Poesia e santità

di:

catt-st

Attraverso il valico angusto della sofferenza –
I Martiri – con passo costante – camminarono.
I loro piedi – sulla Tentazione – I loro volti – su Dio –

Una maestosa – assolta – Compagnia –
Convulsioni celesti – tutto intorno –
Innocue – come strie di Meteore –
Sui Legami d’un Pianeta –

La loro fede – la loro eterna promessa –
La loro Attesa – leale –
L’Ago – rivolto al Nord – a guado, vanno –
Così – nell’Aria polare!
Emily Dickinson (poesia n.792) traduzione di Ariodante Marianni

La passione per le liriche della poetessa americana, famosa per il suo “esilio dal mondo”, mi porta a rileggere in due diverse traduzioni il brano che risale al 1863 circa. Capita nel giorno della Festa dei Santi quando il pensiero corre a definire – con la solita pretesa concettuale – la “santità”. Compito arduo, quasi impossibile.

Forse la poesia può aiutare, insieme alla memoria di chi ho conosciuto (penso, tra gli altri, a una straordinaria vicina di casa), nonché a qualche interessante biografia. Sappiamo quanto l’agiografia possa ingannare, quanto sia inopportuna nel suo intento pedagogico. Eppure, rimaniamo affascinati da figure orientate verso un Nord sconosciuto ai più. Esistenze che potrebbero dirsi sante per scelte personalissime, scelte non comuni ma decisamente volte al bene comune.

La penna di Emily Dickinson (Amherst-Massachusetts, 1830-1886) ha saputo tracciare ritratti indimenticabili dell’esperienza che l’anima fa di sé, della Natura e dell’Universo nella sua solennità. Alla sua morte la sorella Lavinia trovò circa duemila liriche ordinate in fascicoli in una cassetta chiusa a chiave e finalmente furono pubblicate.

Poesie per lo più brevi, alcune criptiche; molte con echi biblici che rivelano una formazione puritana. Non mancano in esse riferimenti letterari e ad avvenimenti storici accuratamente rivisitati. Illuminante una dichiarazione della stessa Dickinson, in una lettera al critico letterario T.W. Higginson: “Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualunque altro”.

Una chiave interpretativa che scalza ritratti fuorvianti di una geniale donna che scelse di vivere per 20 anni reclusa in casa, vestita di bianco e immersa in una silenziosa concentrazione al fine di difendere affetti, scrivere lettere e poesie.

In realtà la sua stanza era affollata. Come scrisse Margherita Guidacci nel 1961, per la Dickinson il “dramma della vita è interessante poiché non consiste in un monologo ma in un dialogo; uno scambio di messaggi fra le varie presenze che si rendono reciprocamente testimonianza: dal filo d’erba al cherubino che è nei cieli. E l’anima individuale è posta all’incrocio fra tutte le presenze e fra tutti i misteri”.

La sua poetica non sfugge al dolore ma lo attraversa e con “la lente di una lucida coscienza” ne coglie espressioni purificatrici. Sono testi di grande potenza vitale, umana e spirituale. È la stessa poetessa ad affermare che “trovava estasi nell’atto di vivere”.  Per me sono stati un vero balsamo dopo un grave lutto.

Testimoni di santità per Emily Dickinson sono i martiri: figure “dai piedi posti sulla Tentazione e dal volto rivolto al loro Dio” che incedono “calmi” (come traduce Marisa Bulgheroni) attraversando sofferenze. Sono le “tribolazioni” che patirono coloro di cui parla Giovanni il Presbitero nella sua immaginifica visione sull’isola greca di Patmos  presentando “una moltitudine immensa di ogni nazione, tribù, popolo e lingua – nessuno poteva contarla. E stavano tutti in piedi al cospetto del trono e al cospetto dell’Agnello, avvolti in bianche vesti” (Ap 7,9). La lente della poetessa coglie la disposizione spirituale dei componenti della Compagnia o “stuolo solenne – santo” (Bugaroni).

Essi mantengono un’attesa “leale”, (per Bulgheroni “serena”), una fede capace di dirigere l’ago al Nord, “nell’aria polare”. Lo scenario in cui la Dickinson immagina il cammino dei martiri è quello di un universo misterioso, fatto di convulsioni celesti per cui risulta inevitabile pensare alla Commedia dantesca. I viandanti dalle diverse identità convergono il loro sguardo verso un sicuro e affidabile punto di orientamento. A Chi è vicino e al contempo inafferrabile.  Come la grande poesia può rivelare.

Prossimo
è Dio e difficile è afferrarlo.
Dove però è il rischio
Anche ciò che salva cresce.
Friedrich Holderin (Patmos al Langravio di Homburg, 1803)

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