Un ricordo di Aldo N. Terrin

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La notizia della morte di don Aldo Natale Terrin, che ci ha lasciato l’altra sera, 9 gennaio 2024, mi ha riportato, quasi all’istante, alla morte di don Luigi Sartori, a Padova, quasi 20 anni fa. Allora pensai la stessa cosa che penso oggi: questi due uomini, legati tra loro da un vincolo di discepolato e di cordiale amicizia, hanno dato a pensare alla teologia italiana per più di 60 anni, e questa è stata la fecondità della loro scuola.

Sartori aveva generato, tra gli anni ’60 e gli anni 2000, una grande schiera di allievi, che erano stati educati, edificati e nutriti dalla sua parola potente.

Sartori parlava davanti a piccoli schemi, che gli permettevano grandi discorsi, in cui il passaggio tra l’incanto mistico e la battura irresistibile, tra la vetta sistematica e la barzelletta esilarante e scattante avveniva in un lampo, sempre nuovo e sempre sorprendente.

Tra i tanti e diversissimi allievi di don Luigi ci fu don Aldo. Diversissimo da lui per metodo, per interessi e per retorica. Quanto il primo era uomo del testo annunciato e proclamato, il secondo era uomo che rifiniva con cura estrema il testo scritto, pulito e levigato, pronto per essere letto e pubblicato, da stampare.

La retorica travolgente del primo corrispondeva al tono pacato, quasi dimesso, sempre riflessivo, sempre un poco titubante del secondo. Ma questo procedeva per enunziazione di tesi, contesti ampi di confronto bibliografico, dialettiche sottili di argomentazioni, mentre il primo assumeva tutto il sapere sistematico in una sintesi personale, ad un tempo originale e classica, teologica e nutrita di filosofia.

La vocazione al dialogo col mondo, aperto, spregiudicato, libero e curioso era la medesima impronta, che Aldo aveva tratto e conservato gelosamente da Luigi. La custodiva nel profondo del suo pensiero, e la rivelava in tutti i suoi testi, nelle sue pagine rifinite e perfette, sempre in equilibrio anche quando le sue tesi erano forti, sempre con un leggero tratto di ironia e di understatement.

Ma se Luigi era essenzialmente un teologo, per Aldo il cuore batteva in campo fenomenologico e antropologico. E tuttavia dal teologo Sartori trovavi mille stimoli a rileggere la cultura, e dal fenomenologo Terrin altri mille per interrogare la teologia. L’intreccio non mancava mai, anche quando il primo voleva essere “puro teologo” e il secondo “puro antropologo”.

Un’ingente genealogia di studiosi nel campo della teologia e dell’antropologia ha imparato da loro l’essenziale: dall’alleanza segreta e anche molto manifesta tra questi due “padovani” ha tratto uno stile di libertà che altrimenti sarebbe stato quasi impensabile e impraticabile.

Essere teologi rispettando davvero le logiche intransitive del rito non è affatto semplice. Come non lo è essere antropologi senza escludere, per principio, la serietà non solo della religione, ma della confessione religiosa.

Il miracolo di una “scuola padovana” – che ha segnato in modo diverso il Seminario, la Facoltà teologica e l’Istituto di Liturgia Pastorale – è stato possibile grazie alla serietà con cui il teologo si è aperto all’antropologia e l’antropologo ha rispettato l’irriducibilità del dato rispetto all’interpretazione teologica.

Questa correlazione non è stata facile allora e non lo è neanche oggi. Non è stata semplice neppure nel rapporto cavalleresco tra Luigi e Aldo, che si sono confrontati con una grande serietà professionale, sempre venata dall’ironia e dallo scherzo, ma cogliendo fino in fondo il rischio di chiusura reciproca di ognuna delle discipline, in quello splendido isolamento che garantisce l’impermeabilità dei saperi, con la caduta in una pericolosissima autoreferenzialità.

Navigavano entrambi in mare aperto, alzando alte le vele e cercando il vento anche molto lontano da riva. Questo era il bello e l’appassionante delle loro lezioni e delle loro conferenze.

Partivi sempre per un viaggio che non ti garantiva un approdo sicuro e un “happy end” tranquillizzante. Era questo che ti formava e noi tutti, che li abbiamo ascoltati e seguiti per larghi tratti di strada, ci portiamo dentro, tornando ai loro scritti e sentendo ancora quel loro tono di voce, quel particolare stacco ironico e quell’intensità di parola e di silenzio, che caratterizzava sempre il loro discorso e che forse potrebbe anche essere la cosa migliore che abbiamo scoperto come una possibilità anche nostra, riconoscendo subito di averla imparata proprio lì, proprio alla loro scuola.

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Un commento

  1. Giuseppe Turani 11 gennaio 2024

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