Chiese e virus: bilancio intermedio

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Mentre in Italia e negli stati europei si avvia la seconda fase del Covid-19, una progressiva apertura dopo il confinamento, è possibile tracciare un primo e molto provvisorio bilancio delle pratiche e delle sfide affrontate dalle Chiese cristiane. «Nello spazio di qualche settimana, la vita delle Chiese cristiane in gran parte del mondo è stata terremotata. Esse non avevano in generale alcuna memoria vivente del comportamento da tenere nel caso di pandemia. Ma si sono rapidamente adattate. Del resto, non avevano scelta. Hanno seguito gli eventi, cercando di trovare in essi le occasioni per sviluppare approcci creativi» (Jean-Fraçois Mayer, “Les Ėglises chretiennes face au coronavirus”, Religioscope).

Una condizione tutt’altro che finita e che potrà conoscere scombussolamenti ulteriori nei prossimi mesi, con trasformazioni non ancora prevedibili.

Usando un approccio narrativo e sociologico piuttosto che pastorale e teologico, si possono indicare alcune condensazioni problematiche: i poteri e i simboli davanti alla pandemia, le reazioni ecclesiali prima e dopo le direttive coi governi, l’entrata del virtuale nelle prassi ecclesiali, l’eclisse o il risveglio della fede, tracce ecumeniche e interreligiose.

Fonti di autorità

Potere e simboli.  Le due fonti di autorità che hanno cercato di guidare i processi sociali in questi mesi sono state la politica (i governi) e i suggerimenti dei comitati scientifici. Gli amministratori hanno accentrato poteri di indirizzo ponendo limiti significativi ai parlamenti e ridisegnando le responsabilità, come è successo in Italia fra governo e regioni. Con esempi preoccupanti in ordine alla struttura democratica come in Ungheria e Polonia.

I consulenti scientifici hanno occupato gli spazi di istruzione delle decisioni e delle comunicazioni mediali rovesciando le spinte antiscientifiche attive da anni nei social, ma scontando diversità di opinioni e suggerimenti non sempre comprensibili al grande pubblico. Un indirizzo complessivo finalizzato alla salute pubblica che non ha espresso, neppure a livello mondiale, personalità politiche con autorità morali di riferimento. I responsabili religiosi e i loro simboli sono entrati nel cono d’ombra degli attori non protagonisti. Fino a denunce esplicite di ignavia.

«Poiché ho accusato la responsabilità di ciascuno di noi – ha scritto Giorgio Agamben su SettimanaNews – non posso non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali».

E, in un testo precedente, annotava: «Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla, tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia». Una conclusione condivisa anche da altri che vedono nella pandemia la definitiva eclisse della religione e del cristianesimo.

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Una conclusione drastica che mal si accorda con i risultati di una prima inchiesta sociologica di F. Garelli che annota la crescita di domanda religiosa senza il ricorso alla paura di un Dio vendicativo. Con una diffusa richiesta, condivisa dall’80%, «che questo sia un tempo propizio per tornare ad essere più umani e solidali, per vivere in modo più sano, equo e fraterno la nostra vicenda personale e collettiva».

Tradizionalisti all’attacco

Le reazioni alle direttive. Assemblee religiose sono state accusate di essere focolai del virus. È successo in Corea alla Chiesa neopentecostale “Tempio del tabernacolo della testimonianza”, ma anche in Francia (a Mulhouse nella chiesa libera “La porte ouverte”), in Italia per una celebrazione neocatecumenale in Campania, in un tempio buddista di Hong Kong, in un raduno di sikh in India, in due assemblee cristiane a Singapore, nel movimento di risveglio islamico a Kuala Lumpur (Malaysia) ecc.

Nelle Chiese cristiane non sono mancate resistenze alle disposizioni di confinamento e di cessazioni delle celebrazioni, soprattutto nei primi giorni. In particolare nei gruppi più tradizionalisti, ma anche fra i vescovi, come nel caso di mons. Pascal Roland in Francia. Le ragioni che guidano la resistenza sono sostanzialmente tre. Anzitutto la convinzione di dover testimoniare la fede in un contesto di tiepidi e compromessi,  poi la sfida a governi (soprattutto nel caso dell’ex Unione Sovietica) con scarsa credibilità democratica e, infine. la convinzione che la fede e le sue azioni liturgiche siano preservate dal virus o abbiano la forza di vincerlo.

