Ludmila Javorová, sacerdote nella Chiesa del silenzio

di:

donna prete

Dalla copertina un’anziana signora ci guarda sorridente. Lo sguardo è limpido negli occhi chiari e il sorriso è gentile e arguto. La perla dei piccoli orecchini pendenti, bianca come la sciarpetta che le avvolge il collo, dice un’eleganza semplice, pulita; il polso magro e la mano nodosa appoggiata al mento raccontano una vita di lavoro e di pensiero.

Il ritratto fotografico si staglia sullo sfondo di uno degli scorci panoramici più famosi della città di Praga, con il ponte Carlo sulla Moldova illuminato dai colori del tramonto.

Un volto di donna, una città

Le due immagini accostate nello spazio basso della copertina lavorano di contrappunto con il titolo stampato nella parte alta Ludmila Javorová, sacerdote nella Chiesa del silenzio[1]–, saldando in modo deciso l’eccezionalità dell’esperienza esistenziale di questa anziana signora gentile, “ordinata sacerdote della Chiesa Cattolica Romana”, come recitava il titolo di un altro libro a lei dedicato,[2] con le drammatiche vicende di clandestinità e persecuzione vissute nel Novecento dai cattolici dei paesi del Patto di Varsavia, ai tempi della cosiddetta “Chiesa del silenzio”, una stagione della nostra storia recente le cui conseguenze pesano in misura decisiva, ancora oggi, sulle dinamiche politiche e religiose degli stati europei.

Il libro si snoda nella forma di una lunga intervista in ventidue capitoli, a ciascuno dei quali è premessa una titolazione e una sintetica introduzione dell’intervistatore, il sacerdote salesiano Zdeněk Jančařík.

Il dialogo tra Jančařík e Javorová scorre agile; Ludmila, ottantottenne nell’anno dell’intervista,[3] risponde con disarmante freschezza alle domande che le vengono rivolte, sorretta da un’unica preoccupazione: dare testimonianza dell’immenso aiuto ricevuto da Dio.

Nelle parole di Ludmila i ricordi personali si distendono sulla tramatura di alcuni decisivi passaggi storici che può essere utile ripercorrere, proprio per meglio comprendere il portato dirompente della sua esperienza di vita.

Breve storia della Cecoslovacchia

Negli anni Trenta del Novecento, mentre l’Europa andava conoscendo l’onda inarrestabile delle derive totalitarie,[4] il piccolo stato della Cecoslovacchia era da più di dieci anni impegnato in un progetto politico democratico, sotto la guida del presidente Tomáš Garrigue Masaryk. Singolare figura di statista, Tomáš Masaryk proveniva da una famiglia morava di umili origini, nella quale aveva maturato la convinzione di una possibile, pacifica e costruttiva convivenza tra identità etniche diverse: il padre, cocchiere, era slovacco e la madre, cuoca, apparteneva alla minoranza ceca di lingua tedesca.

Avviatosi agli studi universitari, nel 1878 Tomáš incontrò a Lipsia la statunitense Charlotte Garrigue, sua coetanea, che si era trasferita in Europa per perfezionare gli studi musicali.

L’incontro e il matrimonio con Charlotte, donna di grande cultura e apertura intellettuale, rappresentò una tappa decisiva nella biografia di Masaryk, come suggerisce la decisione dei due coniugi di unire al proprio il cognome dell’altro, anziché seguire la prassi che voleva che la moglie rinunciasse al cognome paterno assumendo quello del marito.

Temi come l’attenzione alle minoranze, i diritti delle donne, la questione sociale, la democrazia, diventarono parte viva della riflessione e dell’impegno politico di Tomáš Garrigue Masaryk, fondatore agli inizi del Novecento del Partito popolare ceco.

Dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico al termine della Prima guerra mondiale, Garrigue Masaryk divenne uno dei principali sostenitori della creazione di uno stato indipendente democratico che unisse le regioni di Boemia, Moravia, Slovacchia e il territorio a prevalenza germanofona dei Sudeti e, nel 1918, fu il primo presidente eletto del nuovo stato repubblicano. Riconfermato per altri tre successivi mandati, si dimise ormai più che ottantenne, per motivi di salute, nel 1935; morì nel 1937, in tempo per scorgere le prime avvisaglie della nuova tragedia che si profilava all’orizzonte.

