Che cosa resta del prete? / 3

di:
prete che ascolta
Ciò che non abbiamo ancora afferrato

Non sarebbe però del tutto completa la descrizione dello scenario in cui oggi siamo chiamati a vivere l’avventura della nostra esperienza sacerdotale se non tenessimo insieme conto delle tante opportunità che, proprio questo tempo che pur ci mette tanto alla prova, ci offre.

La prima di tali opportunità è sicuramente il coraggio che ci viene dal recente magistero petrino. Penso qui alla centralità del tema della nuova evangelizzazione e dell’attenzione ai giovani in san Giovanni Paolo II, penso ancora alla centralità della questione della fede in Benedetto XVI e penso, infine, all’appello di papa Francesco al tema della creatività pastorale, anche a rischio di qualche caduta e di quale accidente di percorso.

Mi piace così sottolineare che la parola creatività ritorni in Evangelii gaudium diverse volte (11, 28, 134, 145, 156, 278) ed è in fondo come l’invito ad immaginare percorsi nuovi e proposte innovative. Ebbene, è una cosa di cui tutti siamo convinti, una cosa che sentiamo a pelle: tanti nostri gesti di fede che proponiamo non funzionano più o almeno non funzionano più bene come noi ci attenderemmo. Basterebbe pensare ai percorsi di iniziazione cristiana o all’impegno per la pastorale giovanile. Ed è proprio per questo che papa Francesco ci invita a non temere di cambiare, dando vita pure ad un curioso neologismo: «Primerear – prendere l’iniziativa».

Sostieni SettimanaNews.itIl nostro è allora il tempo per la presa di una parola nuova, di una nuova immaginazione evangelizzatrice, di una nuova stagione della vita parrocchiale. Faccio eco a due espressioni assai concrete di papa Francesco: la prima, al numero 73 di Evangelii gaudium, dove, ricordando i grandi cambiamenti avvenuti nelle città, richiede di «immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane»; la seconda riguarda la bella difesa che egli fa della parrocchia, sempre in Evangelii gaudium (qui n. 28), ma con l’indicazione che essa necessita della docilità e della creatività missionaria del pastore e della comunità: la parrocchia è dotata di «grande plasticità» e «può assumere forme molto diverse». E chi dovrebbe prendere l’iniziativa in tutto questo se non appunto noi preti?

La seconda opportunità che questo tempo ci offre è quella di essere quasi gli ultimi custodi e profeti di quell’umanesimo della cura adulta delle relazioni private e pubbliche di cui si sta perdendo troppo velocemente traccia e memoria. La nostra condizione di soglia rispetto al gioco fin troppo vischioso delle strategie educative e rispetto alle contorsioni individualistiche e narcisistiche del discorso socio-politico ci permette di rilanciare la vera scommessa aperta della nostra società: ci servono gli adulti, adulti veri, capaci di tenere a bada le pulsioni del proprio io e di mettere al centro della propria esistenza la cura d’altri, sia in termini di emancipazione dei figli che in termini di sostenibilità del loro diritto di succedere semplicemente a noi nella catena delle generazioni umane.

La terza opportunità che ci dona il tempo che ci è dato vivere sta nel fatto che, per quanto ammaccati e in parte sfiduciati almeno come categoria, possiamo ancora far valere il diritto di Dio di essere Dio. Nulla di umano, per quanto teso all’infinito delle sue risorse, potrà mai surrogare Dio. Penso qui alla sessualità, al lavoro esasperato, all’accumulo di denaro, alle illusioni della bioingegneria, al potere esercitato sino alla propria morte. Ciò che è terrestre resta terrestre anche se ammantato di paramenti divini. E forse proprio a causa dei tanti scandali scatenati dai alcuni nostri confratelli, riscopriamo ancora meglio che in quanto preti, non abbiamo mai preteso di essere altro che semplici rinvii, link, mediatori, piccoli «pontefici», alla lettera costruttori di ponti: di essere semplici dita che indicano la luna e mai abbiamo pensato di essere la luna. Ebbene, il nostro compito è e resterà sempre quello di ricordare ancora la parola ultima di ogni autentica salvezza: è Dio che ci assolve dalla necessità e terribile illusione di salvare noi stessi, gli altri e il mondo.

La quarta opportunità di oggi per noi preti è forse quella di fare i conti con i nostri investimenti economici che forse non sono semplicemente economici. Ci serve ancora una chiesa come «istituzione totale» all’interno di un quartiere o di un piccolo centro di periferia; una chiesa che si occupi di tutto, dalla culla al cimitero? Ci servono ancora tante strutture? E se invece oggi ci venisse chiesto più semplicemente di insegnare agli uomini e alle donne l’antica arte del pregare e del relazionarsi all’altro con libertà e fiducia?

Per concludere

La domanda finale non può che essere la seguente: che cosa resta del prete oggi? Qual è il nucleo irrinunciabile della sua presenza e della sua missione in questo nostro mondo, che sempre di più sembra fare a meno del Dio del Vangelo e della Chiesa? A me pare che ciò che resta del prete sia la funzione di rappresentare un punto mancante in questo meccanismo quasi assoluto di singolarità autoreferenziali, più o meno infelicemente tenute insieme dal meccanismo di produzione e smistamento delle merci. In tale contesto, la sua missione mi pare essere proprio quella di ricordare la grande «utilità» che riveste il sentimento della mancanza all’interno della struttura dell’umano: quel vuoto intorno al quale orbita ogni esistenza umana, quella precarietà originaria di cui siamo tutti impastati.

L’uomo, infatti, non vive solo di ciò che possiede e tiene stretto tra le sue mani ma anche di ciò che gli manca, di ciò che non ha. Ecco dunque ciò che resta del prete oggi: egli è colui che, con il suo corpo, con le sue scelte ancora tanto impopolari, con il suo stile di vita, ricorda che ciò che oggi rischia di mancare di più – e che forse farebbe vivere tutti più da umani – è la mancanza.

Prima parte
Seconda parte


Armando MatteoDopo la premessa e la seconda parte, concludiamo la pubblicazione dell’articolo di Armando Matteo, «Come è possibile?», pubblicato su Presbyteri n. 4 del 2017. Don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro-Squillace, è docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università urbaniana. Dal 2005 al 2011 è stato assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI).

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