Un insieme di orientamenti, assai diversamente motivati. Le Chiese storiche si sono rapidamente sintonizzate sulle disposizioni dei poteri pubblici. I casi di resistenza sono stati sostanzialmente minoritari. Sono riemersi riti e devozioni legati alle pestilenze del passato: dal culto a crocifissi e immagini mariane miracolose, alla dedicazione della nazione a Maria (come in Italia e in Portogallo), all’ostensione di reliquie, ai pellegrinaggi in solitaria dei vescovi, monaci o pope sui luoghi simboli della devozione popolare. Fino a gesti inconsueti come la benedizione con l’acqua benedetta  dall’elicottero o su automobili lungo le strade.

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Mentre il conflitto con lo stato è registrabile nei primi giorni della pandemia nella Slovacchia (rispetto alla Chiesa ortodossa) e nel Montenegro (davanti alle disposizioni governative sulle celebrazioni quaresimali e pasquali) si trova in alcune Chiese ortodosse una certa fatica a contenere le forze centrifughe.

Se il sinodo della Chiesa serba ha dovuto difendere la correttezza delle celebrazioni di fronte ad accuse di essere andati oltre i limiti previsti (presenze, modalità di distribuzione dell’eucaristia ecc.), a Mosca sono dovuti intervenire i massimi livelli. Il 29 marzo il patriarca Cirillo ammoniva: «Non ascoltate altre voci, comprese quelle che vengono da un clero irragionevole. Ascoltate ciò che il patriarca vi dice oggi (stare a casa, ndr.) Non lo dico da me stesso, ma sull’esempio di santa Maria egiziaca che ha salvato sia il corpo che l’anima» in una lunga esperienza desertica senza possibilità di celebrazioni eucaristiche.

Evangelicali: il caso serio

Molto vivace anche il confronto interno alla Chiesa ortodossa greca. Il metropolita di Mesoge, Nicola, ha ricordato che «la proibizione della celebrazione non è mai avvenuta» e che persino lo stato ateo sovietico «non ha mai interdetto le  celebrazioni», mentre «oggi questo succede da parte del nostro governo». Gli ha risposto il metropolita Hieroteo (Nafpaktos), richiamando i dissidenti a non «comportarsi come se non ci fosse un santo sinodo», come se l’organismo massimo ecclesiale «fosse un corpo di gente incapace».

In Georgia un gruppo di preti e teologi si è opposto al patriarca Ilia II per chiedere la chiusura totale delle celebrazioni davanti al pericolo del contagio. A Cipro si è registrata la disputa fra l’arcivescovo Grisostomo, che proponeva celebrazioni senza il popolo, e due vescovi, fa cui Neofilo (Morfu), che dicevano il contrario. Curioso il caso ucraino dove la resistenza al confinamento e alla chiusura delle chiese e delle celebrazioni ha diviso le due Chiese ortodosse. Quella filo-russa, più restia alle disposizioni governative, nella cui laura delle Grotte (Kiev) oltre 90 monaci si sono trovati infettati e altri 4 monasteri hanno dovuto chiudersi in quarantena e la Chiesa  ortodossa locale autecefala, più ossequiosa alle leggi. Sulla questione si è aperto un vivace dibattito in Francia fra i siti ortodossi e il giornale La Croix per il modo in cui la vicenda era stata raccontata.

Più espressamente e pericolosamente sfidanti il virus sono state alcune Chiese libere evangelicali. Il televangelista statunitense Kenneth Copeland ha fatto girare un video in cui lui fa un esorcismo direttamene al virus e diverse Chiese libere hanno sostenuto le resistenze di chi si opponeva al governatori (democratici) circa il confinamento e la chiusura delle chiese. Anche se, in uno studio sulla rivista Christianity Today, i “resistenti” rappresentano solo il 7% del totale.

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Molto più grave il caso brasiliano dove alcuni noti pastori come Silas Malafaia hanno supportato la superficialità del presidente Bolsonaro, le cui indiscriminate aperture delle riunioni religiose sono state stoppate dai tribunali civili. In evidente contrasto con le indicazioni della Conferenza episcopale cattolica. Una caso analogo si è registrato in Uganda con il pastore Augustin Yiga. Tanto da convincere il settimanale protestante francese Réforme a scrivere: «Pretendere – peggio, predicare – che la fede, il culto, la comunione immunizzino dal contagio è una menzogna gravissima. Infantile, forse sincera, ma mortale. E quindi una follia e una follia criminale».

