio tal sensibilità, per cui ci animeremmo vicendevolmente alla devozione e gusteremmo con piacere le cerimonie; mentre, invece, senza questa sensibilità saremo di cattiva edificazione al prossimo. … Ah! fratelli, animiamoci di questo spirito, perché è esso che ci infiamma e saremo allora preservati dall’insensibilità. L’indifferenza c’impedisce anche di commuoverci dinanzi alle miserie materiali e spirituali del prossimo; non si ha carità, non si ha zelo, non si sentono le offese di Dio.
Eh! Non siamo di questi missionari privi di zelo! Altrimenti, se uno è mandato in missione, va; se si deve occupare degli ordinandi, lo fa; degli esercitanti egualmente; ma come se ne disimpegna? Dov’è lo zelo? Lo zelo è combattuto dall’insensibilità. Cerchiamo dunque di animarci dello spirito di fervore, facciamo tutte le funzioni della nostra comunità e facciamole con zelo, con coraggio, con devozione; abbiamo compassione di tante anime che periscono e non permettiamo che la nostra pigrizia e insensibilità siano causa della loro perdita” (Coste XII, 320-321).”.
La dedizione ovvero lo zelo costituisce, come la virtù della premura, un sottile crinale tra la vita attiva e quella contemplativa, tra il voler essere lievito nella pasta del mondo e il ritrarsi dalla vanità di esso.
Forse occorrerebbe avere le virtù di Maria dell’Incarnazione (Tours, 1599 – Québec, 1672), sposa e poi vedova e poi monaca, missionaria e contemplativa che nel nome stesso unisce le due vie, canonizzata nel 2014 da papa Francesco, della quale il biografo scriveva nel 1677: «Come gli impegni esteriori non disturbavano affatto l’unione interiore, così l’unione interiore non distraeva dagli impegni esteriori. Mai Marta e Maria furono meglio d’accordo che in lei, e la contemplazione dell’una non impediva l’azione dell’altra»[7].
[1] Discorso sulla distinzione
[2] M. Recalcati, La legge del desiderio, Rizzoli, Milano 2024, p. 6.
[3] M. Recalcati, La legge del desiderio, Rizzoli, Milano 2024, p. 18.
[4] E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, trad. Silvia Stefani, Mondadori, Milano 1975, pp. 454-455.
[5] V. Andreoli, La gioia di vivere, Rizzoli, Milano 2016, p. 6
[6] Cfr. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2020.
[7] «“Car comme les emplois extérieurs n’interrompaient point l’union intérieure, aussi l’union intérieure n’empêchait point les emplois extérieurs”. Jamais Marthe et Marie ne furent mieux d’accord en qui que ce fût, “et la contemplation de l’une ne mettait aucun empêchement à l’action de l’autre”», le parole del primo biografo, Claude Martin, 1681, sono riportate da Henri Bremond, Sainte Marie de l’Incarnation, in Histoire littéraire du sentiment religieux en France, vol. VI. La Conquête mystique, Paris, Bloud et Gay, 1933 (poi Paris, Cerf, 2014).