
Raul Buffo è curatore, con Piero Coda, del volume Gli ultimi sono saranno i primi (Città Nuova, Roma 2025). Le domande della nostra intervista sono curate da Giordano Cavallari.
- Caro Raul, questo volume è inserito in una collana (DDOT/9): mi puoi spiegare qual è il progetto editoriale e la collocazione di questo?
Comincio dalla collocazione del progetto. La collana in cui il volume si colloca porta il titolo di «Dizionario Dinamico di Ontologia Trinitaria». Il lemma «ontologia trinitaria», che qualifica l’intero progetto editoriale, è ripreso dal breve ma intenso opuscolo del teologo e filosofo tedesco Klaus Hemmerle intitolato Tesi per una ontologia trinitaria, scritto tra l’altro come regalo per Hans Urs von Balthasar in occasione del suo settantesimo compleanno.
Il cuore pulsante della sua proposta, che è poi anche quella del DDOT, è straordinario nella sua semplicità: la ricerca di una nuova luce a partire dalla quale vedere e comprendere il senso e la verità dell’E/essere, vale a dire, della realtà nel suo insieme e nella molteplicità delle sue espressioni. Questa luce è, per l’appunto, quella che promana dalla rivelazione, in Gesù Cristo, del volto di Dio come Trinità d’amore. In breve: si tratta di concepire l’amore trinitario, reciproco e gratuito, come luogo formale, vitale ed esistenziale del pensare: come sua luce e, inscindibilmente, come ritmo del suo esercizio.
Ecco, dunque, la sfida che – in un tempo come il nostro, segnato dal predominio di una razionalità meramente funzionale, calcolante e tecnocratica – il progetto del DDOT invita ad assumere: partire dal cuore della rivelazione cristiana per «ripensare il pensiero», cioè, per elaborare un pensiero all’altezza della sfida del nostro tempo.
Per quanto riguarda invece il progetto editoriale – coordinato da alcuni importanti teologi e filosofi quali Piero Coda, Massimo Donà, Giulio Maspero o Carmelo Meazza – esso, originariamente, era stato pensato come un dizionario «sistematico» in senso classico. Tuttavia, l’idea iniziale si è via via precisata nei termini di un dizionario «dinamico», cioè come work-in-progress, declinato in una serie di agili saggi consacrati a tratteggiare, ogni volta a più voci, le «parole», le «figure», le «questioni» e le «prospettive» – ossia le quattro grandi sezioni in cui è strutturato il Dizionario – inerenti all’ontologia trinitaria. Si tratta pertanto di una collana in costante sviluppo, che è frutto di un laboratorio di pensiero attorno ai temi dell’ontologia trinitaria, nello spazio sempre aperto ed eccedente del dialogo tra teologia e filosofia in cui trovano casa anche tutte le altre espressioni disciplinari del sapere, sia naturale che sociale.
- Qual è il carattere di urgenza del libro e del tema degli «ultimi»?
Il volume in questione è dedicato al rapporto tra i «primi» e gli «ultimi» prendendo spunto dalla cosiddetta parabola «dei lavoratori della vigna» o «degli operai dell’ultima ora» di Mt 20,1-16. Un tema trasversale sempre attuale, che si schiude su diversi piani e sotto i più vari profili: quello logico, quello temporale, quello escatologico, quello del fondamento, quello politico, giuridico e sociale. Ma è soprattutto nella sua valenza storico-sociale che il tema è diventato oggi urgente.
Sebbene un certo divario socioeconomico tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli, cioè tra quelli che possiamo definire «primi» e «ultimi», sia sempre stato presente nella storia delle società, il fenomeno della disuguaglianza socioeconomica sta sperimentando oggi una crescita esponenziale che non trova paragone in tutta la storia umana. Non solo: anche la complessità dei suoi intrecci è aumentata, al punto da toccare e incidere su sempre più ambiti della vita umana, dalla mentalità agli stili di vita, dal lavoro all’educazione, dall’infanzia all’anzianità, dalla microeconomia alla politica internazionale, dal genere all’ecologia.
Ce lo dicono i dati scandalosi dei rapporti sulla disuguaglianza dei più importanti organismi a livello mondiale. Lo ha detto bene e a più riprese il magistero di papa Francesco, che nella Laudato si’ muove giustamente dalla costatazione dell’aumento di queste disuguaglianze e della sua crescente complessità quando, ad esempio, denuncia «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta» (LS 16). Ne ha insisto di recente papa Leone XIV nell’esortazione apostolica Dilexi te sull’amore verso i poveri.