Collaborare: come?

Diverso il caso del coinvolgimento dei responsabili ecclesiali nel determinare  le disposizioni di contenimento che riguardano il culto, soprattutto nel definire la «fase 2», dopo la quarantena. È successo con reciproca soddisfazione in Lettonia, in Romania, in Germania.

In questo quadro si colloca anche il caso di tensione più grave: quello che ha opposto la segreteria della Conferenza episcopale italiana al governo. In un duro comunicato del 26 aprile si denuncia: «I vescovi non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto». Tanto alta la posta (uno scontro sui livelli fondamentali della libertà democratica), tanto occasionale e transeunte il tempo: il presidente del consiglio ha subito indicato un incontro chiarificatore con la presidenza CEI per consentire modalità appropriate di celebrazione, oltre a quella dei funerali già permessa.

Infatti il 2 maggio il presidente CEI, card. G. Bassetti scrive: «Esprimo la soddisfazione mia, dei vescovi e, più in generale, della comunità ecclesiale, per essere arrivati a condividere le linee di un accordo – nelle prossime settimane, sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica – di riprendere la celebrazione delle messe con il popolo».

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Anche in Francia, seppur non al livello italiano, si è registrata una significativa tensione sulle disposizioni circa la “fase 2”. In Germania nel rapporto religioni-amministrazioni, si è inserita la Corte costituzionale. In due  sentenze (brevi) si è pronunciata a favore delle riunioni comunitarie in conformità alla indicazioni date (una dimostrazione in piazza cattolica e una riunione islamica per il Ramadan) in ragione della libertà di culto e di dimostrazione.

Finestra web

La fede nella infosfera e le celebrazioni virtuali. «Quando Dio blocca la porta della chiesa, apre una finestra per il navigatore web»: il titolo di un mensile evangelico americano è indice di un passaggio al telematico fortemente sollecitato dalla situazione del virus.

Un parroco attento, come don Antonio Torresin, scrive di «essere stato costretto da questo maledetto virus a confrontarmi con un mondo a me alieno». Consapevole da sempre della priorità dell’annuncio evangelico da persona a persona e del rischio della sovraesposizione narcisistica, «ho dovuto cedere… E così ho cominciato a muovere i primi passi. Ho creato dei gruppi whatsApp per i parrocchiani e per gli amici; ho fatto una serie di incontri con le piattaforme streaming; ho mandato degli audio con commenti alla Parola di Dio; ho accettato di fare dei brevi video sempre di commento alla Parola e di catechesi per gli adulti».

La messa del papa e dei vescovi in TV ha raggiunto cifre consistenti di pubblico. Il telefono non è mai stato utilizzato tanto da parroci e pastori. La comunicazione sociale ha investito le associazioni ecclesiali, specie quelle giovanili come gli scout. Gli evangelicali che hanno una maggiore abitudine allo “spettacolo” e un minore legame con l’edificio-chiesa sono stati facilitati nel passaggio, ma li ha penalizzati di più il venir meno della dinamica emozionale, inesorabilmente singola e non collettiva. Limiti e opportunità delle celebrazioni in streaming sono state ampiamente dibattute sul nostro sito.

Le questioni riguardano la dimensione propriamente sacramentale che non c’è nella forma teletrasmessa, il diverso rapporto tra celebrante e fedeli (semplici spettatori), il venir meno del collante comunitario. Per la tradizione cattolica e ortodossa non c’è nessuna equiparazione fra messa celebrata e messa tele-radiotrasmessa, ma per una parte delle tradizioni protestanti e delle Chiese evangelicali, sì. E questo per la diversa dottrina sacramentale.

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Le opportunità non si possono negare: la gente apprezza di poter seguire la messa, spesso con l’intera famiglia riunita (che normalmente non è possibile), con una maggiore facilità di allargare la cerchia dei “frequentanti”. Molti hanno riscoperto il senso della comunione “spirituale” e più generalmente della dimensione orante e meditativa. La rapidità del passaggio all’utilizzo del mezzo tecnico non ha ancora permesso né di superare le resistenze di alcuni, né di percepirne fino in fondo i condizionamenti, per tutti.

