Il cielo fotografato

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L’esplorazione e lo studio dell’Universo sono profondamente interconnessi alle modalità con cui i corpi celesti sono stati di volta in volta raffigurati e ritratti, tanto che il rapporto dialettico tra l’astronomia e le sue immagini è uno dei più intensi e intriganti nella storia del pensiero scientifico.

Il convegno Photographs from Outer Space. A Female Archaeology of Image-Data, promosso dall’Università Statale di Milano con Human Hall, nell’ambito del progetto PNRR Musa, ne ha dato un’ulteriore prova. Le tante e preziose voci, che sono state coinvolte dagli organizzatori Barbara Grespi e Luca Guzzardi, docenti presso il Dipartimento di Filosofia della Statale, hanno dato vita a un quadro composito e caleidoscopico, attorno a tra assi tematici principali quali l’astrofotografia, le donne astronome e la cultura visiva.

fotografia astronomica

Le immagini dagli albori

Riflettendo sulle trasformazioni che nel tempo hanno interessato le rappresentazioni visuali degli oggetti astronomici, molti penseranno a Galilei e ai magnifici acquerelli della Luna che realizzò nel 1609, mentre osservava il satellite terrestre con il cannocchiale.

Ad altri, invece, verranno forse in mente i globi celesti, tra i quali gli splendidi esemplari seicenteschi di Vincenzo Coronelli, che conquistarono persino Luigi XIV, oppure quelli tascabili, che si diffusero nel corso del Sette e Ottocento, a beneficio dei tanti appassionati di pianeti e costellazioni.

Altri ancora si saranno ricordati della celebre mappa di Marte disegnata nel secondo Ottocento da Schiaparelli, in cui sono ben distinguibili quei canali che furono al centro di un vero e proprio fraintendimento linguistico (la traduzione inglese in channels fece pensare a canali artificiali e dunque alla presenza di costruttori… marziani).

Sono solo alcuni esempi e nessuno di questi rende per altro conto di quello che fu un vero e proprio punto di svolta, occorso verso la metà del XIX secolo, ovvero l’invenzione della fotografia e il conseguente sviluppo della fotografia astronomica.

Le suore e la Carta del cielo

Diversi interventi del convegno hanno fatto opportunamente luce su questo passaggio, sulle nuove sfide che ha aperto e sui nuovi ruoli, molti di questi attribuiti specificamente alle donne, che hanno acquisito importanza.

Guy Consolmagno, direttore della Specola Vaticana, ha per esempio ricordato le suore che parteciparono alla costituzione della Carte du Ciel, progetto che vide il via a Parigi nel 1887.

Emilia Ponzoni, Regina Colombo, Concetta Finardi e Luigia Panceri, originarie della Lombardia e provenienti dall’Istituto Suore di Maria Bambina, catalogarono 481.215 stelle. Sulla base delle lastre fotografiche, queste suore calcolarono infatti posizione e brillantezza degli astri.

Similmente, la keynote di A. S. Aurora Hoel (Norwegian University of Science and Technology) è stata l’occasione per dare spazio alle «donne calcolatrici» dell’Osservatorio di Harvard, sostanzialmente il corrispettivo statunitense alle suore del Vaticano e al Bureau des Dames dell’Osservatorio di Toulouse.

Ingaggiate da Edward Pickering, Henrietta Swan Leavitt, Annie Jump Cannon, Williamina Fleming e Antonia Maury diedero un contributo fondamentale nella storia dell’astronomia -e alcune di loro non restarono certo relegate al ruolo di soli «computer umani».

Evoluzione della fotografia

Oggi, la fotografia astronomica è tra le protagoniste di un’ulteriore trasformazione, laddove le immagini vengono ottenute tramite rielaborazioni algoritmiche di una enorme mole di dati.

Come ha ben mostrato Brooke Belisle, ricostruendo le rappresentazioni della Luna nella storia, dalle prime immagini stereoscopiche, che miravano a restituire un adeguato effetto di profondità, si è arrivati alle fotografie da smartphone, frutto di algoritmi che hanno alimentato il dibattito sull’autenticità dell’immagine ottenuta.

Mentre la stereoscopia si basava proprio sul tentativo di riprodurre fedelmente la modalità di visione dell’occhio umano, sulla base degli studi sia di ottica che di fisiologia che caratterizzarono il XIX secolo, al contrario le immagini HDR che otteniamo oggi con gli smartphone non restituiscono in alcun modo quello che l’occhio umano, da solo, è capace di vedere. Questo rende l’apparecchio fotografico molto più simile al telescopio e al microscopio, trasformandolo di fatto in una protesi che non registra più l’atto della visione, nel momento in cui si compie, bensì mostra a posteriori allo sguardo umano ciò che era/non era visibile.

