Mi piace prendere le mosse per questa riflessione da Dante, definito da papa Francesco nel VII centenario della morte, “profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo (…). Profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere”[1].
Preludio dantesco
Al culmine del suo viaggio celeste, Dante è chiamato a rendere conto della sua comprensione delle Virtù Teologali. In un confronto serrato con Pietro, Giacomo e Giovanni, il poeta dimostra la maturità del suo percorso spirituale.
Per circa sessanta versi, a partire dal verso 40 del Canto XXV del Paradiso, Dante affronta una serie di domande poste da San Giacomo. L’Apostolo, attraverso tre domande fondamentali, sonda l’animo del poeta.
“dì quel ch’ell’è, e come se ne ‘infiora la mente tua, e dì onde a te venne” (XXV, 46-47). |
“ciò che essa è, e come se ne adorna la tua mente, e di’ da dove ti venne” |
Il primo interrogativo (dì quel ch’ell’è) è primariamente di pertinenza dei filosofi e dei teologi e innesca una riflessione profonda.
Il secondo interrogativo (come se ne ‘infiora la mente tua) ci introduce nella prospettiva esistenziale: è come una nota musicale che invita Dante a cantare la melodia della sua speranza, con tutte le sue armonie e le sue dissonanze.
Il terzo quesito (dì onde a te venne) pone l’accento sulla prospettiva relazionale: esplora l’origine della speranza, sottolineando l’importanza delle relazioni umane e del contesto culturale nella formazione di questa virtù.
La voce di Dante risuona ancora oggi, invitandoci a intraprendere il nostro personale cammino alla ricerca della speranza. Il Giubileo ormai alle porte rappresenta un momento di connessione tra passato e presente, in cui il tema del pellegrinaggio e della speranza assume un significato particolarmente attuale, considerato che il tema è Pellegrini di speranza.
Anche noi, come Dante, pellegrini di speranza
La speranza è la scintilla che accende il fuoco della vita, spingendoci a superare le difficoltà e a inseguire i nostri sogni.
Riflettendo sull’origine etimologica della speranza, notiamo che essa racchiude l’idea di un movimento verso il bene. La speranza, vista come “desiderio” secondo la sua derivazione linguistica, appare come una spinta naturale.
Attraverso il desiderio, l’uomo analizza continuamente il futuro, minuto dopo minuto, proiettandosi su un cammino che auspica positivo. Questo slancio verso il bene, radicato nella natura umana, si manifesta come un bisogno fondamentale per la sopravvivenza.
In mezzo a tendenze di pessimismo e catastrofismo (o apocalittismo, come lo definirebbe il nuovo ministro della Cultura), che rischiano di oscurare il futuro, la speranza si presenta come un faro che guida l’umanità nell’oscurità.
Sperare diventa quindi un gesto di razionalità, un atto di fiducia nel potenziale positivo del futuro. Sebbene la storia mostri che la speranza può essere preceduta da delusioni, è proprio questa tensione tra speranza e realtà che rende la vita umana così intensa e affascinante.
In un mondo spesso segnato da malattie, guerre e sofferenze indicibili, la speranza si trasforma in una difesa contro l’oscurità, una forza che spinge le società a guardare verso un futuro più positivo.
La speranza è profondamente intrecciata con l’esistenza umana. È una forza che ha radici nella stessa natura biologica dell’individuo, aiutandolo a superare le difficoltà e a indicare la via verso il bene.
La speranza, quindi, non è semplicemente un desiderio; è una guida che indirizza il cammino dell’uomo, dando senso a ogni passo e trasformando ogni istante in un’occasione per sperare.
Un detto francese afferma che «Ogni cuore è abitato, o lo è stato almeno una volta, dalla speranza». La speranza rappresenta un forte slancio verso l’impegno nella realtà, ma è anche una forza potente capace di generare cambiamento.
In fatti una delle condizioni base della generatività è la speranza definita come “la prima e fondamentale virtù vitale che anima e pervade tutti gli stadi dell’esistenza umana”[2].
La speranza ha una natura visionaria, in grado di prevedere ciò che ancora non esiste, senza limitarsi a immaginare solo ciò che è già presente. Qualcosa sembra impossibile fino a quando qualcuno non riesce a concepirla e a impegnarsi affinché diventi realtà.
