Carne coltivata: alcune considerazioni

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carne coltivata

Su queste pagine (qui) ho già avuto modo di discutere i problemi legati alla carne coltivata, definizione da preferire a «carne sintetica». La recente approvazione di un DDL alla Camera dei Deputati per vietare la produzione e la vendita in Italia di carne coltivata, appunto, mi porta a riprendere alcuni aspetti della questione.

Di che cosa parliamo

La carne coltivata è il prodotto di una lunga storia scientifica che ha portato a sviluppare un processo per la moltiplicazione di cellule animali in condizioni controllate, fino ad ottenere un prodotto simile al macinato di carne.

Il processo, per molti versi, presenta analogie con quanto la scienza ha permesso di realizzare per la produzione di insulina ed altri ormoni che costituiscono oggi prodotti vitali per milioni di malati, o anche per la produzione dei vaccini che ci hanno portato fuori dalla pandemia.

In pratica, cellule isolate da muscoli animali vengono fatte moltiplicare con l’utilizzo di fattori naturali di nutrimento (brodi di coltura) all’interno di bioreattori, quindi raccolte a formare «pacchi». Le cellule più comunemente impiegate sono di pollo o di manzo, ma lo stesso processo può essere applicato a cellule muscolari di altri animali, a frutti di mare o, in maniera più mirata, a cellule di organi (ad esempio, cellule di fegato per il foie gras).

Il prodotto finale è classificato nell’ambito dei «Novel Foods», una categoria di alimenti strettamente regolata dall’Unione Europea.

I pro, i contro e i limiti

Al grido «Eat meat, not Animals, mangia carne non animali!» i produttori di carne coltivata stanno puntando sul valore etico dell’interruzione del perverso circuito di sofferenza causata agli animali negli allevamenti intensivi.

Mentre l’Organizzazione Mondiale di Sanità e le associazioni dietologiche suggeriscono di limitare il consumo di carne e prodotti caseari (proteine animali) per evitare danni alla salute, la richiesta di carne continua ad aumentare nel mondo, sia per l’aumento esponenziale della popolazione, sia per il miglioramento delle condizioni economiche in molti Paesi, in particolare in Cina coi suoi 1,4 miliardi di abitanti.

Il rapporto ONU (The World 2050) prevede che la richiesta di proteine animali potrebbe raddoppiare entro quella data: linea impossibile da raggiungere, se si vuole alimentare l’intero pianeta e frenare, al tempo stesso, la produzione di gas serra, provando a mitigare i cambiamenti climatici.

La produzione di cibo è globalmente responsabile di circa un quarto della produzione di gas serra, ed oltre il 50% di questo deriva dagli allevamenti e dalle colture collegate. Ridurre gli allevamenti intensivi, in condizioni spesso ben lontane dalle immagini bucoliche che ci vengono trasmesse dalla pubblicità, è quindi una priorità per un futuro sostenibile. In Cina esistono costruzioni di 20 piani nei quali vengono allevati – senza che mai possano vedere un filo d’erba – sino a 20.000 maiali!

Certamente anche la carne coltivata richiede impianti industriali con notevole impiego di energia e produzione di gas serra, ma almeno, «coltivandola», si potrebbe ridurre il consumo di suolo e di acqua. Per certo si ridurrebbe la diffusione degli antibiotici, tuttora ampiamenti dispensati negli allevamenti intensivi, il cui uso sistematico sta rendendo inefficaci i più potenti farmaci per il contrasto alle malattie infettive del futuro.

Costi e diseguaglianze

Tra gli effetti da considerare attentamente, oltre alla già citata necessità di energia, stanno gli eventuali danni alla salute, a tutt’oggi indimostrabili e per i quali si sta invocando, giustamente, il principio di precauzione.

Resta, poi, a mio giudizio, una valutazione sulla diseguaglianza economica e sociale che, probabilmente, si allargherebbe tra le classi privilegiate della popolazione dei Paesi del Nord del mondo – che continuerebbero a banchettare con carne – e quel 20% della popolazione dei Paesi del Sud del mondo che continuerebbe a non disporre di cibo a sufficienza. Dubito infatti che la produzione di carne coltivata sarebbe indirizzata ad alimentare i poveri.

C’è, infatti, il problema del costo, ancora proibitivo, che farà della carne coltivata, anche nei Paesi ove già è commercializzata (Singapore) o di prossima, probabile, approvazione e immissione nel mercato (Israele, Svizzera, USA), un cibo per pochi. Solo una massiccia produzione e diffusione commerciale potrà portare a costi competitivi rispetto alla carne da animali da allevamento, ma non certamente in tempi brevi.

Ora vietiamo, poi inseguiremo

In tutto questo, il DDL voluto dal governo italiano e approvato da un ramo del Parlamento ha tutte le sembianze di un «intervento di facciata», che peraltro ci espone a possibili procedure d’infrazione da parte dell’UE, come temuto anche riguardo alle regolamentazioni imposte per la commercializzazione delle farine d’insetti.

Evidentemente si tratta di un provvedimento fatto per soddisfare la «pancia» dell’elettorato e di associazioni di categoria quali – manifestamente – la Coldiretti; un disegno di legge pregiudizialmente antiscientifico e sicuramente antieconomico.

Vietandone, infatti, la produzione in Italia e sanzionando con multe da 10.000 a 60.000 euro il commercio di alimenti e mangimi prodotti a partire da colture cellulari, si tuteleranno, forse, per un po’ di tempo, gli allevatori, ma ci si troverà, tra qualche anno, a rincorrere invano la ricerca e l’industria straniera – ancora una volta soprattutto cinese – come sta accadendo per i materiali e le tecnologie della transizione energetica.

Di fronte a tanti timori governativi, pongo infine, una domanda: oggi, 2023, quanti italiani accorrerebbero ad acquistare carne coltivata ad un costo di produzione stimato intorno ai 200 dollari al chilo!?

Giulio Marchesini è docente di Dietistica presso l’Università degli studi «Alma Mater» di Bologna. È membro del gruppo Energia per l’Italia (www.energiaperlitalia.it)

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3 Commenti

  1. Pietro 26 novembre 2023
  2. Paola 24 novembre 2023
    • Anima errante 26 novembre 2023

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