V Quaresima: Un grembo, non più una tomba

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“Quando gli dèi formarono l’umanità, attribuirono la morte all’umanità e trattennero la vita nelle loro mani”. Sono le parole che – nella celebre epopea mesopotamica – la taverniera Siduri rivolge a Gilgamesh che è alla disperata ricerca dell’albero della vita. Sconsolato l’eroe capisce che deve rassegnarsi: morire è partire per il “Paese senza ritorno”.

Tenebra, silenzio, oblio avvolgono la dimora dei morti anche secondo la concezione ebraica.

È difficile trovare nell’AT qualche accenno all’immortalità dell’anima e alla risurrezione dei morti e, certamente, quei pochi testi non sono stati scritti prima del II secolo a.C.

Giobbe affermava: “Per l’albero c’è speranza se viene tagliato, ancora ributta, al sentore dell’acqua rigermoglia e mette rami come nuova pianta. L’uomo invece, se muore, giace inerte. Potranno sparire le acque del mare e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi, ma l’uomo che giace più non s’alzerà, finché durano i cieli non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno” (Gb 14,7-12). Questo sconforto sfociava in un’elegia sulla bocca del salmista: “Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa. Distogli il tuo sguardo, che io respiri, prima che me ne vada e più non sia” (Sal 39,6-7.14).

Così gli spiriti più illuminati dell’antichità esprimevano il loro sconcerto, la loro angoscia, il loro smarrimento di fronte alla caducità della vita. La Bibbia ci ha conservato il ricordo del loro disorientamento e delle loro inquietudini per ricordarci quanto erano dense le tenebre della tomba, prima che sul mondo risplendesse la luce della Pasqua.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Quando attraverserò la valle oscura, non temerò alcun male, perché tu, Signore della vita, sei con me”.

Prima Lettura (Ez 37,12-14)

12 Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. 13 Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. 14 Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”. Oracolo del Signore Dio.

Fra gli israeliti deportati a Babilonia nel 597 a.C. c’è anche un sacerdote, Ezechiele, destinato a diventare il profeta del popolo in esilio. “Il cinque del decimo mese dell’anno decimosecondo della deportazione”, arriva ansimante da lui un fuggiasco da Gerusalemme e gli dice: la città è caduta (Ez 33,21). Quattro mesi prima i soldati di Nabucodonosor l’avevano presa e data alle fiamme, catturando un nuovo gruppo di prigionieri, più numeroso del precedente, destinato ad ingrossare le file di quello che già si trovava in Mesopotamia. Ezechiele svolge la sua attività di profeta fra questi deportati che, sconfitti e avviliti, vanno ripetendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti” (Ez 37,11). Si sentono cadaveri senza vita, anzi peggio, scheletri rinsecchiti, corrosi, consumati dai molti anni trascorsi nella tomba dell’esilio.

È dunque tutto finito? Le promesse di benedizioni fatte ad Abramo sono state rese vane dai peccati del popolo? Certo nessuno potrà ormai ridare vita a Israele, ridotto a un’immensa distesa di ossa aride, sparse nella pianura e nelle valli del Paese dei due fiumi (Ez 37,1-3).

 In questo contesto storico Ezechiele annuncia il prodigio inaudito che il Signore sta per compiere: Dio ridarà vita a quelle ossa disseccate, risusciterà gli israeliti a nuova vita, aprirà i sepolcri in cui sono stati deposti, li farà uscire dalle loro tombe e li ricondurrà nella loro terra (vv. 12.13).

Questa profezia non si riferiva alla risurrezione dei morti come la intendiamo noi, ma al ritorno in patria dei deportati. Tuttavia, nei secoli successivi, essa fu oggetto di studio e di riflessione da parte dei rabbini, acquistò grande importanza e contribuì a far sbocciare l’idea che, alla venuta del messia, tutti i giusti sarebbero ritornati in vita per partecipare alla gioia del nuovo Regno.

Ovunque entra lo spirito del Signore, lì giunge la vita. È accaduto all’inizio del mondo quando Dio, dopo aver plasmato l’uomo dalla polvere del suolo, soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gn 2,7). Questo spirito di vita ancora oggi continua ad operare in ogni situazione di morte: quella degli odi e dei rancori atavici fra popoli, delle incomprensioni e dei dissidi familiari, delle divisioni nella comunità. Nulla è irrecuperabile per lo spirito del Signore, egli può ricomporre e ridare vita anche a ossa inaridite.