Nella regione dei Sudeti, tra la minoranza germanofona si era costituito un partito nazionalista che, fra violenze, rappresaglie e minacce di guerra, rivendicava il distacco dalla Cecoslovacchia e l’annessione al Reich.

Con la Conferenza di Monaco del settembre 1938 Hitler si aggiudicò il benestare all’annessione del Sudetenland, grazie alla mediazione di Mussolini e con l’avallo di Francia e Inghilterra, che si illudevano, in questo modo, di riuscire ad evitare un nuovo conflitto mondiale. Ma l’inizio della guerra fu solo ritardato di un anno, e con lo scoppio della Seconda guerra mondiale tutta la Cecoslovacchia venne occupata dalle forze militari della Germania nazista.

Ricostituita al termine del conflitto, la repubblica cecoslovacca venne inizialmente guidata da un governo di coalizione che sembrò poter garantire al paese il mantenimento di quel ruolo di baluardo della democrazia nell’Europa centrale che era stato idealizzato dai suoi padri fondatori.

Ma, nel febbraio del 1948, il Colpo di Stato di Praga portò al potere il partito comunista: la Cecoslovacchia entrò definitivamente nella sfera d’influenza sovietica, il processo di sovietizzazione subì un’impressionante accelerazione e il paese divenne, di fatto, una dittatura.

Braccio destro del potere e strumento della repressione fu la polizia segreta (Státní Bezpečnost, abbreviata in StB), che esercitava attività di controllo su dissidenti e oppositori, in ambito sia politico che religioso: tra arresti e processi farsa, basati su false prove e confessioni estorte con la tortura, il silenzio calava anche sulla vita culturale del paese, con gli intellettuali costretti a lavori umilianti e impediti nell’esercizio della scrittura.

Dovevano passare vent’anni, prima che, nel 1968, lo slovacco Alexander Dubček, divenuto segretario del partito comunista di Cecoslovacchia, si facesse fautore di un processo autonomistico nei confronti del controllo sovietico.

Dubček promosse l’introduzione di elementi democratici nella realtà politica e quotidiana, secondo una linea antiautoritaria che prese il nome di “socialismo dal volto umano”; ma, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, i carri armatici sovietici posero fine alla Primavera di Praga avviando un rapido processo di “normalizzazione”, segnato ancora una volta da limitazioni delle libertà personali, arresti, epurazioni.

La repressione non riuscì, però, a bloccare i germi del dissenso. All’inizio del 1977 alcuni intellettuali, tra cui il filosofo Jan Patocka e il drammaturgo Václav Havel, attraverso la sottoscrizione di una lettera aperta nota con il nome di Charta 77, si fecero promotori di un movimento che chiedeva con forza al governo il rispetto dei diritti umani.

javorova

Paradossalmente, tutti i tentavi messi in atto dal regime per reprimere questa iniziativa di protesta non fecero che accrescerne la notorietà, soprattutto all’estero.

La storia correva, intanto. Nel 1978 venne eletto un pontefice di origine polacca, Karol Józef Wojtyła. In URSS, con la designazione di Michail Gorbačëv a Segretario del PCUS nel 1985, si aprì la nuova fase della perestrojka. Il 9 novembre 1989 cadde il muro di Berlino. Di lì a pochi giorni nelle piazze di Praga e di Bratislava iniziarono a riversarsi migliaia e migliaia di manifestanti che, in forma pacifica, chiedevano la democrazia.

Era l’inizio della Rivoluzione di Velluto, che in poco più di un mese segnò il crollo del partito comunista. Il 29 dicembre 1989 Václav Havel venne nominato presidente della repubblica e l’anno successivo si ebbero le prime elezioni democratiche. Il 1° gennaio 1993 la Federazione Cecoslovacca si divise, sancendo la nascita di due stati indipendenti, la Repubblica Ceca con capitale Praga e la Slovacchia, con capitale Bratislava.

