Apologia per l’Europa

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A poche settimane dalle elezioni europee (26 maggio), il vescovo di Piacenza, Gianni Ambrosio, sviluppa una riflessione sul ruolo della Chiesa nella costruzione dell’unità dell’Europa. La sua esperienza di vicepresidente (2012-2018) della Comece (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea) lo porta a riconoscere i limiti e le opposizioni, ma anche la straordinaria sfida dell’impresa. Alla ricerca di una rinnovata visione, di una narrazione condivisa e di un’“anima” spirituale e valoriale (cf. anche l’intervento del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi).

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Mons. Gianni Ambrosio

Nei diversi interventi di papa Francesco sull’Europa, spesso emerge la questione della memoria: «L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare a essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza» (Comece, (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo», 2017).

Novecento: memorie dell’indicibile

Credo che sia utile soffermarsi su questo deficit di memoria, prendendo spunto dal forte richiamo alla “memoria” che da tutti è stato fatto in occasione della Giornata della memoria del 27 gennaio 2019.

La memoria da ricuperare non si limita solo al male rappresentato da Auschwitz e dalla Shoah, ma si estende a tutto il secolo XX, il «secolo dei genocidi» o «dei totalitarismi», come gli storici lo hanno definito. Sono stati numerosi i tentativi deliberati e sistematici – perpetrati in Europa e in diverse parti del mondo nel corso del secolo – di sterminare un intero popolo, di cancellarne le tradizioni culturali e religiose e le tracce linguistiche.

L’Olocausto, che l’umanità definirà «impensabile e indicibile», si è perpetrato nel cuore della civilissima Europa. L’unicità della Shoah è avvenuta nel cuore dell’Europa, ove pure sono avvenuti altri massacri di origine ideologica o etnica.

Non solo in Europa, ma anche altrove, a livello globale, vi sono stati massacri. Precedente al genocidio ebraico, vi è stato quello del popolo armeno, che ha inizio nei primi mesi del 1915, per volontà del partito dei Giovani Turchi, ufficiali nazionalisti dell’Impero Ottomano.

Ma la lista dei vari massacri di origine totalitaria è lunga: si va dal Medo Oriente, ove da tempo la situazione continua ad essere drammatica, alle “purghe” o epurazioni sotto il regime di Stalin, al “grande salto in avanti” con i campi di lavoro forzato sotto il regime di Mao o al massacro del popolo cambogiano perpetrato dal leader marxista Pol Pot, morto pochi anni fa.

Sono solo cenni di una triste e lunga storia dell’umanità intera.

Atene, Roma e Gerusalemme

È doveroso per tutti fare memoria. Lo è in particolare per noi europei: bisogna sempre ricordare «l’avventura millenaria e insieme inconclusa» della nostra Europa, come scrisse lo storico F. Braudel a proposito del sogno di unità culturale e spirituale, messo a dura prova dalle drammatiche vicende storiche, culturali e politiche del secolo scorso.

L’avventura millenaria è l’antico sogno che ha dato origine al lungo e faticoso cammino in cui si sono incontrate, scontrate e intrecciate le profonde radici del nostro piccolo continente. La vitalità della Grecia con il suo persistente ethos della ricerca della verità, dell’essere e dell’arché (principio) e la forza del diritto della civiltà giuridica che Roma ha diffuso nel grande impero mediterraneo sono state accolte, trasformate e rese feconde dall’annuncio cristiano arrivato ad Atene e a Roma con gli apostoli Pietro e Paolo, provenienti da Gerusalemme.

Questi differenti apporti, a cui si sono aggiunti diversi altri nel corso dei secoli, si sono fusi in una realtà complessa, da cui è emersa la nostra comune cultura: quella delle cattedrali e delle università del Medioevo, quella della fiducia umanistica nel genio dell’uomo, della sua ricerca e della sua libertà, quella del «sapere aude!» (avere il coraggio di conoscere), l’esortazione latina rintracciabile in Orazio e che I. Kant riprese come motto e messaggio di quel processo storico-filosofico che va sotto il nome di Illuminismo.

«Le feconde polarità delle anime» dell’Europa e della sua cultura, come affermava R. Guardini o la pluralità delle radici europee, sospese fra eredità classica, radici giudaico-cristiane e tradizioni barbariche in cui valgono molto di più le connessioni e le persistenze che non le divergenze, come ha documentato Le Goff, hanno favorito un’unità di base da cui sono scaturiti inimitabili frutti nelle arti e nel pensiero, nei valori comuni di fratellanza e di solidarietà, nello spazio culturale e spirituale che la storia ci attesta.