- Nel titolo i verbi «sono» (presente) e «saranno» (futuro) non sono separati da segni che possano significare una alternativa: perché?
Sono contento che tu abbia colto questo nostro intento sul piano grafico. Anzitutto c’è da dire che si tratta, a tutti gli effetti, di una provocazione, di un invito a pensare altrimenti, anche perché – come è noto – il verbo nella parabola è al futuro. Ora, la trascrizione del pensiero e dell’oralità nella scrittura richiede una traduzione che è sempre difficile. Infatti, in una tale operazione rimane sempre uno scarto irriducibile di equivocità, che però opera al contempo come luogo di emergenza di senso che chiama sempre di nuovo il pensiero, cioè «pro-voca» a pensare.
Con questa consapevolezza, direi quindi che l’intento è anzitutto quello di mettere in evidenza – e di denunciare – quel dispositivo logico e in definitiva escludente che, in qualche modo, sul piano temporale, impedisce all’orizzonte dell’attesa (il «saranno») d’interagire con il campo dell’esperienza concreta (il «sono»), per lievitarlo da dentro e trasformarlo. Senza questa contaminazione tra il «sono» e il «saranno», troveremmo nella parabola soltanto un’idealistica, illusoria e inefficace proposta consolatoria, per di più anche facilmente strumentalizzabile (e Karl Marx non ha mancato di stigmatizzarlo) di fronte alle ingiustizie che gravano sull’esistenza presente.
In questo senso, la difficoltà più grande consiste nel dare conto dell’«attualità» del dramma della povertà e della sofferenza di chi è «ultimo». Perché una giustizia che costantemente rimanda la sua realizzazione a un orizzonte a venire non può mai essere vera giustizia, bensì, tutt’al più cattiva consolazione, e perciò funzionale più a giustificare i “primi” che a dare speranza e conforto agli «ultimi».
Siamo coscienti però del rischio di segno inverso: quello, cioè di schiacciare il futuro nel presente di una giustizia che si riduce a mera equivalenza. Occorre perciò, al contempo, aprire questa giustizia all’esperienza della gratuità, della grazia e della riconciliazione, che provengono sempre dal futuro, dall’escathon.
- Qual è dunque la lettura che si propone della parabola da Matteo 20,1-16?
Il libro si propone anzitutto di esplorare alcune delle principali questioni che questa parabola pone al pensiero, tenendo certamente conto dei guadagni dell’esegesi biblica, non tanto però per metterli in discussione quanto per pensare a partire da alcune delle sue sollecitazioni.
Cosa significa – per fare solo qualche esempio – il fatto che gli ultimi ricevono lo stesso compenso dei primi? O la rottura della regolarità delle ore che scandiscono la chiamata dei nuovi gruppi di operai, quando nell’ultima ora utile, poco prima del calar del sole, vengono ingaggiati ancora operai che fino a quel punto erano rimasti «oziosi»? Oppure, ancora, il fatto che lo stipendio venga pagato «incominciando dagli ultimi fino ai primi»? O, infine, la risposta secca del padrone – «non posso fare delle mie cose quello che voglio?» – di fronte al comprensibile mormorio dei lavoratori del primo gruppo, che avendo lavorato molte più ore rispetto a tutti gli altri, si sarebbero «giustamente» aspettati qualcosa in più della retribuzione loro accordata?
In tal modo, la parabola in questione apre a una serie di interrogativi sull’intenzionalità dell’agire umano nella storia: a partire dal significato della priorità logica, ontologica ed etica di chi è considerato «primo» rispetto a chi è considerato «ultimo», e viceversa; ma anche sulla implementazione della giustizia umana di fronte alla paradossalità della giustizia divina che si annuncia con Gesù nella «logica» sovversiva dell’avvento del Regno; così come sul rapporto tra l’esistenza storica e il suo destino ultimo, escatologico, e sul significato della condizione sociale e della gestione politica della situazione d’esistenza degli emarginati, poveri, oppressi, stranieri o apolidi, scartati: tutti coloro, insomma, che noi – in quanto primi, secondi, o persino penultimi – vediamo come «ultimi».
Come intendere dunque l’affermazione di Gesù: «gli ultimi saranno i primi» che chiude la parabola? Come intendere la «giustizia degli ultimi» alla quale fa eco questo brano? Come ho già accennato, secondo una logica umana, troppo umana, si potrebbe trattare della promessa di un progredire nella propria condizione che, tuttavia, in quel «saranno», rimanda a un futuro che continua a tardare, o forse soltanto di una mera utopia, di una vana consolazione.
