Il salvataggio della Russia

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Perché è finito l’impero britannico? Essenzialmente per due ragioni: la principale è l’ascesa di un competitore talmente dinamico e forte – gli Stati Uniti – che ogni resistenza sarebbe stata vana; la seconda è che, per difendere l’impero da un’altra potenza emergente ma certamente più abbordabile – la Germania – il Regno Unito ha dovuto combattere due guerre per le quali non aveva i mezzi.

Sappiamo com’è andata a finire: gli Stati Uniti hanno permesso ai cugini d’oltreoceano di sconfiggere la Germania, ma nonostante quell’aiuto indispensabile, Londra ha dissipato tutte le poche risorse di cui disponeva e, alla fine della corsa, ha perso l’impero e si è ridotta al rango di potenza di secondo rango, con, tra l’altro, una ripresa post-bellica molto più asfittica di quella di qualunque altro paese industrializzato.

Dall’abbandono dell’India all’abbandono di Suez, fino alla crisi degli anni 1970 e poi, se vogliamo, fino alla Brexit, la caduta è stata spettacolare. Eppure, sui libri di storia si legge che la Gran Bretagna ha vinto la Prima e la Seconda Guerra mondiale, e ogni anno l’8 maggio e l’11 novembre sono celebrati con fasto e orgoglio.

Certo, fingere di aver vinto due guerre mondiali (o averle vinte solo sulla carta) è un valore ideologico aggiunto che alimenta la coesione interna, come mostra eccellentemente l’esempio della Francia, ma non cambia la sostanza delle cose: in seguito alle due guerre mondiali, il Regno Unito ha perso quasi tutto quello che aveva accumulato nei secoli, ed è oggi ridotto al rango di potenza decaduta, che non sarà mai più great again.

Superpotenza o pedina

Ovviamente non si può paragonare la Russia al Regno Unito. La Russia non è mai stata potenza egemonica mondiale, non ha mai avuto un impero mondiale, non ha mai scritto le condizioni di pace dopo una guerra, nemmeno nel 1877, quando la guerra l’aveva vinta davvero.

La Russia è sempre stata tutt’al più, come disse Barack Obama, una potenza regionale o, come disse invece l’economista svedese Anders Åslund, «un paese del Terzo mondo ragionevolmente ben sviluppato» (e parlava dell’Unione sovietica, niente a che vedere con la piccola Russia di oggi).

Anche la Russia ha vinto la Seconda Guerra mondiale grazie agli Stati Uniti, e grazie alla sola materia prima di cui disponeva: la massa umana mandata al massacro.

Con una differenza sostanziale, rispetto al Regno Unito e, in via subordinata, alla Francia: che la Russia non era e non poteva essere un competitore degli Stati Uniti, nemmeno potenziale.

Quindi, con la tattica che consiste a usare una pedina debole per mettere in scacco una pedina forte, fu rafforzata dagli americani, elevata al rango di «superpotenza», e persino di «minaccia esistenziale», proprio per tenere in scacco l’Europa.

Non solo occupandone la metà centro-orientale, compresa una metà della Germania, ma aiutando gli Stati Uniti nell’opera di smantellamento degli imperi coloniali europei, dall’Indonesia all’Algeria, passando per l’India e la Palestina.

Quell’accordo bipolare ha consentito ottant’anni di pace all’Europa e condannato l’Asia a ottant’anni di guerre: l’assenza di una «Yalta asiatica» ha fatto sì che la guerra fredda in Europa fosse, in quel continente, guerra calda.

Il capitale ideologico della «vittoria» nella «Grande guerra patriottica» della grande madre Russia è servito e serve ancora ai dirigenti che si sono succeduti al Cremlino per consolidare il consenso interno, per far credere alle loro popolazioni di essere parte di una civiltà a sé, invincibile ed eterna.

