Abusi: Grand Jury Pennsylvania

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Dopo la presentazione del Report elaborato dal Grand Jury investigativo della Pennsylvania (qui), su sei delle otto diocesi cattoliche dello Stato, si è bruciata a velocità vorticosa una quantità impressionante di parole. Analisi, giudizio, riflessione, polemica, difesa, e così via – non è mancato nessun genere del discorso in questo effluvio linguistico e mediatico.

Non abbiamo più le parole

Da parte della Chiesa parole necessarie (dichiarazione del presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, card. D. DiNardo, qui), di chiarimento del proprio operato e di critica verso le procedure di recezione delle testimonianze da parte del procuratore generale della Pennsylvania J. Shapiro (dichiarazione del portavoce del card. D. Wuerl, qui) – in ogni caso, parole consapevoli della loro completa estenuazione: «Ci sono momenti in cui le parole ci vengono meno (…)» (dichiarazione dell’arcivescovo di Boston, card. S. O’Malley, qui).

Nell’assordante clamore di questi giorni, molto si è detto e speculato sul silenzio, ritenuto insopportabile, del Vaticano e di papa Francesco dopo che il testo del Report era stato reso pubblico martedì 14 agosto. Aggiungere parole a parole, per soddisfare l’insaziabilità della comunicazione odierna? Oggi, anche davanti a documenti ponderosi come quello prodotto dal Grand Jury della Pennsylvania (insieme agli annessi si sfiora il migliaio di pagine), tutto deve essere detto subito in una battuta.

Ma non è detto che corrispondere a questa voracità informativa sia la cosa più giusta da fare (forse la migliore strategicamente, ma non necessariamente la più adeguata verso tutti i soggetti in causa). Nella serata del 16 agosto è arrivata anche la dichiarazione del direttore della sala stampa vaticana G. Burke (qui); ossia, solo dopo che la Chiesa locale statunitense, sia a livello di Conferenza episcopale sia a livello di singoli vescovi, aveva potuto esprimersi pubblicamente rispetto agli esiti dell’indagine investigativa condotta dal Grand Jury.

Azioni e sistema criminale

Ci vorrà tempo per leggere tutto, e sarà esercizio necessario. Su singoli passaggi o casi si può probabilmente discutere in parte, tenendo anche conto del fatto che il Report è sostanzialmente l’istruzione accusatoria del caso. Quello che rimane fermo fin da ora è il carattere criminale delle azioni perpetrate dai singoli e delle procedure di copertura (omissione, insabbiamento, depistamento, giustificazione, pattuizione confidenziale, etc. etc.) dei casi di abuso da parte delle sei diocesi cattoliche.

Che queste forme procedurali fossero sistemiche, strutturate, articolate a partire da precise indicazioni gerarchiche interne (elemento forse tra i più importanti di quelli messi in luce dall’indagine del Grand Jury) è fatto assodato. Riconosciuto non solo a livello di giustizia criminale, ma anche da una delle stesse diocesi coinvolte.

Nella risposta al Report istruita nel corso delle indagini da parte della diocesi di Erie si afferma che, per quanto riguarda la dimensione sistemica e strutturale degli abusi nella Chiesa cattolica locale, un’indagine ad hoc promossa dalla diocesi, e affidata a un gruppo investigativo indipendente con diverse competenze specifiche necessarie al caso, è arrivata alle medesime conclusioni del Grand Jury della Pennsylvania.

Non sappiamo bene come e cosa fare

Qui tocchiamo probabilmente una delle fragilità maggiori della Chiesa cattolica, anche dopo la svolta decisa del 2002 attuata da parte dei vescovi statunitensi (e dalla Santa Sede). Perché non rendere pubblici e dare debita risonanza, anche nel dibattito ecclesiale, alla documentazione che raccoglie i risultati di una simile indagine promossa da una diocesi per esplicita volontà del suo vescovo?

Tanto più che essa è chiaro indice di una responsabilità episcopale che vuole farsi carico di tutta la storia della propria Chiesa (anche quella pregressa), e non limitarsi solo a garantire per il proprio tempo di esercizio del ministero.

Come detto, ci vorrà tempo per leggere tutto il Report e cogliere gli aspetti che possono contribuire costruttivamente alla dimensione pastorale e umana, all’interno della comunità cristiana, davanti agli abusi e violenze contro minori nella Chiesa cattolica. Che il Report sancisca, ancora una volta, il fallimento morale della leadership della Chiesa statunitense (come riconosciuto dal presidente della Conferenza episcopale) non basta da sé né a sanare le ferite delle vittime (se mai qualcosa del genere sia possibile), né a immaginare percorsi di auspicata riconciliazione, né tantomeno a garantire un futuro diverso per i credenti nella loro Chiesa.

Che nella Chiesa cattolica sia stato possibile il radicamento di tale un sistema criminale e criminoso, che ha goduto di condizioni favorevoli per il suo sviluppo e mantenimento, fino a diventare quasi come una «seconda natura» del corpo ecclesiale, dovrebbe far riflettere ben oltre le questioni legali e la dimensione del foro interno.

Con lo sguardo rivolto alla Chiesa italiana, sarebbe del tutto irresponsabile pensare che si tratti solo di cose oltreatlantiche. Ma vi è un altro aspetto di cui bisogna diventare consapevoli rapidamente, prima che sia troppo tardi. Un vescovo che entra oggi in una diocesi si fa carico, volente o nolente, di atti, omissioni, procedure, che non sono suoi – che lo precedono e tendono agguati a ogni sua buona prassi pastorale.

Non esserne avveduti e non agire in maniera corrispondente e adeguata a questa situazione non è più solo ingenuità, ma una negligenza. Forse, il «mestiere» del vescovo si è fatto oggi maledettamente serio e irto di difficoltà come non mai. Se qualcuno ancora si rende disponibile ad assumerlo con responsabilità e a esercitarlo in nostro favore gliene dobbiamo essere grati.

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