La speranza supera costantemente i limiti dell’evidente e si apre a ciò che, da quella prospettiva, potrebbe sembrare irraggiungibile. È proprio questa la sua potenza. La speranza è essenziale, poiché la vita si realizza pienamente nel costante superamento della realtà presente, rappresentando il contributo umano al completamento della creazione.
Speranza come virtù attiva
«È un po’ triste quando uno trova un prete senza speranza, mentre è bello trovarne uno che arriva alla fine della vita non con l’ottimismo ma con la speranza. Questo prete è attaccato a Gesù Cristo, e il popolo di Dio ha bisogno che noi preti diamo questo segno di speranza, viviamo questa speranza in Gesù che rifà tutto… Il Signore che è la speranza della gloria, che è il centro, che è la totalità, ci aiuti in questa strada: dare speranza, avere passione per la speranza» Papa Francesco, Discorso a braccio durante la visita a Cagliari, settembre 2013).
Nutrirsi di passione per la speranza significa non permettere che nessuna circostanza, per quanto negativa o deprimente, possa privarci della speranza. In questo contesto, la generatività è la forza che alimenta la speranza. Ogni situazione, anche nel dolore e nella confusione, ha il potenziale di evolvere in qualcosa di positivo.
Speranza come conoscenza
La speranza è anche un motore di conoscenza e di progresso. Essa ci rivela un mondo dinamico, in continua evoluzione e trasformazione, un mondo che può sempre cambiare rispetto a come è, in cui ogni istante – come aveva già sottolineato il filosofo Walter Benjamin – può rappresentare la piccola porta attraverso cui entra il messia[3].
Sperare significa quindi cercare di percepire il movimento delle cose, il loro evolversi, il nuovo che emerge dall’identico, anziché continuare a vedere sempre lo stesso nel cambiamento. Solo attraverso la speranza la ragione può essere veramente razionale.
La speranza, quindi, consente al pensiero di svilupparsi pienamente, seguendo la natura delle cose stesse, oltre l’immediatezza dell’istante presente. È la condizione che permette alla ragione di guardare oltre quell’immediatezza che, altrimenti, ci imprigionerebbe nel qui e ora, facendoci percepire ciò che ancora non esiste, quel qualcosa che manca nell’attimo vissuto.
Speranza come promessa di felicità
“Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia”[4], diceva Péguy. La speranza offre alla nostra vita, che è fragile e limitata, una prospettiva senza fine, eterna.
Questo concetto è rappresentato dal simbolo dell’àncora, che la tradizione cristiana ha sempre utilizzato per indicare la speranza; è un’immagine che si trova nella lettera agli Ebrei, dove viene espressa così:
«Nella speranza infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato». (Eb 6,19-20).
Per gli Ebrei, il Tempio di Gerusalemme rappresentava il luogo in cui Dio risiedeva tra il Suo popolo. La speranza, quindi, ci conduce nella dimora di Dio, nella Sua dimensione eterna e infinita.
L’autore della lettera agli Ebrei non utilizza l’immagine della roccia, ma quella dell’àncora, perché la speranza non elimina le difficoltà o le tempeste della vita, ma stabilisce un punto saldo che non crolla. Anche se siamo sballottati dalle difficoltà e dagli eventi della vita, non veniamo trascinati via.
Sant’Agostino affermava che un uomo non compirebbe nemmeno un passo se non avesse la certezza della meta. La speranza è saldamente legata a ciò che è oltre questa vita e ci guida verso il nostro destino, verso la pienezza, una meta che da soli non saremmo in grado di raggiungere.
La speranza è il compimento di qualcosa che già esiste nella nostra vita, di quel desiderio che ci definisce come esseri umani, quel «desiderio innato di felicità», come viene chiamato nel Catechismo della Chiesa Cattolica[5].
In noi è presente il desiderio di essere felici: è un movimento naturale della nostra esistenza che attende il suo pieno compimento, anche se non può realizzarlo da sola. Così, possiamo guardare a questa configurazione di promessa che sostiene il nostro essere nel mondo, nel presente, qui e ora.
La nota prima del fatto umano è questa: ognuno di noi scopre di essere nato, di essere stato lanciato nella vita «come incoercibile impeto a realizzare sé»[6].