Per compensare le deficienze strutturali del loro paese, i dirigenti che si sono succeduti al Cremlino sono diventati maestri insuperabili nell’arte della manipolazione ideologica: sono stati panslavisti, panortodossi, «baluardo dell’Occidente» contro le «orde mongole» (principe Sergej Petrovič Trubeckoj, 1905) o «contro la barbarie asiatica» (Vladimir Potemkin, ministro dell’Istruzione dell’URSS, 1945), alleati della Germania nazista (1939-1941), poi vincitori del nazismo (1941-1945), addirittura «comunisti», poi «sovranisti», «anti-occidentali» e adesso sicuramente saranno qualcos’altro, perché un accordo con gli Stati Uniti li obbligherebbe a cambiare marchio ideologico una volta di più (potrebbero essere, di nuovo, chissà, le «orde mongole», questa volta capitanate da Pechino). Con la disinvoltura e la plasticità di chi sa di non correre mai il rischio di essere sbugiardato dagli altri.

Mai sbugiardato perché tutti hanno sempre usato la Russia per i loro scopi. Ottima per averla al proprio fianco perché forte difensivamente (come dimostrano le rotte francese a inizio Ottocento e tedesca a metà del Novecento), ma debole nell’attacco, cioè non pericolosa, un gigante perennemente dai piedi d’argilla perché perennemente incapace di diventare una potenza economica.

La Russia è stata usata dai tedeschi nel 1871, poi nel 1939, poi all’epoca dell’Ostpolitik e della conseguente diplomazia energetica; è stata usata dai francesi nel 1893, poi nel 1914, poi da de Gaulle; dagli americani dal 1941 al 1989, e anche dopo. Ad ogni passaggio ha raccattato qualcosa per virtù altrui, per poi perderlo per difetto proprio.

Oggi siamo soltanto all’inizio di un altro giro di danza, e quindi non ci possiamo spingere troppo in là nelle ipotesi sul prossimo futuro.

Di una cosa però si può essere certi: la Russia ha perso la guerra che ha iniziato tre anni fa esatti, e riuscirà comunque a dire – e a far dire a tutti quei filorussi che, per tre anni, sono stati costretti a imbrigliare i loro cavalli imbizzarriti – che ha vinto. Putin e i suoi sono stati abili a non dire mai dove si trovasse la vittoria, per cui qualunque risultato verrà fuori da questa iniziativa americana potrà essere presentato come una vittoria. Ma la svolta arriva da Washington, non da Mosca.

Salvare Mosca

Fin dai primi giorni del conflitto in Ucraina avevo scritto che la Russia aveva solo tre prospettive: crollare miseramente come nel 1917 e nel 1991; essere salvata dalla Cina; essere salvata dagli Stati Uniti. Aggiungendo che quest’ultima possibilità mi sembrava la più probabile.

L’ho ripetuto per tre anni da allora, suscitando molto spesso perplessità e incredulità. Nessuno – a parte i baltici e la Polonia – voleva che la Russia crollasse, perché tutti, come detto sopra, la vogliono tenere come possibile pedina per i loro giochi.

Ma la Cina, «salvando» la Russia, l’avrebbe di fatto annessa, e per i russi questa prospettiva sarebbe stata equiparabile a una vera e propria sparizione; essere «salvati» dagli americani era, per i russi, la prospettiva migliore delle tre, perché gli americani sono lontani, hanno sempre avuto scarsissimi interessi economici nel loro paese, e avevano (hanno) un rivale/nemico comune: la Cina, appunto.

Vedremo in quale direzione il mondo si sta incamminando.

Gli europei sono terrorizzati all’idea di perdere il protettore americano, ma, per ora, non sembra che ci sia nessun pericolo imminente e immanente da cui essere protetti.

Il deal Mosca-Washington, come è stato detto esplicitamente, non riguarda loro, perché l’Europa nel suo insieme è oggi un non ente, un has-been, della politica internazionale, e il suo destino dipende molto più da come evolverà la triangolazione Mosca-Washington-Pechino, e da come reagiranno New Delhi e Tokyo, che dal disordinato attivismo di Emmanuel Macron e del suo nuovo best buddy Keir Starmer (il premier inglese, anche lui nei guai fino al collo).

Nel 1945, l’assenza di una «Yalta asiatica» aveva portato la guerra calda in quel continente. Oggi, anche se una «Yalta asiatica» è impossibile senza un (molto improbabile) accordo con la Cina, la partita si gioca interamente in Asia. E un’Europa senza Yalta è lasciata in balia dei suoi vecchi demoni, come le elezioni tedesche sembrano voler confermare.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 24 febbraio 2025

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2 Commenti

  1. Arbiter 3 marzo 2025
    • anima errante 3 marzo 2025

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