
«Libertà, successo, sicurezza: il denaro promette tutto. Ma a quale prezzo?». Sul rapporto tra sacro, potere e denaro il dettato evangelico è eloquente. È apprezzabile l’indagine che l’ISSR di Padova propone, tra fede e finanza, per capire come il nostro mondo secolarizzato sia arrivato a credere nel “dio denaro” e come possa il denaro tornare a essere mezzo di relazione e bene comune. Un breve percorso, in 4 giornate (giovedì), che inizia il prossimo 27 novembre e che viene di seguito brevemente introdotto (a questa pagina tutte le informazioni sul corso).
Da sempre denaro e religione si intrecciano: entrambi attingono alla dimensione affettiva, simbolica e rituale dell’esistenza umana. L’esperienza che ogni persona vive nel proprio rapporto con il denaro, lungi dall’essere una mera funzione economica o di scambio, si configura come un dispositivo antropologico che struttura relazioni di fiducia e di potere, di desiderio e di paura, di ansia e di preoccupazione.
Come osservava Georg Simmel, «Il denaro, in quanto puro mezzo, assolutamente indifferente rispetto a qualsiasi scopo e in quanto oggetto privo di qualità, è anche il più potente fattore di oggettivazione, il servitore universale che a sua volta asserve l’uomo al mondo delle cose, il mezzo che diventa padrone assoluto ed esautora qualsiasi fine di natura personale» (Filosofia del denaro, 1900).
Una religione secolare
Il progressivo processo di secolarizzazione ha lasciato un vuoto simbolico che il denaro ha gradualmente occupato, elevandosi a nuovo quadro di riferimento su cui la modernità confronta le proprie scelte. Privato dei suoi significati originari – misura, riserva di valore, scambio e fiducia –, il denaro si è trasformato in un autentico idolo. «L’adorazione dell’antico vitello d’oro – afferma Papa Francesco – ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro» (Evangelii Gaudium, n. 55).
Il «dio denaro» si presenta così come una religione secolare: promette salvezza e sicurezza, come ogni religione, ma in realtà alimenta ansia, invidia e una competizione permanente.
Nella genealogia spirituale del capitalismo, come ha mostrato Max Weber (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1905), la teologia calvinista della predestinazione contribuì a identificare il successo economico come segno visibile della grazia divina. La prosperità materiale divenne così indice di elezione e garanzia di salvezza, ponendo le basi di una razionalità economica fondata sull’efficienza e sull’accumulazione.
Anche se in forme nuove, questo paradigma riaffiora oggi nelle cosiddette «religioni della prosperità», che coniugano benessere spirituale e ricchezza finanziaria, costruendo un immaginario salvifico centrato sulla ricchezza e sul consumo. Le loro «cattedrali» sono i centri commerciali e le piattaforme digitali; i loro «sacerdoti», influencer e consulenti di successo; i loro «riti», i grandi eventi di massa legati al lancio di nuovi prodotti.
Onnipotenza
La forza seduttiva della religione del denaro risiede nella sua illimitata potenzialità: non occorre possedere gli oggetti, basta sapere di poterli avere. Questo placa temporaneamente l’ansia e la frustrazione che derivano dall’impossibilità di colmare il desiderio d’infinito che abita l’uomo. Ma il desiderio, una volta soddisfatto, riaffiora più forte, trascinando il soggetto in un circolo vizioso: più si ha, più si desidera avere, ma l’avere non potrà mai compensare il desiderio di essere.
Il denaro diventa così simbolo di onnipotenza, capace di placare – almeno per un istante – la paura della morte e il timore del giudizio altrui. Promette libertà, bellezza, sicurezza e indipendenza: una divinità immanente che sembra sostituire le antiche speranze riposte nelle «vecchie» divinità. Il capitalismo, frutto maturo di questa teologia del denaro, si è infatti «sviluppato come parassita del cristianesimo, fino a costituire un culto senza tregua e senza espiazione» (Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921).
Ogni idolatria, però, genera schiavitù. La tradizione cristiana ha sempre messo in guardia dalle lusinghe del denaro: «Non potete servire Dio e Mammona» (Mt 6,24) è uno dei passaggi più incisivi dell’insegnamento di Gesù. L’alternativa non è tra povertà e ricchezza, ma tra due signorie: da una parte il Dio di Gesù Cristo, che aggiunge vita a vita; dall’altra il dio denaro, che la sottrae.
La scelta di san Francesco d’Assisi di sposare volontariamente «Madonna Povertà» rappresenta un gesto di straordinario spessore teologico. Nel momento in cui viene privato del suo potere idolatrico, il denaro può tornare a essere ciò che è: un mezzo per creare relazioni, comunione e realizzare il bene comune. Solo chi non cerca nel denaro la propria identità e la propria realizzazione è in grado di usarlo in modo libero e umano.
Non a caso furono proprio i frati minori a concepire i Monti di Pietà, antesignani degli attuali istituti di credito, nati per liberare i poveri dall’usura e restituire dignità alla persona.
Il percorso padovano
L’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Padova propone un percorso che intende delineare i fondamenti di una teologia del denaro, articolata in quattro direttrici complementari: antropologica, teologica, filosofica ed economico-finanziaria (pagina dedicata al corso sul sito istituzionale).
Dal punto di vista antropologico, si indagheranno le dinamiche psicologiche e affettive che connettono il denaro all’identità personale, alla fiducia e alla paura della perdita, interrogando le condizioni in cui la ricchezza può diventare generativa e orientata al bene comune.
Sotto il profilo teologico, il percorso ripercorrerà la tradizione biblica e cristiana per riscoprire la valenza morale del denaro come strumento al servizio dell’uomo e per denunciare le derive idolatriche che ne fanno un padrone. Come ricorda il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (n. 329), «Le ricchezze realizzano la loro funzione di servizio all’uomo quando sono destinate a produrre benefici per gli altri e per la società».
La prospettiva filosofica metterà in dialogo i concetti di desiderio, potere, libertà, idolo e felicità, interrogandosi sulla natura dello “strumento-denaro” quando rimane mezzo e non diventa fine. Già Aristotele ammoniva: «Il prestito a interesse è detestabile, perché trae guadagno dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Il denaro, infatti, non è stato fatto per moltiplicarsi da sé, ma per gli scambi» (Politica, I, 10, 1258b). Solo il lavoro umano, la creatività e la produzione di beni e servizi, per il filosofo ateniese, generano vera ricchezza.
Infine, l’approccio economico-finanziario esplorerà le condizioni in cui la ricchezza possa essere posta al servizio di uno sviluppo integrale e sostenibile, nella logica della solidarietà e della giustizia sociale, dentro e fuori la Chiesa. In questa prospettiva, «il denaro deve servire, non governare» (Evangelii Gaudium, n. 58): solo così potrà tornare a essere linguaggio di fiducia e non strumento di dominio.