Ma se guardata dalla logica del Regno di Dio cui sottostà la parabola, essa invita invece a vedere quel futuro come un futuro escatologico, convertibile in un presente storico. E torno qui alla domanda che mi avevi fatto prima: cioè, quel «saranno» è anche, soprattutto, un «sono». Proprio perché, secondo una logica divina, trinitaria, essere ultimo ed essere primo non si escludono a vicenda. Altrimenti questa trasformazione degli «ultimi» in «primi» non sarebbe che un lasciarsi alle spalle la condizione che li vede «ultimi» o quantomeno «penultimi», nel segno di una sostituzione.
È forse di questa logica che si fa testimonianza il verdetto della parabola, invitando a pensare che gli ultimi vengono qui riconosciuti «primi» proprio in quanto ultimi, e non in quanto capaci di lasciarsi alle spalle, dopo averla esclusa, la condizione di «ultimatività».
- Quale pensiero cristiano ne viene?
Più che un pensiero cristiano, direi che ne viene un pensiero che muove sì dal fatto cristiano, dall’evento pasquale di Cristo, ma che, proprio per questo, è pensiero laico, nel senso di comune e universale. Non è un caso che tanto il Vangelo quanto il dogma cristologico-trinitario siano stati, lungo la storia dell’umanità, punto di partenza per grandi tentativi di rinnovamento, anche da parte di chi non si professa credente: molti grandi filosofi contemporanei come Cacciari, Agamben, Donà, Badiou, Nancy, Derrida o Deleuze, per citarne alcuni, non esitano ancora oggi ad attraversare e frequentare, con grande libertà e senza troppi riguardi, sia la sponda filosofica che quella teologica del pensiero.
Questo non vuol dire però cadere nell’indistinzione o in un relativismo della verità rivelata in Cristo. Il pensiero cristiano – se si vuole mantenere questa dicitura che non è esenta da criticità – non può infatti consistere in altra cosa che nell’essere resi partecipi, per grazia, del noûs Christoû, il pensiero «di» Cristo di cui parla san Paolo in 1Cor 2,16. Non tanto però nel senso del genitivo oggettivo quanto in quello soggettivo: un preciso modo di esercitare il pensare nel ritmo del dono agapico, cioè nel ritmo dell’amore trinitario.
È questo il pensiero che ne viene dallo specifico cristiano: quello della «logica» sovversiva dell’avvento del Regno annunciata da Gesù e condensata nel suo insegnamento in parabole, e del suo invito a una conversione del cuore e della mente dalla logica del mondo – umana, troppo e solo umana, sino a cadere vittima di una logica non sim-bolica ma dia-bolica – alla logica del Regno che viene: sempre eccedente, irriducibile, inafferrabile da un pensiero narcisista e assoluto che si erge a unico metro del senso e della verità dell’E/essere, che proietta autoreferenzialmente la sua immagine su tutte le cose e finisce così per ridurre la complessità molteplice del reale alla misura esigua, meschina e condizionante del proprio sé.
- Quali declinazioni vengono proposte nel volume?
I vari contributi del libro declinano in diversi modi questo grande tema del rapporto tra i «primi» e gli “ultimi”. In maniera del tutto libera e originale, gli autori propongono percorsi che vanno dalla questione squisitamente teoretica – con accenti sia filosofici che teologici – di una logica fondata in ultima istanza su un’idea retributiva del bene e della salvezza (come nel caso dei contributi di Massimo Donà e Vincenzo Di Pilato) alla lettura contestuale del rovesciamento della condizione di «ultimi». Ciò, in particolare, per quello che riguarda specifiche categorie di persone, come nel caso degli immigranti o delle vittime della mafia (come nel caso di Vito Impellizzeri), o di specifiche esperienze culturali, come nel caso dell’America Latina, che senz’altro incarna il principale e più fecondo tentativo di elaborazione di una teologia e di una filosofia a partire dai poveri, emarginati, vittime, colonizzati (come nel caso di Lucas Cerviño).
Tale esperienza di pensiero trova poi espressione nel magistero di papa Francesco e nel suo instancabile invito ad abitare le periferie geografiche ed esistenziali dell’umanità di oggi (come ben mostra Marcello Tarì). Non mancano, infine, sostanziose e prospettiche testimonianze di riflessione – a partire dall’esperienza vissuta – sul significato del passo evangelico a proposito dei «primi» e degli «ultimi» (a cura di Luca Casarini e Gianfranco Bettin).