Questa realtà è unitaria, ma si esprime nella varietà e pluralità degli idiomi, dei paesaggi, delle tradizioni, dei modi di sentire che la fanno somigliare, com’è stato felicemente detto, a un “arcipelago”, a una catena montuosa le cui cime emergono come isole, ciascuna con la sua specificità diversa dalle altre, ma collegata alla base con tutte le altre.

I padri fondatori dell’Unione

Quando l’unità tensionale è venuta meno, quando è stata negata la dimensione spirituale per esaltare il mito dell’ideologia e/o della biologicità e della etnicità («Blut und Boden», sangue e suolo, o razza e classe), l’Europa è sprofondata in dure lotte e lunghe guerre.

Tuttavia, nonostante le divisioni e le guerre, anche religiose, l’unità culturale e spirituale è rimasta sostanzialmente viva, o perlomeno la fiammella dell’antico sogno è rimasta accesa in tutte le epoche.

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Spesso i fatti sembravano smentire l’unità non solo con le guerre, ma anche con le forti contrapposizioni fra Nord e Sud e fra Ovest e Est, ma l’avventura è proseguita. Anzi, proprio dopo il disastro della seconda guerra mondiale, alcuni leader animati dalla passione per l’Europa, hanno ispirato la creazione della Comunità Europea, lavorando instancabilmente per il progetto europeo. Mossi dall’ideale di pace, di unità e di prosperità, i padri fondatori, insieme a tutti coloro che hanno accolto l’antico sogno, hanno consegnato all’Europa più di 70 anni di pace e di stabilità.

È necessario fare memoria, anche per riconoscere che è più grande e più nobile ciò che ci unisce che non ciò che ci divide.

Certo, non è il caso di cedere alle illusioni, poiché sappiamo che il sogno non si è realizzato se non in parte, ma questa parzialità è già un grande, straordinario risultato se si pensa alle tragedie della storia europea. Anche questo è bene non dimenticarlo: l’avventura è certamente inconclusa, non solo perché l’unificazione o l’integrazione è parziale, ma anche perché è precaria, esposta al mutare dei venti, oggi assai contrari, come sappiamo.

Ricordiamo anche che nel XIX secolo c’era l’idea, che ha abbracciato il pensiero da Kant a Marx, che lo sviluppo della scienza e della tecnica avrebbero reso la nostra società migliore e più felice: non è facile accettare la dura realtà dopo anni di illusione.

Il vento contrario

C’è da stupirsi che oggi il vento sia contrario? Forse non del tutto, se si considera che l’idea stessa di Europa ha sempre provocato una polarizzazione che ha attirato sostenitori e oppositori. Si è affermato che l’Europa «è sempre stata più un’idea che non un continente», si è sostenuto che «non esiste neppure un’idea di Europa».

Oggi si racconta che l’Europa «è un’unione di egoismi e non di scopi», una sorta di alleanza che non ha un interesse comune, ma solo un insieme di interessi nazionali che si controbilanciano, in cui «era ed è preponderante l’interesse tedesco e, al limite, franco-tedesco».

Le critiche possono continuare: sarebbe mancata una strategia veramente comunitaria, la cui assenza, nel corso degli anni, ha provocato il fallimento, rivelando sempre più l’interesse nazionale franco-tedesco, declinato su scala europea, oppure manifestando il peso della burocrazia “laico-tecnologica” di Bruxelles.

La crisi dell’Europa nascerebbe dunque da un grande equivoco: non sarebbe mai stata, realmente, una Unione, e tantomeno una Comunità, come inizialmente era stata chiamata dai padri fondatori, ma un insieme di Stati che si univano per gestire al meglio alcuni ambiti comuni, in cui ognuno mirava a far prevalere la propria agenda.

Una volta evaporato il tacito accordo per cui occorreva lavorare insieme, riconoscendo di fatto che Berlino e Parigi erano (e sono) le capitali finanziarie e politiche e Bruxelles è la capitale burocratica, l’Unione Europea si è ritrovata del tutto priva di indirizzo e di controllo.