Le parole di padre Jančařík in apertura del primo capitolo del libro sono espressione significativa del clima di rispetto e di ascolto che fa da sfondo all’intervista, consentendo alla comunicazione di liberarsi da un pre-giudizio quasi inevitabile (…una donna non può essere un sacerdote cattolico!) per accogliere, sotto il piano delle apparenze, il pulsare della vita: «Fin dall’inizio ho avuto la consapevolezza di star intraprendendo una conversazione in qualità di sacerdote che interroga un altro sacerdote, la consapevolezza che avevamo un unico tema intorno al quale avremmo orbitato per tutta la durata del suo racconto: il sacerdozio come sacramento, il sacerdozio come dono, il sacerdozio come destino, fato, a volte anche maledizione. Un sacramento che segna tutta la vita di chi è stato consacrato, un simbolo che non si esprime col colletto né con la stola, ma col proprio essere» (p. 23).

È proprio affrancandosi dalle apparenze che padre Jančařík riesce a portare ad evidenza una delle qualità intrinseche non solo del sacramento in sé, ma anche della sacramentalità stessa dell’umana, quotidiana esistenza: il fatto, cioè, che il sacramento viene a toccare la nostra umanità non nel suo apparire di superficie, ma in quella dimensione dell’intimo e del profondo che sola custodisce il Mistero. Non c’è più giudeo né greco, schiavo o libero, uomo o donna…

Storia di Ludmila

La memoria di Ludmila tesse i fili del racconto. Nei suoi ricordi scorrono le immagini felici dell’infanzia in una famiglia in cui si respirava l’autenticità spirituale; poi la guerra, i rastrellamenti degli ebrei, l’irruzione della Gestapo; il colpo di stato del febbraio 1948, la repressione comunista; l’impossibilità di vivere la fede alla luce del sole, la via della segretezza e del silenzio per sfuggire alle persecuzioni. E poi la figura del vescovo Felix Davídek,[5] conosciuto da Ludmila sin da bambina a motivo dell’amicizia e della stima reciproca che univa le loro famiglie.

Davídek era stato ordinato nel 1946 e subito dopo l’ordinazione aveva messo mano al progetto di una scuola di formazione per sacerdoti; ma alle difficoltà del dopoguerra si aggiunsero ben presto le strettoie dovute alla dittatura comunista.

Arrestato nel 1950 mentre, insieme ad alcuni allievi, tentava di fuggire dalla Cecoslovacchia, fu condannato a ventiquattro anni di carcere con l’accusa di aver illegalmente fondato la scuola privata Atheneum e di aver agito ai danni dello stato.

Gli anni di prigionia furono anni di intensa spiritualità: in carcere Davídek riuscì ad organizzare nel segreto lezioni, momenti di preghiera comune e perfino la celebrazione della messa, con il vino ottenuto spremendo uvetta e il pane dei prigionieri. Rilasciato nel febbraio del 1964 in regime di “sorveglianza precauzionale”, fu assunto come sanificatore nell’ospedale pediatrico di Brno.

Nel frattempo, riprese i contatti con la famiglia Javorová; Ludmila in quegli anni era entrata in relazione con altre donne cattoliche con cui s’incontrava segretamente per pregare, e Davídek le chiese di sostenerlo nel suo tentativo di ricostituire un gruppo di giovani desiderosi di avviarsi al sacerdozio.

Iniziarono così, in piena clandestinità, degli incontri che presero forma di veri e propri seminari domestici e attorno a Davídek si organizzò un ramo della Chiesa sotterranea[6] chiamato Koinótés, dal greco koinonìa, comunità.

Dal momento che i vescovi erano o internati o all’estero, uno dei problemi più sentiti dalla Chiesa clandestina era quello trovare un modo per consacrare i giovani che si erano preparati all’ordinazione. Davídek non aveva la possibilità di uscire dalla Cecoslovacchia, essendo sottoposto a ferrei controlli da parte della StB, la polizia politica.

