“Creatività e coraggio” (Theobald) sono le due parole che hanno attraversato il convegno internazionale organizzato dall’Istituto Superiore di Pastorale e Catechetica, a Parigi, dal titolo “Istituire nuovi ministeri, un’urgenza missionaria” (17-20 febbraio 2025).
Sì, creatività e coraggio prima di tutto nel guardare alla crisi della Chiesa generata dal clericalismo e dalla terribile piaga degli abusi: una crisi da riconoscere come appello del Signore, oltre una lettura solamente sociale ed umana. Serve osare infatti una lettura teologica, capace di aprirsi alla rivelazione di Cristo, in questo tempo (mons. J. Beau).
Abbiamo bisogno di ritrovare nella carità il fondamento e la sorgente della vita ecclesiale: in forza di questa sorgente, il Corpo di Cristo non può essere articolato semplicemente per funzioni, pena la sua burocratizzazione, perché “l’altro” è e rimane un soggetto, ed è nel rapporto tra persona e persona che il corpo ecclesiale cresce.
Soggetto e carità: ecco i due poli attorno a cui verificare ogni ministero nella Chiesa, perché qui risiede la loro unica radice. Non ci si può, dunque, ridurre a “chi fa cosa” attorno all’altare; si tratta di incontrare i bisogni della vita, per raccoglierli poi attorno al Cristo risorto: è questa la direzione per ridefinire il ministero ordinato e per mettere sempre più a fuoco quello istituito e di fatto.
È evidente che la dimensione vocazionale è centrale: come creare allora le condizioni perché la vita ecclesiale diventi una continua esperienza di discernimento vocazionale?
La questione dei ministeri
Creatività e coraggio, dunque, sono necessari nella conversione delle relazioni e quindi nella loro qualità all’interno delle comunità cristiane.
Il Sinodo generale ha raggiunto, nella seconda fase, un secondo livello di pensiero circa la ministerialità, perché l’ha inserita in una prospettiva più ampia, quella dell’azione di Dio, che si esprime in una circolarità virtuosa; la Chiesa è a servizio di questo movimento, scandito in tre tappe: riconoscimento del carisma, come manifestazione dell’amore gratuito di Dio; riconoscimento delle necessità pastorali vere (quelle che corrispondono ai bisogni di quella comunità in vista della missione in quel contesto preciso); eventuale riconoscimento e configurazione ministeriale (Theobald).
Carisma, vera necessità contestuale della missione, configurazione per il servizio: questa triade descrive in maniera concreta il legame tra sinodalità e ministeri, perché non fa altro che rivelare ciò che Dio compie continuamente nella storia.
“Come comprendere insieme ciò che lo Spirito dice a questa Chiesa?”: ecco dove risiede la questione dei ministeri. Solamente in questo modo essi potranno nascere da una reale esperienza di ascolto, frutto di un discernimento contestuale. La pastorale vocazionale è, dunque, una pastorale di discernimento, ma per quale Chiesa?
Creatività e coraggio, allora, sono necessari perché questo processo sia visibile nella co-partecipazione dei battezzati alla costruzione della comunità cristiana.
Il processo sinodale ha alla base la partecipazione alla comune missione di evangelizzare, che si traduce nella possibilità di tutti i battezzati di comunicare la fede.
Dalla consegna di un compito per delega all’appropriazione e ri-espressione della professione di fede, secondo i propri tratti personali: qui sta il passaggio necessario per una Chiesa dove tutti si sentono responsabili.
Al centro, dunque, sta la fede e la fede adulta, nella sua possibilità di essere nuovamente compresa e manifestata; se non si riparte da questo cuore pulsante, non si creano le condizioni per la partecipazione e la corresponsabilità di tutti alla missione del Vangelo.
Non si tratta di un movimento di semplice riproduzione di un deposito atemporale, quanto piuttosto di una nuova creatività ecclesiale, che si esprime anche nel riconoscimento dei diversi carismi.
Creatività e coraggio avanzano allora nell’abitare il processo della tradizione ecclesiale. Il concilio Vaticano II ha in sé una compresenza e giustapposizione di due teologie circa i laici: da una parte, la “teologia del laicato”, che considera il laico come collaboratore della gerarchia, e, dall’altra, una “teologia dei soggetti laici”, chiamati ad essere co-costituenti della vita ecclesiale.
Lo sviluppo dei ministeri di fatto nei decenni successivi al Concilio, insieme al pensiero di Paolo VI e dei recenti documenti di papa Francesco, invitano ad un passo ulteriore rispetto a questa giustapposizione.
Il ministro istituito costituisce una nuova tappa: uomini e donne che hanno già ricevuto l’iniziazione cristiana e sono parte attiva della comunità, con un carisma specifico riconosciuto dal discernimento ecclesiale, sono ricollocati in modo nuovo nel corpo ecclesiale con il rito di istituzione. «La creazione delle figure ministeriali dei lettori, degli accoliti e dei catechisti istituiti ha modificato profondamente e strutturalmente la visione e la pratica del ministero ecclesiale» (Noceti).
Il ministero istituito ha una potestà specifica ordinaria: una potestà di parola, verbale e non, di azione simbolica, di presenza che parla, direttamente legata a quell’ambito di dinamiche liturgiche e pastorali che gli vengono affidate. Il suo è un agire “nella Chiesa”; gode di una reale autonomia, ma non è indipendente, perché riceve un mandato a tempo dal vescovo. Il suo esercizio può avvenire solamente insieme, nella piccola comunità o équipe, dove la rete di rapporti non addiziona, ma moltiplica ciascun contributo.
In questo quadro della corresponsabilità differenziata, si inserisce anche il ripensamento della guida della comunità, finora a riserva maschile: «Sono stati compiuti molti passi per promuovere la leadership delle donne laiche, ma l’esercizio dell’autorità e della leadership comunitaria nella Chiesa cattolica è legato principalmente al ministero ordinato. Non è possibile oggi “pensare alla co-partecipazione” senza affrontare questo delicato capitolo» (Noceti).
Creatività e coraggio sono necessarie, dunque, anche nell’accompagnare il ministero ordinato, nella sua forma attuale.
Il coraggio della creatività
Quale collocazione può assumere in questa riflessione? È il ministero che garantisce l’apostolicità dell’annuncio, che rende quella Chiesa, “la Chiesa di Cristo”. Un ministero a servizio dell’armonia, che opera per riconoscere i carismi e per favorire l’unità. Un ministero a servizio della gioia.
Sono cambiamenti non facili se affidati alle forze del singolo prete o vescovo, oppressi da un sistema di gestione che lascia poche energie e spazio di scelta; sono passaggi però necessari, prima di tutto per la salute dei ministri ordinati, e possono essere compiuti insieme, dentro un Popolo che si mette in ascolto dell’azione dello Spirito.
Del resto, la Chiesa si è strutturata fin dalle comunità paoline attorno a scelte pragmatiche, contingenti, che portavano a dare un volto, in quel tempo e in quel luogo, ai ministeri di cui la missione della comunità aveva bisogno (Raimbault), in modo che la partecipazione alla vita della Chiesa fosse realmente condivisa. Ed è ciò di cui anche ora abbiamo bisogno, vista la fatica dei ministri ordinati, visto il grido silenzioso dei giovani e in particolare delle giovani donne che si allontanano dalla Chiesa.
Creatività e coraggio, dunque, chiamano in causa la formazione di tutti i battezzati: questa parola, invocata al termine di ogni sospirata riunione ecclesiale, trova forse qualche connotato maggiore da questa riflessione.
Si tratta di crescere insieme nel vedere il tempo e lo spazio odierni con lo sguardo di Dio, e di creare le condizioni perché ognuno possa condividere la propria parola di fede, nel rispetto del proprio carisma, quindi a servizio del bene comune di tutti (Catherine Fino).
È necessario, dunque, un dispositivo concreto, umile e praticabile, perché le nostre comunità possano discernere quello che ora stanno vivendo e, a partire da questo, ascoltare la chiamata di Dio, che parla anche oggi; un discernimento che superi la tentazione di una preservazione nostalgica, per diventare invece un nuovo ascolto del Vangelo e quindi una fonte di speranza.
Senza strumenti semplici, ma culturalmente pertinenti e teologicamente fondati, anche il percorso sinodale rischia di rimanere un buon ricordo; viceversa, anche la piccola comunità può riscoprirsi ricca di carismi, chiamata alla missione, lì dove vive, capace di riesprimere la fede nella comunione con tutta la Chiesa.
Da questo ascolto potranno rinascere i ministeri in atto e ne potranno nascere di nuovi, come altre volte già accaduto nella vita della Chiesa; da questo ascolto anche la struttura ecclesiale potrà essere rinnovata.
È l’ascolto del Vangelo, compiuto insieme, senza distinzione di piani, dentro questa cultura, che può ancora regalare alla Chiesa il coraggio e le creatività della missione di Cristo.
Lettorato, accolitato e catechista! Se questo è tutto il rinnovamento, beh! è una presa in giro. Sarebbe bene che si studi e si rifletta molto di più. Conversione non è “cambiare” tutto per non cambiare niente, ammesso e non concesso che sia un cambiamento, dato che, quei ministeri, esistono da tempi lontani. La chiesa è tutta ministeriale così come è tutta missionaria o non è chiesa di quell’unico maestro a meno che non sia risorto ed è rimasto semplicemente cadavere anche se tutto il nuovo testamento dicono il contrario, per tutti cito Ap.1,17-18. La bibliografia che parla dei ministeri, secondo la comprensione dei segni dei tempi, è numerosa richiamo alla memoria Karl Rahner, José Maria Castillo, Romano Penna, Martin Ebner, Hermann Haring… Mi sembra chiaro che in realtà si voglia conservare il clericalismo con tutto il suo potere nefasto.
Cari ministri istituiti, nuovi ministri e soggetti vari, ho l’impressione che vi siate già persi perché non sapete più dove siete e quale è la giusta parte dove stare. Buona fortuna; continuate a parlarne, a scriverne; occupate posizioni, godetevi la vostra compiacenza. Intanto la realtà – e ciò che, penso, Dio chiede – è un’altra cosa. Da sempre.
Scrivono gli autori dell’articolo che i “cambiamenti non (sono) facili se affidati alle forze del singolo prete o vescovo, oppressi da un sistema di gestione che lascia poche energie e spazio di scelta”. Questo è un nodo da affrontare con coraggio ed attiene alla struttura della chiesa o meglio al sistema di potere basato sul sacro che chiamiamo clericalismo. Io sostengo che se non si sottopone a profonda revisione il sistema, gli eventuali sforzi dei singoli sono destinati al fallimento. Occorre quindi cambiare la dottrina e le norme del diritto canonico, entrambi inzuppati di clericalismo. Questi sono i cambiamenti di sistema che permetteranno alla chiesa di debellare il clericalismo e i deleteri abusi che produce.