È questa la prima nota, il primo accento del fatto umano: l’uomo è definito da questo impeto, ogni gesto ha questo movente. Giussani parla di “tumide istintività”.
Dalle istintività più profonde (“tumide istintività”) e dalle semplici soddisfazioni quotidiane, fino alle più nobili sollecitazioni della coscienza e alle più alte sfide del pensiero, una “forza operosa ci affatica di moto in moto” (come dice Foscolo), uno “spron quasi ci punge” (come afferma Leopardi), ci spinge verso la realizzazione del nostro seme originario, con un’intensa manifestazione di significato e di efficacia.
L’espressione «tumide istintività» porta dentro tutta la gamma dei tentativi consapevoli o spesso quasi incoscienti di realizzare noi stessi nello sfogo dell’istintività.
La «banalità delle comode espansioni» indica, se riflettiamo, la continua ricerca del divertimento a ogni costo, il desiderio di stare bene, l’ansia di essere apprezzati dagli altri.
Questo si manifesta, ad esempio, nel bisogno di condividere sui social le foto di tutto ciò che facciamo, come se queste immagini fossero un segno di una felicità tanto cercata ma sempre così difficile da raggiungere.
Anche noi ci chiudiamo spesso in cerchi senza via d’uscita, che iniziano da un desiderio genuino, ma poi non portano a nulla, ritornano su se stessi, lasciandoci più vuoti di quanto eravamo all’inizio.
Dobbiamo riconoscere che anche questi loop, con cui – bisogna dirlo – tutti facciamo i conti, in noi e negli altri, sono modi ridotti – e dannosi – in cui esprimiamo comunque la nostra umanità, mossi dalla stessa sete di realizzazione di sé per cui si muovono anche i più alti pensieri o le cose più nobili del nostro cuore. Siamo fatti così, sempre in moto verso un compimento.
Esiste un fenomeno fondamentale che esprime questo impulso originario: la brama, il desiderio. Il desiderio stesso è una promessa di realizzazione. Anche la promessa è un fatto, e il desiderio dimostra che essa è ciò che sta alla base di tutta l’esperienza umana. Il desiderio accende ogni nostra azione.
Accendere è l’atto di infondere vita, di far brillare e pulsare qualcosa, lanciandola in un’avventura alla ricerca del suo destino. Il desiderio, scintilla primordiale, è la promessa che guida ogni essere umano verso la propria realizzazione.
Siamo stati creati con un desiderio innato, una promessa inscritta nel nostro cuore. L’uomo è un essere che aspetta, che chiede, che cerca sempre qualcosa di più. La vita, in questo senso, è un continuo percorso verso un compimento che sembra sempre sfuggirci.
È l’esperienza di quel Leopardi che scriveva:
«Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia [uno direbbe che questa noia sia la cosa più brutta e invece…] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana»[7].
La nobiltà dell’uomo, rispetto a tutte le altre creature, per Leopardi sta proprio in questa contraddizione. Nel dramma di non trovare mai nulla che corrisponde alla ampiezza del desiderio, per cui «tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio». In questo emerge la sublimità del sentire, il «misterio eterno / dell’esser nostro»[8].
Quando comprendiamo che la nostra vita è un percorso segnato da promesse e desideri, e impariamo a fidarci di questa dinamica, instauriamo un legame profondo e ineluttabile con noi stessi e con il mondo. Questo ci porta a sviluppare un senso di sé che va oltre la semplice consapevolezza, diventando un amorevole riconoscimento del nostro destino.
Riconoscere la nostra sete di infinito ci porta a elevare uno sguardo al cielo. La preghiera è allora il nostro modo di entrare in relazione con il Mistero, di esprimere la nostra piccolezza e la nostra speranza.
I peccati contro la speranza
Riconoscere la mia impotenza nel realizzare appieno la mia vita e nel comprendere la promessa che essa racchiude mi spinge a una sincera richiesta d’aiuto. Divento un mendicante (essere indigente: G. Marcel), consapevole di non poter prevedere ciò che il futuro mi riserverà.
Attraverso la consapevolezza di Dio, il mio io rinasce, superando l’angoscia di un desiderio indefinito e l’attesa passiva di un mendicante. Si apre in me uno spazio di speranza, alimentato dalla promessa di un compimento che trascende la mia comprensione.