Ma Jan Blaha, membro dei Koinótés, in quanto chimico aveva la possibilità di viaggiare all’estero; durante uno dei suoi viaggi in Germania, il 28 ottobre 1967, ricevette l’ordinazione episcopale, allo scopo di consacrare a sua volta Davídek e delegargli tutte le facoltà episcopali ricevute. E difatti il giorno successivo, 29 ottobre, Davídek venne consacrato vescovo da Blaha.

Intanto in Davídek iniziava a maturare l’idea del sacerdozio femminile. Insieme a Ludmila aveva incontrato la suora borromea Vojtěcha Hasmandová,[7] che era stata imprigionata per otto anni, dal 1952 al 1960, e conosceva molto bene la condizione delle donne e delle suore rinchiuse nelle carceri: «Diceva che dovevamo renderci conto di quanto le donne credenti ne soffrissero. Perché la Chiesa non faceva niente per questo? Era ora che qualcuno facesse un bell’esame di coscienza! I sacerdoti incarcerati avevano il conforto spirituale più totale in confronto! Potevano celebrarsi le messe, tenere dibattiti e pregare insieme» (p. 128).

L’invito di madre Vojtěcha a fare qualcosa per le donne incarcerate, per lenire la loro sofferenza e la loro fame spirituale, spronò Davídek a lavorare con intensità sulla questione: se la posizione delle donne nella Chiesa era già stata trattata nel Concilio Vaticano II, «nuova era la problematica delle donne nelle carceri» e Davídek, in quanto vescovo, «si sentiva in dovere di provare ad aiutarle». (p. 129)

Davídek decise, quindi, di indire un sinodo per prendere delle decisioni in merito ad alcune urgenze pastorali e, in particolare, riguardo alla “questione femminile”. Il sinodo fu preceduto da un importante lavoro di preparazione attraverso seminari di carattere antropologico e teologico. Anche le donne, ricorda Ludmila, presero parte ai preparativi per il concilio: «Noi donne avevamo già prima del concilio ricevuto da Felix la proposta di preparare un nostro libro di preghiere, che riflettesse l’approccio femminile alla preghiera» (p. 125).

Ma le donne, dice Ludmila, faticarono a rispondere all’invito, perché «non eravamo per niente abituate ad essere prese in considerazione, in quanto donne» (p. 126).

donna prete

Il sinodo fu indetto da Davídek per il giorno 25 dicembre 1970, nella casa parrocchiale di Kobeřice, nei pressi di Brno, grazie all’ospitalità del parroco. Per non dare nell’occhio, le auto dovevano essere lasciate in posti diversi, e la casa parrocchiale doveva essere raggiunta a piedi da ciascuno in orari differenti. Ma, una volta che tutti ebbero raggiunto il luogo prefissato, «non vi fu alcun dialogo: loro non volevano neanche saperne. La loro forma mentis maschile li portava a priori a dire che la donna non era pronta, nella nostra epoca, per ricevere il sacerdozio» (p. 127). «Loro iniziarono ad attaccarlo: “Che ne sarà di noi quando lo saprà il Vaticano!”» (pag. 134).

Che dirà il Vaticano quando lo scoprirà! Fu questa la nota sui cui si consumò la spaccatura dei Koinótés. Ma in Davídek la decisione aveva ormai preso forma, anche contro i timori della stessa Ludmila: «Io devo farlo. (…) Non cercare di farmi cambiare idea! Non dimenticarti che i segni del tempo si fanno riconoscere, e farlo significa essere responsabili. Io non faccio cose avventate. Se acconsenti, vieni domani sera, preparati, io ti ordinerò per davvero» (pag. 139).

Nel silenzio della notte del 28 dicembre 1970 Ludmila veniva ordinata sacerdote: «Se ora ci ripenso, so che dentro sentivo una sicurezza che era, ed è, talmente profonda, che se la avessi calpestata, sarebbe andato perduto qualcosa del mio stesso essere» (pag. 140).

