Nador: frontiera della speranza

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«Los niños son la esperanza de este mundo» (i bambini sono la speranza di questo mondo). Grande, attraente, coloratissimo, questo enorme disegno si spalanca a voi all’entrata della chiesa di Nador. Siamo sulla riva mediterranea del Marocco, nella regione berbera del Rif. Seguono dei nomi: Kadiatou, Sara, Zaineb… tutti subsahariani.

«Ma cosa vuol dire?», provo a interpellare Myriam, una animatrice. «Sono loro che costruiscono il futuro» vi risponde, immediata. Paradossale. Come se alla porta delle nostre chiese fosse stampato – come segno di speranza – il nome di bambini emigrati delle nostre comunità. Eppure… chi conosce mai il mondo che sarà domani? «La speranza vede l’invisibile, tocca l’intangibile e raggiunge l’impossibile».

Migranti

Qui, immediatamente a un lato della chiesa, si estende il Centro migranti dell’arcidiocesi di Tangeri, suddiviso in vari settori: accoglienza, sostegno psicologico, aiuto medico, assistenza alle donne e bambini, gestione di dossier amministrativi… Tutto per migranti di diverse provenienze, che qui continuano a venire.

Dall’altro lato, il Centro Baraka (significa «benedizione»), con formazioni professionali per un migliaio di giovani marocchini in elettricità, cucina, lingue, informatica, cucito… Un vero motore pedagogico per la città.

I migranti per le strade se ne vedono pochi a circolare, a differenza di Casablanca. Ultimamente, i tempi sono più difficili. Questa è una zona di frontiera, a una quindicina di km dall’enclave spagnola, Melilla. Chi si trova in condizioni estremamente precarie nella foresta circostante – e sono tantissimi – non riesce ad uscirne, se non a fatica.

L’altro giorno si è presentata al Centro una donna con un piccolo, tutti e due senza acqua e cibo da ben tre giorni. Vita selvatica, al limite. Tuttavia, con questo sogno in testa, che dopo un lunghissimo, estenuante viaggio e mille tormenti affrontati, sembra quasi realizzarsi: l’Europa. Crudele illusione. Il peggio ha spesso ancora da venire…

Le osservi, queste donne, che affollano il Centro migranti. Donne coraggiose senza limiti, combattenti. Donne resistenti e resilienti. Donne determinate. Fragili e forti, allo stesso tempo. Amabili anche, fraterne tra di loro. Sanno che Dio le aiuta ad andare fino in fondo al loro sogno. Anche se sarà in fondo al mare: in ogni caso sarà sempre la volontà di Dio. Inchallah!

«Non c’è di più coraggioso al mondo delle donne sulle strade, in emigrazione – aggiunge decisa Myriam – e sono le vittime più vulnerabili con i loro bambini. Di fronte a situazioni imprevedibili o tremende di violenza sul corpo, nella mente e nello spirito – cui non erano assolutamente preparate – vanno avanti, affrontandole una dopo l’altra!». E invocando sempre Dio, come unico loro difensore. «Per arrivare all’alba, non c’è altra via che la notte…», annota Khalil Gibran.

Miracoli quotidiani

Ai giovani subsahariani, per il loro terribile viaggio attraverso più Paesi, le famiglie hanno spesso affidato tutti i soldi disponibili: sono loro, i giovani che partono, l’unica speranza della famiglia! Impossibile per loro sopravvivere laggiù, nei loro Paesi, senza opportunità, senza diritti, senza grande libertà.

Le varie équipes di sostegno qui al Centro hanno integrato pure dei «relais communautaires», come li chiamano, dei responsabili di migranti alla foresta. Formano équipes di giovani motivati, con grinta e sorriso. Tra cui anche coraggiose suore spagnole. «Tu arriverai in paradiso davanti a me» le dice convinto, l’altro giorno, un medico musulmano a una di loro. Che è tutto dire, quando sanno che i cristiani teoricamente sono destinati altrove.

Una dell’équipe medica fa la spola con la foresta, vi porta unicamente medicinali di base. Purtroppo non può portare altro, come cibo o vestiti, di cui ci sarebbe un’impellente necessità. «Tutta la loro montagna di sofferenze me la sento addosso – confessa amaramente – e sento il peso di tutta la mia impotenza». E questo, pur facendo i suoi miracoli quotidiani. «Importante è già essere accanto a loro» continua, «ascoltare in silenzio il loro dolore».

Mai e poi mai essi avevano pensato, infatti, di essersi imbarcati in una via crucis, in un’avventura così dolorosa come il Cristo nei suoi ultimi passi! E sembrano ripetere tra sé e sé: «Non posso perdere l’unica cosa che mi mantiene vivo: la speranza» (Paulo Coelho).

Padre Antonio, a Al-Hoceima, nella vicina parrocchia, fa incontrare i giovani subsahariani, studenti universitari borsisti, con i giovani migranti dei loro stessi Paesi, che si trascinano da mesi e mesi per deserti e frontiere. Due mondi che si incontrano. Essere ponte in questa società fatta a pezzi è un bel segno di speranza. Segno discreto, ma fecondo. Insieme all’empatia e alla compassione. Queste, ai nostri giorni, in verità, lo sono per davvero! Sì, segno di speranza in un mondo di indifferenza.

In tempo di Covid due suore qui continuavano, nonostante tutto, a visitare le famiglie povere musulmane. Un giorno si sentono dire con forza: «Voi, oggi, ci avete fatto visita come fosse stato Dio!». Sono rimaste senza parole. Dall’emozione. «Perché chi ama fortemente, ha dentro di sé il dono dei miracoli».

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