Seconda Lettura (Rm 8,8-11)

8 Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.
9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

Tutti gli uomini muoiono. La vita biologica che hanno in comune con gli animali non dura per sempre. Anche Gesù, essendo uomo come noi, è morto, doveva morire. Ma è risorto. Perché è accaduto? Cosa lo ha fatto risuscitare?

Nella lettura di oggi Paolo risponde: egli possedeva in pienezza lo spirito di Dio, cioè, aveva in sé la vita di Dio che non può morire.

La vita dell’uomo ha un inizio e ha una fine, quella di Dio no, egli non è nato e non muore. Gesù aveva in sé questa vita divina e quando un giorno si è conclusa per lui la vita materiale, lo spirito di Dio lo ha fatto risorgere, lo ha introdotto nella gloria del Padre.

Paolo continua: anche noi che abbiamo ricevuto nel battesimo il suo stesso Spirito, la sua stessa vita, non possiamo più morire. Avrà termine la nostra vita in questo mondo, ma non sarà la fine di tutto, lo Spirito che risuscitò Gesù e che abita in noi darà vita eterna ai nostri corpi mortali.

Vangelo (Gv 11,1-45)

1 Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. 2 Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3 Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, il tuo amico è malato”.
4 All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. 5 Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro. 6 Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.
7 Poi, disse ai discepoli: “Andiamo di nuovo in Giudea!”. 8 I discepoli gli dissero: “Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”. 9 Gesù rispose: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10 ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce”. 11 Così parlò e poi soggiunse loro: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo”. 12 Gli dissero allora i discepoli: “Signore, se s’è addormentato, guarirà”. 13 Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno. 14 Allora Gesù disse loro apertamente: “Lazzaro è morto 15 e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!”. 16 Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”.
17 Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro. 18 Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia 19 e molti giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello. 20 Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21 Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22 Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. 23 Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. 24 Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. 25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”. 27 Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”.
28 Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: “Il Maestro è qui e ti chiama”. 29 Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui. 30 Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31 Allora i giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: “Va al sepolcro per piangere là”. 32 Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. 33 Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: 34 “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. 35 Gesù scoppiò in pianto. 36 Dissero allora i giudei: “Vedi come lo amava!”. 37 Ma alcuni di loro dissero: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?”.
38 Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. 39 Disse Gesù: “Togliete la pietra!”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”. 40 Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. 41 Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. 42 Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. 43 E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. 44 Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
45 Molti dei giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Il racconto della rianimazione di Lazzaro è molto lungo, eppure la parte dedicata al miracolo è brevissima, due versetti soltanto (vv. 43-44); il resto è costituito da una serie di dialoghi che hanno lo scopo di introdurre il lettore nel livello più profondo del testo, là dove si può cogliere il vero significato del segno operato da Gesù.

Ho parlato di rianimazione di Lazzaro, non di risurrezione perché un conto è ritornare in questo mondo, riprendere questa vita materiale ancora segnata dalla morte e un altro è lasciare definitivamente questa vita e, come è successo a Gesù nella Pasqua, essere introdotti nel mondo di Dio dove la morte, nessun tipo di morte, ha più accesso. Riportare di qui è rianimare, condurre di là è risorgere.

Fatta questa precisazione, accostiamoci al brano cominciando a rilevare alcune incongruenze e alcuni dettagli poco verosimili. Nella pagina di cronaca di un giornale, dove la notizia deve essere riferita il più fedelmente possibile, ci sorprenderebbero, nel vangelo di Giovanni invece costituiscono indizi preziosi: orientano verso il messaggio teologico del racconto. Provo ad elencarli.

– Nei primi versetti (1-3) compare una famiglia piuttosto strana. Non ci sono i genitori, non si parla di mariti, di mogli, di figli, ma solo di fratelli e sorelle.

– Nel v. 6 è riferito un comportamento inspiegabile di Gesù: viene a conoscenza che Lazzaro sta male e, invece di andarlo a curare, si ferma per altri due giorni; sembra proprio che lo voglia lasciar morire. Perché non interviene?

– Poco dopo fa un’affermazione sconcertante: “Lazzaro è morto e io sono contento di non essere stato là” (v. 15). Come può rallegrarsi di non aver impedito la morte dell’amico?

