Quel che resta di Togliatti

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Nel celebre Memoriale di Yalta Palmiro Togliatti intravede sì l’orizzonte della democrazia di stampo liberale, ma “fino al limite invalicabile della rottura” con l’Urss.

La cecità dei dirigenti, spesso colti, come Alessandro Natta, della seconda metà degli anni Ottanta impediva di cogliere, nell’esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre, la fine di un mondo, comprendente anche “il Migliore”. Gino de Giovanni, con il consueto acume, lo colse e lo scrisse: era l’agosto del 1989. Occorreva coraggio, in quei mesi, per farlo, pur a ridosso della caduta del Muro. Un perverso principio di inerzia si era impossessato del grosso del Pci.

Discussi telefonicamente, poco prima che ci lasciasse, con Salvatore Veca sul rapporto tra Oriente e Occidente: l’Ovest, la Russia, la Cina. La questione che ponevo era pressappoco la seguente: se Marx era un degno figlio dell’Occidente, chi era Lenin? E perché sia Mosca sia la Repubblica popolare di Pechino, in forme diverse, somigliavano più alle satrapie orientali che a eventi di liberazione del proletariato urbano e rurale?

Lenin, mi disse il compianto Salvatore, era un occidentalista, non uno slavofilo. A maggior ragione, dunque, avrebbe potuto imprimere al nuovo Stato il ruolo di ponte tra Oriente e Occidente. Ma non credeva proprio nel Parlamento e negli ordinamenti liberali, considerati solo come borghesi.

A mio avviso, dissi al filosofo, l’atto di morte della rivoluzione dei soviet era coinciso con lo scioglimento a mano armata, nel gennaio 1918, dell’Assemblea costituente, eletta a fine novembre, con una schiacciante maggioranza dei socialrivoluzionari, votati dai contadini, e con i bolscevichi fermi a 175 seggi su 707. Ecco, fu quella la caduta, fu quello il sintomo della malattia e la fine del sogno di libertà e di giustizia: i soviet non riuscivano a coniugarsi con le istituzioni democratiche. E il socialismo o è democratico e liberale o non è.

Salvatore e io, così, evocammo lo storico Braudel e le tendenze di “lunga durata” della storia. Le stesse che sottolinea Gino. Un grappolo di idee, di linee guida e di costanti che si ripropongono lungo i secoli, a dispetto dei mutamenti di regime e delle rivoluzioni. Ecco, nel caso dell’impero russo, tale grappolo comprende l’autocrazia e un governo dispotico, dagli zar a Lenin, fino a Stalin e a Putin.

L’ottobre ’17 resta un evento: un evento non necessario e almeno in parte inopinato; dunque, come direbbe Giacomo Marramao, un evento di libertà. Giacché la libertà, oltre che di principi e di valori, si nutre proprio di eventi (si guardi alla rivolta degli schiavi guidata da Spartaco, tra il 73 e il 71 a.C., contro il dominio romano). E il Novecento è stato il secolo, insieme, del comunismo e della socialdemocrazia, la vera utopia concreta.

Con il sogno, tuttavia, trasformato in incubo, nel primo caso. E con la socialdemocrazia che stenta a proporre una propria versione in sintonia con un mondo ormai globale, con la modernità-mondo e non più (solo o prevalentemente) nazione.

La filosofia della storia, scrive Gino, si è infranta sullo scoglio della vita, con i suoi chiaroscuri e la sua complessità. Non vi è affatto un’onda travolgente orientata verso la liberazione dell’umanità.

E Togliatti? Non solo ha contribuito all’elaborazione della Carta costituzionale, ma, in quella stessa temperie, con la conferenza di Reggio Emilia sul Ceto medio e Emilia rossa, ha donato alla sinistra, come dire?, un’altra bussola di lunga durata. Tradirla sancirebbe il suo suicidio. In una battuta: rispetto alla tragedia ungherese del ’56, aveva visto giusto il grande Giuseppe Di Vittorio. Rispetto all’articolazione della società italiana, invece, la ragione era dalla parte di Togliatti.

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3 Commenti

  1. Claudio Anselmo 30 agosto 2023
  2. Adelmo Li Cauzi 26 agosto 2023
  3. Stefano 25 agosto 2023

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