È sicuramente interessante constatare che le tecnologie avanzate dei nostri smartphone ci fanno sostanzialmente toccare con mano problematiche analoghe a quelle con cui si confronta la Big Science.

Paradigmatico e vero e proprio punto di svolta è stata, com’è noto, la prima fotografia di un buco nero. Non è certo un caso che vari relatori vi abbiano fatto riferimento, tra i quali Francesco Giarrusso, dell’Università Cattolica di Milano, e Om Sharan Salafia, dell’Osservatorio Astronomico di Brera. Allo stesso soggetto è inoltre dedicato il documentario realizzato nel 2020 dal celebre storico della scienza Peter Galison (Harvard University), che durante il convegno ha peraltro tenuto una keynote lecture che ha visto intrecciarsi il tema dell’oggettività a quello del ruolo delle donne nell’indagine scientifica.

La prima fotografia di un buco nero

Black Holes. The Edge of All We Know, proiettato al termine della seconda giornata, ha il merito di raccontare, grazie anche all’aiuto di animazioni, l’impresa collettiva che ha portato alla fotografia di un buco nero situato nella galassia M87, a 55 milioni di anni luce dalla Terra (Scienza in rete ne ha parlato qui).

Dopo che la rete di radiotelescopi dell’Event Horizon Telescope Collaboration ha raccolto dati da cinque diversi continenti, e dopo che i dati sono stati sincronizzati, i diversi teams hanno iniziato a lavorare in parallelo per estrapolare da quei dati una «fotografia» del buco nero. I gruppi non hanno mai comunicato l’uno con l’altro, fino a quando non si sono riuniti per svelarsi a vicenda le immagini ottenute. La somiglianza delle immagini ha dato modo agli scienziati di ritenere di aver effettivamente tra le mani la prima fotografia di un buco nero.

In parallelo, Galison ha seguito la collaborazione tra Andrew Strominger, Malcolm J. Perry e Sasha Haco, i tre fisici che hanno lavorato al fianco di Stephen Hawking nel tentativo di determinare le informazioni che il campo gravitazionale di un buco nero conserva circa la materia inghiottita.

Anche in questo caso, emerge prepotentemente il senso della scienza come impresa collettiva, ancor più significativo quando tra i protagonisti c’è Hawking (morto durante le riprese del film), la cui figura è spesso sbrigativamente ascritta allo stereotipo del genio in solitaria. Malinconicamente, Strominger confida a Galison che dopo aver collaborato per così tanto tempo con Hawking, lo rende molto triste l’idea di non poter più aver accesso ai suoi pensieri.

Tra astronomia e arte

Vale infine la pena menzionare uno degli artist talk, quello che ha visto Rossana Galimi, dottoranda presso il Dipartimento di Filosofia (Università Statale di Milano) dialogare con Ulrike Kuchner (University of Nottingham). La Kuchner è un’astrofisica di formazione (ha ottenuto il dottorato all’Università di Vienna) e artista: i suoi lavori si pongono lungo l’intersezione tra astronomia e arte, esplorando errori e incertezze, che Kuchner definisce come lo strumento più importante, e potente, della scienza.

I suoi progetti seguono sostanzialmente due direzioni: da una parte, la volontà appunto di rendere visibile quello che la scienza tende a voler nascondere, ovvero i passi falsi; dall’altra, il desiderio di non solo incoraggiare, ma anche strutturare una collaborazione continuativa tra artisti e scienziati.

Alla base, la convinzione che l’arte sia un veicolo irrinunciabile con cui la scienza può oggi trovare nuove modalità di dirsi e rappresentarsi. Così, tra le iniziative portate avanti dalla Kuchner, troviamo quella di un laboratorio in cui arte e scienza coesistono e partecipano alla costruzione del sapere.

E qui non si può non pensare a Bruno Latour: non solo a una delle sue ultime interviste, nella quale ribadiva la necessità per il mondo della ricerca di raccontarsi nel suo farsi, errori e incertezze compresi, sia ovviamente al volume Laboratory Life (1979), scritto a quattro mani con Steve Woolgar, in cui i due sociologi entrarono in un laboratorio per assistere «dal vivo» alla produzione di un fatto scientifico.

Ecco, alla luce dell’intervento di Ulrike Kuchner e dei tanti spunti offerti dal convegno, viene da chiedersi se gli artisti assolveranno in futuro il compito che è stato dei sociologi della scienza; osserveranno, cioè, come lavora la ricerca scientifica per offrirle nuovi modi di comprendersi, raccontarsi e rappresentarsi – siano questi modi fotografie algoritmiche, documentari o creazioni artistiche.

  • Dal sito di informazione scientifica Scienza in Rete, 21 dicembre 2023.
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