La vita sacerdotale di Ludmila Javorová negli anni successivi appare in tutto simile a quella di tanti sacerdoti della Chiesa del silenzio che, non avendo il permesso statale, svolgevano lavori da laici, limitavano la loro attività pastorale al seguire piccoli gruppi o singole persone nella preparazione al battesimo o al matrimonio, e celebravano la messa in casa, di nascosto, spesso in solitudine.

Felix Davídek morì nel 1988, poco prima della Rivoluzione di Velluto; negli anni 1989-90 iniziarono ad aprirsi trattative tra le conferenze episcopali ceca e slovacca e il Vaticano in merito alle linee da adottare con i vari rami della Chiesa del silenzio.

La questione urgente era quella della regolamentazione delle ordinazioni fatte in clandestinità. Nel gruppo dei Koinótés tra il 1964 e il 1989 erano state ordinate circa una settantina di persone – uomini celibi e sposati, alcune donne. Il problema dei sacerdoti e dei vescovi sposati venne nella maggior parte dei casi risolto e regolarizzato con il loro inserimento nelle strutture greco-cattoliche di rito orientale, dove il matrimonio dei sacerdoti è ammesso.

La maggior parte dei sacerdoti in incognito ricevette l’ordinazione sub condicione.[8] Ma a Ludmila e alle altre donne non venne offerta nessuna sub condicione.

Ludmila racconta i primi incontri con i rappresentanti della Chiesa ufficiale: il primo colloquio con il vescovo di Brno Vojtěch Cikrle e poi quello con il nunzio in Cecoslovacchia Giovanni Coppa – colloqui condotti con tatto, all’insegna del desiderio di comprensione.

Fu, invece, il focolarino padre Karel Pilík a portarle il divieto e le direttive: «Arrivò coi divieti e mi ordinò: “Firmi qui!”. Io gli dissi: “Voglio una copia”. C’era scritto che non avrei dovuto parlarne e io ci scrissi sopra: “Riconosco che al momento presente non posso celebrare pubblicamente”. Non mi hanno dato la copia di quel divieto, anche se l’avevo chiesta.“Non si può!”. Mi rifilò in mano il foglio: “Firmi qui!”. Ho barrato il campo della firma e ho aggiunto: “Non celebrerò pubblicamente, ma non prometto di non parlare del mio sacerdozio”. E poi ho annerito gli spazi intorno, in modo che nessuno ci potesse aggiungere niente» (pag. 172).

«L’argomento principale, che tralasciava del tutto i motivi di quell’ordinazione, era la comunicazione, dal tono perentorio e burocratico, che la dichiarava invalida. Io obiettavo che non si trattava di una spilla che uno può togliersi di dosso con nonchalance, che era una cosa inscritta nel mio essere» (pag. 199).

«Gli articoli canonici non sono lo Spirito Santo. Servono pro foro externo ma lo Spirito Santo non si lascia vincolare dai nostri articoli» (pag. 201).

«Io in quel protocollo ho firmato che il papa non mi riconosce il sacerdozio, ma non ho firmato di non essere sacerdote. Non intendo tacere il fatto che sono sacerdote» (pag. 208-9).

«Quando Padre Pilík mi intimò: “Da quest’istante è finita!”, io gli ho risposto: “E secondo lei è possibile? Come dovrei fare?”. Non è possibile! È una cosa che non si può estirpare! È fuori questione» (pag. 227).

Ora come allora?

Un filo di indignata tristezza percorre le parole di Ludmila mentre ricorda la violenza delle pressioni e delle intimidazioni subite. Come mettono in evidenza Marinella Perroni e Cristina Simonelli nella loro introduzione al libro di padre Jančařík, una duplice spirale di silenzio avvolge Ludmila Javorová.

L’espressione ecclesia silentii indica, sì, l’esperienza della Chiesa clandestina nei paesi del blocco sovietico durante gli anni della Guerra Fredda; ma c’è anche un altro silenzio dentro la Chiesa: il silenzio che, a partire dal paolino Mulieres in ecclesiis taceant, ha coperto nei secoli, e ancora tenta di coprire, la parola femminile.