– Altra difficoltà: in quel tempo non c’erano telefoni, come ha fatto Marta a sapere che Gesù stava arrivando (v. 17)? E, mentre lei va a chiamare Maria (v. 28), cosa fa Gesù fermo sulla strada? Perché aspetta che sia Maria ad uscire da Betania e ad andare da lui? Noi non ci saremmo comportati in questo modo: ci saremmo immediatamente diretti alla casa del defunto per porgere le condoglianze.

– Nei vv. 25-26 viene riportata una frase di Gesù non facile da interpretare: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”. Come fa a promettere che il suo discepolo non morrà mai quando noi constatiamo che i cristiani muoiono come tutti gli altri? Cosa intende dire?

– Al v. 35 si dice che Gesù piange per la morte dell’amico. Come si spiega questo suo comportamento, se già sa che poi lo risusciterà? Sta fingendo?

– Infine: la famiglia di Betania scompare senza lasciare alcuna traccia nel vangelo di Giovanni e non compare più in tutto il resto del NT. Dove sono finite queste tre persone tanto care a Gesù?

È strano anche il fatto che un miracolo così clamoroso non sia neppure menzionato dagli altri evangelisti.

Questi particolari sono il segno inequivocabile che Giovanni ha voluto offrire ai suoi lettori non il freddo resoconto di un fatto, ma un denso brano di teologia. Prendendo spunto da una guarigione che aveva suscitato una notevole impressione perché il malato era ritenuto morto, l’evangelista ha affrontato il tema centrale del messaggio cristiano: Gesù, il Risorto, è il Signore della vita.

Cominciamo dal significato che Giovanni intende attribuire alla famiglia di Betania, composta soltanto da fratelli e sorelle. Rappresenta la comunità cristiana dove non sono ammessi né superiori né inferiori, ma solo fratelli e sorelle. Un intenso clima affettivo unisce queste persone a Gesù. L’evangelista sottolinea con insistenza l’amicizia del Maestro con Lazzaro (vv. 3.5.11.36). È il simbolo del profondo legame fra Gesù ed ogni discepolo: “Non vi chiamo più servi – dirà durante l’ultima cena – ma vi ho chiamato amici (Gv 15,15).

In questa comunità accade un fatto che sconcerta, pone di fronte a un enigma insolubile: la morte di un fratello. Che risposta dà Gesù al discepolo che gli chiede se questo tragico evento può avere un senso? Chi vuole bene a un amico non lo lascia morire. Se era amico di Lazzaro ed è nostro amico, perché non impedisce la morte?

Come Marta e Maria anche noi non comprendiamo perché egli “lasci passare due giorni”. Da lui ci aspetteremmo, come segno del suo amore, un intervento immediato. Il velato rimprovero che gli muovono le due sorelle è anche il nostro: “Se tu fossi stato qui, nostro fratello non sarebbe morto” (vv. 21.32).

La morte di una persona cara, la nostra morte, mettono a dura prova la fede, fanno sorgere il dubbio che egli “non sia qui”, che non ci accompagni con il suo amore.

Lasciando morire Lazzaro, Gesù risponde a questi interrogativi: non è sua intenzione impedire la morte biologica, non vuole interferire nel decorso naturale della vita. Non è venuto per rendere eterna questa forma di vita, ma per introdurci in quella che non ha fine. La vita in questo mondo è destinata a concludersi, è bene che finisca.

In questa prospettiva andrebbe riconsiderata la validità del rapporto che tanti cristiani hanno instaurato con Cristo e con la religione. Quando questa si riduce a pressanti richieste di interventi prodigiosi, sfocia inevitabilmente in crisi di fede e nel dubbio che “egli non sia qui” dove ci aspetteremmo che fosse, dove più abbiamo bisogno di lui: nella malattia, nel dolore, nella sventura.

Il dialogo con i discepoli (vv. 7-16) serve all’evangelista per mettere sulla loro bocca le nostre incertezze e le nostre paure di fronte alla morte. È la reazione dell’uomo che teme che essa segni la fine di tutto.

 È questa paura il nemico più subdolo del discepolo. Chi teme la morte non può vivere da cristiano. Essere discepoli significa accettare di perdere la vita, donarla per amore, morire come il chicco di grano che, solo se è posto nella terra, porta molto frutto (Gv 12,24-28).

 Nelle parole di Gesù, la morte è presentata nella sua giusta prospettiva. Egli afferma di essere contento di non aver impedito quella dell’amico Lazzaro (v. 15) perché per lui la morte non è un evento distruttivo, irreparabile, ma segna l’inizio di una condizione infinitamente migliore della precedente.