Senza popolo

Un esempio, fra i molti, di dibattito sulla trasmissione radio-televisiva o in streaming dell’eucaristia è registrabile fra il vescovo riformato ungherese, Istaváv B. Szabó, e il teologo ortodosso Jean Ziziulas. Il primo afferma: «Nell’attuale situazione di epidemia, la cosa più semplice è celebrare la santa cena nella forma di un culto a domicilio». Basta il pastore, un congiunto e una webcam. «Quelli che guardano la trasmissione formano ugualmente la comunità di culto. È la stessa famiglia». Ziziulas: «Non sono d’accordo con la trasmissione televisiva della divina liturgia… la considero come un’espressione di empietà. È empio rimanere seduti in poltrona e “guardare” la liturgia». «Non si può partecipare alla liturgia a distanza. Piuttosto che i fedeli preghino a casa loro». Anche se concede che una celebrazione con un piccolo gruppo è legittima e non esclude che possa essere trasmessa via telematica ad altri. Ma è necessario che ci sia una piccola comunità reale attorno al celebrante. Rimane vera l’attesa dei credenti di riconoscersi in un rito, anche se teletrasmesso, patendo un’assenza che intere Chiese hanno sperimentato nelle persecuzioni, e mettendo in campo un certo protagonismo laicale e familiare che potrebbe essere fecondo per il futuro.

Frequenza: rimbalzo o calo

Eclissi o ripresa? Un parroco di lunga esperienza mi diceva: «La gente è rimasta a casa e si  vede la messa in televisione, proposta a diverse ore del giorno. Non sono sicuro che tutte queste spinte a riaprire le chiese corrispondano davvero a quello che succederà. Ho l’impressione che le chiese rimarranno vuote anche dopo, o quantomeno senza le folle che taluni prevedono».

Allo stato dei fatti è difficile prevedere se l’assenza dalle celebrazioni produrrà un’assuefazione e quindi confermerà la distanza o, all’inverso, acutizzerà una richiesta e alimenterà la presenza nelle assemblee eucaristiche. «Fra l’incoraggiamento che l’allontanamento dalla vita liturgica comunitaria offre a una pratica privata più intensa e, all’opposto, una spinta a favore di un distanziamento dalla pratica, ci sono risposte contrapposte fra gli esperti, e niente può essere affermato con certezza, in mancanza di situazioni similari.

La sfida potrebbe essere l’accelerazione della perdita di pertinenza delle religioni nelle società già ampiamente secolarizzate. È necessario tenere conto del contesto in cui si trovano le istituzioni religiose cristiane nel mondo occidentale al momento in cui la crisi del virus è esplosa. D’altra parte, è vero che, soprattutto in paesi come l’Italia e la Spagna, decine di preti hanno perso la vita nell’epidemia, e questo può costituire un fattore di credibilità» (J.-F. Mayer).

Legata alla domanda circa la frequenza nel dopo-virus c’è quella della sostenibilità economica delle comunità cristiane. Senza la messa domenicale, senza la celebrazione dei funerali – forse il rito la cui assenza è stata più acutamente patita –, senza le prime comunioni e cresime (spesso celebrata nei mesi primaverili), senza le offerte quaresimali, senza i riti nuziali, senza le attività formative giovanili dell’estate, i conti delle comunità vanno rapidamente in rosso.

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E, mentre cresce vistosamente la richiesta di aiuti di chi perde il lavoro o chi veleggia in difficoltà, i parroci e i pastori fanno i conti con le casse vuote. In una condizione economica generale che si avvia ad una forte contrazione e verso difficoltà crescenti, non è questo uno dei temi secondari.

Le fedi e il futuro comune

Rapporti fra Chiese e religioni. Durante la pandemia non si sono registrate tensioni fra Chiese, né fra religioni. Si è svuotata piazza San Pietro, ma anche i luoghi santi dell’islam (la Mecca e  la Kaaba) e i templi buddisti o indu. Sospensioni del culto si registrano ovunque: dal Pakistan alla Malaysia, dall’India a Israele.