E, così, duplice è il valore testimoniale della vicenda umana di questa anziana, gentile signora, che parla senza acredine, senza toni accusatori e senza rivendicazioni: da una parte, c’è l’esemplarità di una coraggiosa vita di fede in tempo di persecuzione e martirio; dall’altra, c’è la testimonianza delle azioni messe in atto dalla Chiesa per rimuovere l’esperienza ministeriale femminile dalla carne viva della sua storia ed espungerla dalla Tradizione.

Proprio grazie a questa testimonianza possiamo gettare uno sguardo sui meccanismi di sottrazione del protagonismo femminile che, nella Chiesa e non solo, hanno attraversato i secoli; e, mentre diventa naturale e legittimo chiedersi quante altre donne abbiano ricevuto lo stesso violento, perentorio diktat, e quante voci e presenze di donne siano state nel tempo marginalizzate, mistificate o siano del tutto andate perdute, viene a rafforzarsi ancora di più la consapevolezza che, per restituire alla storia la sua verità, non si può prescindere da un approccio ermeneutico capace di leggere nei testi le coimplicazioni del non detto, dell’implicito, del sottaciuto, del rimosso, dell’espunto.

Come scrive Elisabeth Schüssler Fiorenza: «Tenendo conto del contesto patriarcale in cui si è svolto il processo di formazione del canone, è necessario fare appello ad un’ermeneutica “del sospetto”. Le notizie relative alle donne, che si trovano nei testi canonici sopravvissuti, e gli scritti dell’ortodossia patristica, non sono obiettivi o neutrali».[9]

donna prete

A distanza di pochi anni dalla Caduta del Muro di Berlino e dalla Rivoluzione di Velluto, nel 1994, Giovanni Paolo II emanava la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis – “Sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini”, come risposta alla Chiesa anglicana che aveva permesso l’ordinazione delle donne e, implicitamente, per prendere le distanze in modo inequivocabile da quanto accaduto nell’ecclesia silentii d’oltrecortina.

Nel documento, Giovanni Paolo II fa riferimento ad un passaggio della propria enciclica Mulieris dignitatem: «Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano».

Qualche anno dopo, nel 2016, papa Francesco apporta una leggera modifica al Calendario Romano Generale elevando la celebrazione liturgica di Maria di Màgdala da “memoria” a “festa”, in modo da porla sullo stesso grado di festa dato alla celebrazione degli altri apostoli.

In Maria Maddalena si riconosce, infatti, secondo un’antica tradizione della Chiesa, l’apostola degli apostoli che annuncia ai Dodici quello che essi, a loro volta, annunceranno a tutto il mondo. Santa Maria Maddalena, Resurrectionis dominicae prima testis et evangelista, prima testimone oculare del Cristo Risorto e prima evangelista, apostolorum apostola.

Yentl, lo studente della «Yeshivà»

Negli anni successivi all’Ordinatio sacerdotalis, il tema dell’ordinazione delle donne ha continuato ad attraversare, in forme più o meno manifeste, la vita della Chiesa, suscitando non poche preoccupazioni nella gerarchia.

Nel 2018 il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha emanato il documento “A proposito di alcuni dubbi circa il carattere definitivo della dottrina di Ordinatio Sacerdotalis”, in cui ribadisce a chiare lettere che la Chiesa si è sempre riconosciuta vincolata alla decisione del Signore di comunicare il sacramento dell’ordinazione ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini. Nel documento il card. Ladaria ribadisce: «La Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla “sostanza del sacramento” dell’Ordine».

Ma dove sta la sub-stantia? Nella superficie che appare o nel profondo che sub-sta e non si vede?

Nel racconto di Isaac B. Singer intitolato Yentl, lo studente della «Yeshivà», protagonista è Yentl, una giovane che, insieme al padre rabbino, dedica lunghi anni allo studio della Torah, nonostante alle donne sia proibito, dimostrandosi un’allieva molto brillante.