La speranza, virtù preziosa, è costantemente minacciata da una tristezza profonda, simile a quella descritta da San Paolo (tristitia saeculi: 2Cor 7,10), o da una pigrizia spirituale (acoedia), di cui parla San Tommaso. Queste disposizioni negative ci rendono incapaci di accogliere il senso positivo che è insito nella nostra natura. Proprio da questa chiusura nasce una serie di atteggiamenti che contraddicono la speranza, ovvero i peccati contro di essa.
La nostra incapacità di attendere nasce dal rifiuto di riconoscerci come creature in divenire, come promesse di un compimento futuro. Non accettiamo che questo compimento si realizzi secondo tempi e modi a noi sconosciuti, ma piuttosto secondo i disegni di un “Tu” più profondo di noi stessi.
La nostra incapacità di attendere è un segno di orgoglio spirituale, ma anche di un atteggiamento culturale che esalta l’autonomia individuale. Questa pretesa di autosufficienza ci rende sempre più restii ad accettare la compagnia misteriosa di Dio e ci spinge a voler controllare ogni aspetto della nostra vita, compresa la risposta ai nostri desideri.
A questo punto meritano un’analisi più approfondita gli atteggiamenti che scaturiscono da questa incapacità di attendere.
- Evagatio mentis
Il primo e più comune ostacolo è la evagatio mentis, la distrazione, intesa come quel ritirarsi in una mediocre apatia, lasciandosi trascinare da sentimenti banali o assorbiti dalle chiacchiere quotidiane.
La evagatio mentis ci porta ad accettare (pur consapevoli che non troveremo soddisfazione duratura) di cercare piccole gratificazioni, accumulandole una dopo l’altra alla fine della giornata, o nel tempo libero, come una forma di distrazione.
Così, nella nostra vita quotidiana, fatta di lavoro, relazioni, uso del tempo, dei social e dei soldi, rinunciamo facilmente a tutto ciò che ci richiamerebbe ai nostri ideali: la preghiera personale, l’amicizia presbiterale, la Messa quotidiana, e la liturgia delle ore.
Questi non sono solo peccati, ma anche limitazioni che soffocano la grandezza del nostro essere. L’insoddisfazione inevitabile dovrebbe essere un segno che ci spinge a ripartire, ma invece si trasforma in una evagatio mentis.
Invece di vedere l’insoddisfazione come un punto di partenza per aprirci agli altri, ci chiudiamo facilmente nella nostra sfera, o meglio, nella bolla di sapone di sogni che non hanno il respiro dell’infinito. Così prevale un cammino incerto, giustificato dal labirinto dei “se” e dei “ma”, dei “forse” e dei “mi piace” o “non mi piace”, che riduce il nostro cuore, imprigionandolo in una triste nebbia.
È questo un abitare i giorni che è scivoloso e paludoso. È la decadenza flaccida della nostra umanità, verso cui ci indirizziamo ogni giorno, senza accorgercene.
Questa negligenza verso noi stessi – che è anche orgogliosa, perché non chiede aiuto – rivela il nostro cedere a una forza malvagia, “la” forza del male, che cerca di separarci da Cristo staccandoci dalla nostra stessa umanità, facendoci sprofondare in una superficialità che diventa piena di dubbi.
- Riduzione del desiderio
Il secondo peccato contro la speranza è la perdita del desiderio di aspirare a cose grandi. In realtà, è la pretesa di voler misurare tutto con le proprie forze, di affrontare il peso di tutto solo con la propria volontà. È la presunzione che riduce le dimensioni dell’essere umano nel tentativo di affermarsi in modo ostinato.
Questo atteggiamento confonde il raggiungimento del desiderio con immagini che noi stessi creiamo: sarò felice se diventerò parroco, se riceverò riconoscimenti, se otterrò titoli accademici, se… se…
Si è tentati di pensare: «Sono io a decidere chi voglio essere»; in realtà, senza una relazione con un altro che possa completare il tuo io, rimani senza speranza e perdi la tua umanità.
La speranza nasce dall’incontro tra due persone, dentro una connessione profonda, in un “noi”, come quello che si crea nell’amicizia con Dio e con gli altri. Come affermava Freud, la speranza «è come una brace quasi spenta che può riaccendersi dal contatto con la fiamma di un altro»[9].
La pretesa di abbassare il livello del desiderio, riducendolo a qualcosa che decido io, sia una forma evidente di distruzione dell’umano.
«Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio [vedete? Il peccato non è l’infrazione di una regola, ma è distruggere noi stessi], che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita [Dio], anche ogni piccola cosa rivela il suo significato»[10].
Speranza e profezia
La speranza, come abbia visto, si associa alla fiducia nel bene, nel positivo, anche nella contingenza dei fallimenti e delle delusioni. Essa è perciò il contrario della rassegnazione e del pessimismo. Siamo chiamati non a essere ostaggio della rassegnazione, ma prigionieri della speranza (Zac 9,12).
La profezia è parola di verità che vuole farsi azione, che vuole incidere nel presente e nel futuro, è capacità di vedere oltre l’immediato; si associa alla lungimiranza, alla capacità di guardare avanti, alla novità.
La speranza è profetica quando, senza farsi ostacolare dalla paura di un presente buio e avverso, indica la via della promozione, dello sviluppo, dell’autentico progresso.
Per questo la speranza profetica è spesso incompresa o scambiata per utopia e sogno. Essa è il contrario dell’arroccamento sul passato, del ripiegamento, della nostalgia per un tempo andato; vede mete buone da raggiungere e per questo opera nel presente affinché la storia vada in quella direzione.
La storia se non è soltanto un susseguirsi di eventi accostati casualmente l’uno all’altro che ci fa precipitare nel nulla, ma è un’evoluzione caratterizzata da un senso buono che trascende l’esistenza del singolo e riguarda qualcosa di comune da costruire nel tempo.
Come un falco che plana sulle correnti d’aria, la fiducia ci sostiene nel nostro cammino. Nata dalla povertà della speranza, essa è un’aquila che ci porta oltre le vette più alte, verso un orizzonte senza confini, come recita un canto delle nostre assemblee liturgiche, dal titolo Su ali d’aquila:
E ti rialzerà, ti solleverà
su ali d’aquila ti reggerà
sulla brezza dell’alba ti farà brillar
come il sole, cosi nelle sue mani vivrai.
[1] Francesco, Candor lucis aeternae, 25 marzo 2022.
[2] E. H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1966, p.266.
[3] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Scritti filosofici, Einaudi 1995, p. 86.
[4] C. Péguy, I misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 167.
[5] CCC 1718.
[6] L. Giussani, Porta la speranza…, op. cit., p. 155.
[7] G. Leopardi, «Pensiero LXVIII», in Id., Poesie e prose, vol. II, Mondadori, Milano 19 80, p. 321.
[8] G. Leopardi, «Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima», vv. 22-23, in Id., Cara beltà…, BUR, Milano 2010, p. 96.
[9] S. Freud, Lettera del 21.7.1890.
[10] E. Varden, «Allargare il desiderio», intervista di A. Leonardi, Tracce, n. 3/2024, p. 18.
Grazie della lunga dissertazione sulla speranza. Personalmente, benché il mio carattere sia sempre stato portato all’ ottimismo (nell’ interpretare le possibilità che le cose portano in sé; nella risoluzione che, almeno in parte mi raffigura per i problemi che, dentro e fuori, si aggiungono continuamente, etc ) diffido quando ne temo un panegirico: che non sia legato a motivazioni retoriche, o superficialmente fondate sul nulla. Allora meglio non scomodare il richiamo a tanta altezza. Però mi è piaciuta la connessione con l’ istinto di sopravvivenza, sia perché con questo la definisce come necessaria, nome di un dato che ci è senz’ altro funzionale, sia perché così non porta con sé la pretesa di negare l’ amore per ciò che è piu’ profondamente parte di se stessi, appunto il desiderio che per sbaglio spesso chiamiamo volontà, e come tale la retorica di cui sopra – che è cosa esistente e dotata di vita propria – immediatamente proietta lontano, deferendola alla sorgente divina. Una questione terminologica che si ricompone allorché, piccolo o grande, ci possiamo ritenere raggiunti da un esempio di felicità, che non è difficile riconoscere cosa divina. Con queste reminiscenze forse il giubileo si è giovato di un’ altra piccola porta aperta.