Tuttavia, soprattutto là dove si opera da tempo con iniziative comuni, si è visto all’opera un atteggiamento ecumenico e interreligioso. È successo, ad esempio, in Belgio, Germania e Canada. Cristiani, musulmani ed ebrei belgi hanno sottoscritto il 6 aprile una dichiarazione comune per ammettere il senso di impotenza di tutti davanti al fenomeno della pandemia e la riemersione delle domande di fondo circa l’umano e il suo senso. L’invito è alla preghiera, al sostegno di chi è in prima linea (medici e infermieri), all’obbedienza alle indicazioni amministrative e al compito di fornire di significati spirituali e morali i comportamenti positivi e altruistici che emergono.

Cattolici, evangelici e ortodossi tedeschi ammettono che la gravità della situazione rende tollerabile e opportuna la rinuncia ai riti e alle celebrazioni, come anche l’adesione alle indicazioni delle amministrazioni pubbliche. «In una simile crisi esistenziale, in cui anche le istituzioni sociali manifestano tutti i loro limiti, non se ne esce se non tutti assieme. Non combattendo per se stessi, ma perché ogni occhio aperto all’altro, ogni parola amichevole e ogni mano amica hanno un grande valore e un profondo significato».

In Canada 80 responsabili di comunità cattoliche, cristiane, ebree, musulmane e buddiste hanno sottoscritto un messaggio comune (30 marzo) con il titolo «Speranza, gratitudine, solidarietà». La speranza vince i sentimenti di angoscia e paura, la gratitudine sostiene quanti si spendono per la salute di tutti e la solidarietà è la cifra che consente di ripartire nel prossimo futuro. Con un’attenzione specifica per i più poveri e gli emarginati.

La necessaria alleanza fra le religioni davanti al pericolo comune è sostenuta dall’ayatollah iraniano Arafi in una lettera a papa Francesco. L’imam, responsabile della più importante Accademia religiosa di Qom (50.000 studenti), sottolinea la responsabilità «di rafforzare le fondamenta della propria fede, proteggere la società, promuovere preghiere e suppliche davanti a Dio».

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Un sorprendente appello è arrivato dalle Nazioni Unite. Il segretario generale, Antonio Guterres, ha chiamato tutte le fedi al compito comune «per operare a sostenere la pace nel mondo e a concentrarsi sulla lotta contro il virus». «Possa l’ispirazione profonda di questi tempi sacri (Quaresima, Ramadan, Pasqua) diventare un tempo di contemplazione, di memoria e di rinnovamento». Invocando «le comunità di confessioni e tradizioni religiose diverse a unirsi per prendersi cura gli uni degli altri».

Forza morale del papato

Difficile sottovalutare il riferimento morale che il papato ha confermato in questa tempo di coronavirus. Le immagini del cammino solitario del papa nella piazza San Pietro vuota e piovosa (27 marzo)  «è una delle immagini più forti della pandemia» (J.-F. Mayer). Solo in Italia sono stati 17 milioni le persone che hanno seguito o rivisto quel momento. «Il pontefice è tornato centrale, e non prioritariamente in forma divisa, nella semiosfera per il suo essere pastore e guida universale del popolo santo di Dio» (D. Viganò; Settimananews: Scena e drammatica dell’amore).

La drammatica assenza di autorità morale nei leader politici attualmente in campo, compresi Cina e USA, ha fatto lievitare il ruolo di riferimento del papato per la coerenza del magistero, delle decisioni e dei segni profusi in queste settimane. Anche da parte di chi ha visto in quel solitario e faticoso cammino «il simbolo vivente di quell’eclissi della religione cui, tra le altre cose, sembra di assistere in questi giorni» (I. Testa).

«Ciò a cui siamo stati posti di fronte in queste settimane drammatiche non è dunque una diagnosi di morte inappellabile. È piuttosto un altro interessante episodio di quella storia incerta che si è dischiusa con le rivoluzioni moderne e il cui tratto più tipico è proprio il dinamismo. Meglio aspettare, perciò, prima di dare per defunte le religioni per mano del Covid-19. Molte di esse sono anziane, è vero. Hanno dalla loro parte, però, anticorpi efficaci. In particolare custodiscono una fiducia granitica che la morte, la sofferenza, in una parola il male, non possono avere mai l’ultima parola, nemmeno quando sembrano celebrare i loro trionfi più esaltanti» (Paolo Costa, Settimananews: Prigionieri di un’immagine).

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Un commento

  1. Suor Maria 5 maggio 2020

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