Dopo la morte del padre, per poter continuare a studiare, la ragazza decide di cambiare città e travestirsi da uomo, facendosi chiamare Anshel, così da essere ammessa in una scuola rabbinica. Qui entra in amicizia con il giovane Avigdor, con il quale stabilisce un legame molto profondo, tanto da sentirsi in dovere di svelargli la verità.

Il momento della rivelazione è drammatico: Avigdor non vuole credere alle parole di Yentl che, per mettere l’amico di fronte all’evidenza, si vede costretta a spogliarsi del giubbetto, dello scialle frangiato e della biancheria intima.

donna prete

Avigdor, ammutolito, la guarda sconvolto. Le gambe non lo reggono, deve mettersi a sedere. È pieno di orrore, non sa più cosa fare: la Legge gli impedisce di trascorrere anche solo un momento in presenza di Yentl – che è una donna, non un uomo come lui pensava.

Eppure, non appena Yentl torna ad indossare gli abiti maschili, ecco che davanti a lui compare di nuovo l’aspetto familiare di Anshel, l’amico più caro, e la conversazione può riprendere con la stessa disinvoltura di prima:

«Come hai potuto indurti a trasgredire ogni giorno al comandamento: “La donna non indosserà ciò che si confà all’uomo”?».

«Non sono stata creata per spennare galline e cicalare con femmine».

«Preferisci perdere il tuo posto nell’al di là?»

«Forse…»

A poco a poco, i due tornarono alla loro conversazione talmudica. A tutta prima parve strano ad Avigdor discutere di Sacre Scritture con una donna, eppure, di lì a non molto, la Torah li aveva riuniti. Sebbene i loro corpi fossero diversi, le loro anime erano della stessa specie.


[1] Zdeněk Jančařík, Ludmila Javorová, sacerdote nella Chiesa del silenzio, Traduzione di Anežka Žáková, Effatà Editrice 2021.

[2] Miriam T. Winter, Dal profondo. La storia di Ludmila Javorová ordinata sacerdote della Chiesa Cattolica Romana, Edizioni Appunti di Viaggio 2004.

[3] Ludmila Javorová è nata il 31 gennaio 1932 a Brno, allora Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca.

[4] Il 1932 è l’anno in cui Mussolini perfeziona l’impianto propagandistico del fascismo organizzando varie forme di celebrazione del decennale della marcia su Roma; Hitler è impegnato nella corsa alla conquista del Parlamento: alle elezioni parlamentari di luglio il Partito nazista conquista 230 seggi, diventando il più grande partito in Parlamento; il gennaio successivo Hitler giurerà come cancelliere del Reichstag. Intanto l’Ucraina conosceva la tragedia dell’Holodomor: tra 1932 e 1933 la politica di collettivizzazione agraria staliniana causò la morte per fame di milioni di ucraini.

[5] Felix Maria Davídek (1921-1988).

[6] La Chiesa sotterranea, o clandestina, o Chiesa del silenzio, era una vera e propria struttura ecclesiastica, parallela alla Chiesa ufficiale sorvegliata dai comunisti.

[7] Madre Vojtěcha Hasmandová (1914-1988), superiora della Congregazione delle Suore della Misericordia di San Carlo Borromeo, è stata dichiarata venerabile da papa Francesco nel 2014; attualmente è in corso il processo di beatificazione.

[8] L’ordinazione sub condicione prevedeva che, in caso di dubbia validità della prima ordinazione, venisse fatta una seconda ordinazione, la quale avrebbe avuto effetto solo se l’ordinazione ricevuta clandestinamente fosse stata invalida; se la prima ordinazione fosse stata valida, la seconda ordinazione («sotto condizione») non avrebbe invece avuto effetto.

[9] Elisabeth Schüssler Fiorenza, In memoria di lei, Claudiana 1990, pag. 77.

Print Friendly, PDF & Email

4 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 16 settembre 2022
  2. Marco Ansalone 15 settembre 2022
  3. Turani Giuseppe 15 settembre 2022
  4. Tobia 15 settembre 2022

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto