Senza prete e senza eucaristia

di:

pecore

Una delle sfide più significative che anche le Chiese locali del nostro paese dovranno affrontare nei prossimi anni è la radicale riorganizzazione della loro presenza sul territorio. Il sensibile calo del numero dei presbiteri comporta che già oggi molti parroci debbano prendersi cura di diverse parrocchie, replicando per ciascuna di esse l’impegno necessario a gestire gli aspetti pastorali e amministrativi di una comunità.

Questa soluzione, però, comincia a non essere più praticabile, dal momento che non è realistico pensare che un presbitero possa essere pastore di più di due o tre parrocchie, a meno che non si limiti alla mera offerta sacramentale. È inevitabile, quindi, che sempre più comunità numericamente molto ridotte non possano più beneficiare della presenza stabile del parroco e non abbiano ordinariamente neppure la celebrazione dell’eucaristia domenicale.

Per aiutare queste comunità non più eucaristiche a continuare il loro percorso, mi sembra infruttuoso proporre loro semplicemente di pensarsi come parti di parrocchie più grandi, e magari di ospitare qualche loro attività. Se i loro membri hanno maturato un certo senso di appartenenza, si sentirebbero comunque fagocitati da una realtà più importante, quella in cui sarebbe mantenuta la celebrazione eucaristica.

Soprattutto, poi, molti cattolici danno per scontato un principio teologico medioevale, rilanciato molto efficacemente dal Concilio di Trento fino ai nostri giorni, secondo cui sono il sacerdozio e l’eucaristia le due realtà che costituiscono una comunità cristiana. Ovviamente in questo quadro togliere ambedue significa annientare una parrocchia, e l’invito a continuare una certa operosità non può che risuonare come una mera terapia palliativa.

Una via di uscita da queste difficoltà potrebbe derivare dalle due tesi teologiche seguenti, che affondano le loro radici nel concilio Vaticano II sebbene non si trovino nei suoi documenti nei termini qui utilizzati.

In primo luogo, il battesimo, completato dalla cresima e rafforzato dalla partecipazione all’eucaristia, è il fondamento sacramentale pienamente adeguato del servizio che i credenti possono svolgere nelle comunità cristiane (cf. LG 12). In altre parole, una persona che ha completato l’iniziazione cristiana e ha la maturità e la preparazione necessaria può svolgere qualunque tipo di servizio all’interno della Chiesa, anche un ruolo di moderazione o di coordinamento di una comunità.

Il ministero ordinato (cf. LG 19-20), incluso quello del diacono (cf. LG 28-29), ha infatti un più ampio compito di supervisione volto a fare in modo che la vita delle comunità cristiane sia in sintonia – teorica e pratica – con la fede degli Apostoli, cioè con l’autentico Vangelo, e si svolga in comunione con tutta la Chiesa.

Da questo punto di vista, occorrerebbe abbandonare l’idea che il diaconato sia “per il servizio”, perché rischia di far pensare che il battesimo non costituisca un fondamento sacramentale sufficiente della ministerialità ecclesiale, e che l’ordinazione diaconale sia una specie di appendice alla grazia battesimale di cui però non c’è realmente bisogno.

In secondo luogo, la comunità cristiana rinasce continuamente dall’ascolto della Parola di Dio (cf. LG 17 e 25), anche se raggiunge la sua piena identità ecclesiale e vive la sua esperienza più trasformante nella liturgia. (cf. SC 10). Per farla crescere, dunque, non basta che il presbitero “stia con la gente” o che siano organizzate attività devozionali o ricreative. Occorre che si faccia esperienza di Dio nell’ascolto della sua Parola. Questa Parola, poi, è trasmessa in diversi modi, ma è contenuta soprattutto nella Scrittura (cf. DV 11 e 25).

Dunque, una comunità che non ha l’eucaristia ma che riflette e prega sui testi biblici sotto la guida di un interprete competente, anche laico, ha un profilo ecclesiale quasi completo. Potremmo definirla una quasi-parrocchia, anche se avrà comunque bisogno della supervisione di un ministro ordinato e di partecipare alle azioni liturgiche.

Alla luce di questa visione, le comunità non più eucaristiche potrebbero continuare a pensarsi come vere comunità cristiane, sebbene incomplete, in quanto hanno comunque la possibilità di ascoltare la Parola di Dio e di attivare al proprio interno numerosi servizi fondati sulla grazia battesimale. A quel punto potrebbero partecipare alla liturgia eucaristica nella realtà ecclesiale più ampia, cioè nella sede della parrocchia, con una propria identità e dignità, cioè portando con sé la ricchezza della formazione, della testimonianza e della carità che hanno potuto sviluppare a partire dall’ascolto della Parola.

Ovviamente per calare nella pratica queste tesi occorrerebbe discuterle e divulgarle in tutta la diocesi. Soprattutto sarebbe necessario un investimento inedito nella formazione teologica e pastorale di quei cristiani, uomini e donne, che dimostrano di avere i carismi necessari per coordinare piccole comunità, e ancor più in quella dei diaconi, che dovrebbero assumere il delicatissimo ruolo di supervisione delle comunità non eucaristiche, sotto la guida dei presbiteri del territorio.

Le Facoltà teologiche e gli Istituti superiori di scienze religiose dovrebbe rivestire un ruolo strategico in tale percorso.

Si dovrebbe anche garantire una supervisione a tutti coloro che si dedicassero a realizzare questo modello di comunità cristiana.

Infine, va da sé che la nascita di queste comunità non eucaristiche e l’autonomia di cui dovrebbero godere sarebbe incompatibile con una visione del ministero del parroco che lo intendesse come il capo della sua parrocchia, chiamato da Dio a mantenere il controllo diretto su ogni suo ambito e attività, e ad affidare dei servizi importanti solo a persone allineate con il suo orientamento pastorale, poco importa se ordinate diaconi o no. Forse è proprio a questo livello che la proposta ecclesiologica qui abbozzata potrebbe trovare le resistenze più forti.

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2 Commenti

  1. Gabriele Bedosti 10 dicembre 2019
  2. Giampaolo Centofanti 8 dicembre 2019

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