Siamo così giunti alla parte centrale del brano, il dialogo con Marta (vv. 17-27).

Lazzaro già da quattro giorni è nel sepolcro. In quel tempo si riteneva che, nei primi tre giorni, la persona non fosse ancora completamente morta. Solo al quarto giorno la vita l’abbandonava in modo definitivo. Giovanni non vuole informarci sulla data esatta del decesso, vuole dirci che Lazzaro era morto e basta. È la premessa necessaria alla domanda cui vuole dare una risposta: cosa può fare Gesù per chi è realmente e definitivamente morto?

Nel dialogo che segue, Gesù conduce Marta a capire che senso abbia la morte di un discepolo (di un fratello della comunità cristiana).

“Se tu fossi stato qui” è la dichiarazione di resa dell’uomo di fronte a un evento che lo supera, che si fa beffe dei suoi sforzi per respingerlo. È anche l’espressione del dubbio che nella morte Dio sia assente. Se Dio esiste, perché la morte?

Marta appartiene al gruppo di coloro che, a differenza dei sadducei, credono nella risurrezione dei morti. È convinta che, alla fine del mondo, suo fratello Lazzaro ritornerà in vita assieme a tutti i giusti e prenderà parte al regno di Dio.

Questo suo modo di intendere la risurrezione (simile forse a quello di molti cristiani di oggi) non consola nessuno. È troppo lontana e non ha alcun senso. Perché Dio dovrebbe far morire per poi riportare in vita? Perché far aspettare tanto? E come può l’anima rimanere senza il corpo? Infine, una simile risurrezione è poco credibile: se una persona muore, Dio può certo ricrearla, ma, in tal caso, farebbe un clone, non la persona di prima.

Il cristiano non crede in una morte e poi in una risurrezione che avrà luogo alla fine del mondo. Crede che l’uomo redento da Cristo non muore.

Vediamo di capire questo messaggio nuovo e straordinario che Gesù annuncia a Marta. Egli dichiara: “Chi crede in me non muore” (v. 26). Che significa? Come può non morire una persona che noi vediamo spirare e diventare un cadavere? Per spiegarci è necessario ricorrere a paragoni.

Tutta la nostra esistenza è caratterizzata da uscite e da entrate: usciamo dal nulla ed entriamo nel grembo di nostra madre. Compiuta la gestazione, usciamo per entrare in questo mondo caratterizzato da tanti segni di morte. Sono forme di morte la solitudine, l’abbandono, la lontananza, il tradimento, l’ignoranza, la malattia, il dolore. La nostra vita qui non è mai completa, è sempre soggetta a limiti. Non può essere questo il mondo definitivo, il nostro destino ultimo; per vivere in pienezza e senza morte, dobbiamo uscirne.

Supponiamo che nel grembo di una mamma ci siano due gemelli che possono vedere, capire, parlarsi durante i nove mesi della gestazione. Essi conoscono solo il loro piccolo mondo e non immaginano come sia la vita fuori. Non sanno che le persone si sposano, lavorano, viaggiano, non hanno idea che esistono animali, piante, fiori, spiagge. Conoscono solo la forma di vita di cui hanno esperienza.

Passati nove mesi il primo gemello nasce. Colui che è rimasto, ancora per breve tempo, in grembo alla madre, certamente pensa: “Mio fratello è morto, non c’è più, è scomparso, mi ha lasciato”… e piange. Ma il fratello non è morto. Ha solo lasciato una vita ristretta, breve, limitata ed è entrato in un’altra forma di vita.

Il discepolo – spiega Gesù a Marta – non sperimenta affatto la morte, ma nasce ad una nuova forma di vita, entra nel mondo di Dio, prende parte ad una vita che non è più soggetta ai limiti e alle morti, come accade invece su questa terra. È una vita senza fine. Di più non possiamo dire perché, se la descrivessimo, non faremmo che proiettarvi le forme di questa. Rimane una sorpresa che Dio tiene in serbo: “Occhio non vide, orecchio non udì, né mai è entrato in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9).

Nella prospettiva cristiana, dunque, la vita in questo mondo è una gestazione e la morte è verificata da chi rimane, non da chi muore.

A questo punto siamo in grado di comprendere la ragione per cui Gesù si rallegra di non avere impedito la morte di Lazzaro. Egli la vede nell’ottica di Dio: come il momento più importante e più lieto per l’uomo. Giustamente i primi cristiani chiamavano “giorno della nascita” quello che per gli altri uomini è il giorno funesto in cui si tuffano nel nulla.

Celebre è la sentenza di Lao-Tze: “Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una farfalla”. Il bruco non muore: scompare come bruco, ma continua a vivere come farfalla. È un’altra immagine che ci aiuta a capire la vittoria riportata da Cristo sulla morte.

Dopo aver ascoltato le parole di Gesù, Marta pronuncia una significativa professione di fede; riconosce che Gesù è colui che dona questa vita: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, l’atteso salvatore che doveva venire al mondo” (v. 27).

Non ci soffermiamo sul dialogo fra Gesù e Maria (vv. 28-33) perché non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto. Notiamo soltanto che Gesù non entra in Betania, dove i giudei sono andati a consolare le sorelle. Egli non è venuto per porgere condoglianze, ma per donare la vita e vuole che anche Maria esca dalla casa dove tutti stanno piangendo. Il suo fremito – “si commosse e si turbò” – mostra quanto anch’egli senta profondamente, come ogni uomo, il dramma della morte.

È importante la scena conclusiva (vv. 34-42).

Si apre con il pianto di Gesù. Il cristiano non può dirsi tale se non crede che la morte non è altro che una nascita, tuttavia non è insensibile e non può non versare lacrime quando un amico lo lascia. Sa che non è morto, è felice che viva con Dio, ma è triste perché, per un certo tempo, dovrà rimanere separato da lui.

Ci sono però due modi di piangere: uno è quello inconsolabile e scomposto di chi è convinto che, con la morte, è tutto finito. L’altro è quello di Gesù che, davanti alla tomba, non può trattenere le lacrime. Queste due forme di pianto sono espresse nel testo greco con due verbi diversi. Per Maria, per Marta, per i giudei è usato klaiein (v. 33) che indica il pianto accompagnato da gesti di disperazione; di Gesù invece si dice: edákrusen, che significa: “le lacrime cominciarono a scorrergli dagli occhi” (v. 35). Solo questo pianto sereno e dignitoso è cristiano.

Al pianto segue un ordine: “Togliete la pietra!”. È rivolto alla comunità cristiana e a tutti coloro che ancora pensano che il mondo dei defunti sia separato e non abbia comunicazione con quello dei vivi. Chi crede nel Risorto sa che tutti sono vivi, anche se sono partecipi di due forme di vita diverse. Tutte le barriere sono state abbattute, tutte le pietre sono state rimosse nel giorno di Pasqua, ora si passa da un mondo all’altro senza morire.

La preghiera che Gesù rivolge al Padre (vv. 41-42) non è la richiesta di un miracolo, ma di una luce per la gente che gli sta attorno. Chiede che tutti possano comprendere il significato profondo del segno che sta per compiere e che giungano a credere in lui, Signore della vita.

Il grido “Lazzaro vieni fuori!” è il compimento della sua profezia: “È giunta l’ora in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e vivranno. Tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e ne usciranno” (Gv 5,25-29). Difatti “il morto”, con tutti i segni che caratterizzano la sua condizione, “i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario” (v. 44), esce. “Il morto” – dice il testo. Sì, perché è con il morto, con chi è e rimane definitivamente morto (da quattro giorni nel sepolcro) che Gesù mostra il suo potere vivificante: non riportandolo di qui (questa sarebbe una vittoria effimera, non definitiva sulla morte), ma portandolo con sé nella gloria di Dio.

“Scioglietelo e lasciatelo andare” (v. 44) – ordina infine. L’invito è rivolto ai fratelli della comunità che piangono per la perdita di una persona cara. Lasciate che “il morto” viva felice nella sua nuova condizione. Il veggente dell’Apocalisse la descrive con immagini suggestive: “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, non vi sarà più morte, né lutto, né grida di dolore. Sì, le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).

Ci sono molti modi per tentare di trattenere il defunto: visite ossessive al cimitero (che è come cercare tra i morti colui che è vivo), l’attaccamento morboso a effetti personali, il ricorso ai medium per stabilire contatti… È doloroso essere lasciati da un amico, ma è egoistico volerlo trattenere, sarebbe come impedire a un bambino di nascere. “Scioglilo, lascialo andare!” – ripete oggi, con dolcezza, Gesù ad ogni suo discepolo che non si rassegna alla scomparsa di un fratello o di una sorella.

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