Le critiche sono molto facili in questi tempi complessi. Sono spesso anche sbrigative e superficiali, tipiche “del senno di poi”. Ma, se non c’è da stupirsi che oggi il vento sia contrario, c’è tuttavia da preoccuparsi se, al di là delle osservazioni critiche anche pertinenti, si corre il rischio di indicare il dito e di dimenticare la luna.

La polarizzazione fa parte di quella complessa realtà che va sotto il nome di Europa, nel senso di una realtà che, per molti versi, si presenta con una sua identità, ma si tratta di un’identità in tensione, per cui l’unità va sempre cercata, come realtà verso cui tendere sempre. Lo «spirito (Geist) europeo» è presente e vivo più di quanto si creda, ma è pure sempre contrastato, a volte anche deriso e negato.

L’avventura dell’Europa è un cammino che ha le sue difficoltà, come sono impegnativi e faticosi i vari «cammini europei» che non segnano solo il territorio, ma anche l’orizzonte europeo.

Europa, nonostante

In questo cammino emerge sempre il conflitto tra due tendenze fondamentali che fanno riferimento all’unificazione e alla differenziazione, all’indubbio legame europeo e all’altrettanto indubbia contrapposizione interna di culture, tradizioni, nazioni. Non dimenticando che le critiche che sono rivolte all’Europa possono essere rivolte, con opportuni adattamenti, alle singole nazioni, ove non mancano le tensioni interne e ove è forte la distanza fra la “casta” e il “popolo”.

La cosiddetta «idea dell’Europa» costituisce una parte integrante sempre presente, una sorta di elemento costitutivo della stessa discussione sull’Europa. Una discussione che ha una lunga tradizione che attraversa i secoli e che coinvolge, soprattutto nella sua fase più recente, non solo intellettuali e politici: tutti concorrono al cosiddetto «dibattito europeo». Anzi, proprio in questi ultimi decenni il dibattito è diventato più vivo e più acceso, perché, se quel sogno si è in parte avverato dopo le due guerre mondiali, ora il sogno sembra quasi svanito.

Ma non bisogna dimenticare che l’integrazione europea ha una sua storia di settanta anni, se consideriamo come inizio del processo di unificazione economica e politica i Trattati europei firmati a Roma nel 1957.

L’idea di un’Europa unita riuscì a diventare progetto politico agli inizi degli anni ’50, grazie ad una serie di circostanze storiche favorevoli, dalla viva coscienza dell’esigenza della pace alla capacità ideale e politica dei coraggiosi padri fondatori.

Se l’idea di Europa unita è diventata parte integrante della coscienza collettiva, occorre riconoscere che, nemmeno nei primi anni del processo di unificazione, l’impresa è stata esente da domande, da dubbi, da contrasti.

Gli Stati dell’Europa occidentale, usciti distrutti dalla seconda guerra mondiale, decisero di avviare, fra tentennamenti e retromarce, un processo di integrazione che puntò innanzitutto sulla dimensione economica, per l’impossibilità di superare il non spento nazionalismo di alcuni, ostacolo che non consentì di puntare a una vera integrazione politica. Per questo l’incertezza politica ha segnato il cammino di integrazione e unificazione.

L’oscillare fra spinte a favore dell’integrazione e la difesa della propria autonomia nazionale ha caratterizzato la vita della Comunità Economica Europea, poi Comunità Europea e, infine, Unione Europea. La politica della sedia vuota è stata voluta da De Gaulle già dai primi anni di vita della CEE.

L’Atto Unico europeo, entrato in vigore nel 1987, diede un forte impulso alla creazione di un mercato unico. Con Maastricht, fondamento per la creazione dell’euro, sembrava compiersi un passo decisivo verso un’integrazione politica. Così non è stato, o almeno, lo è stato solo in parte.

L’ammissione di nuovi Stati membri è stata molto rapida, dettata sia da fini geopolitici, da un lato, sia da un allargamento del mercato, dall’altro, mentre i Paesi dell’Europa orientale hanno visto nell’UE lo strumento per sottrarsi all’influenza russa.

Visione ed economia

Suscita sempre molta sorpresa che lo sviluppo dell’idea di Europa e del pensiero sull’Europa abbia incontrato, salvo poche lodevoli eccezioni, scarsa attenzione da parte degli intellettuali.

Si può comprendere la forte diffidenza di alcuni partiti politici legati a Mosca, si può comprendere la tensione dovuta alla guerra fredda, ma lo scarso interesse degli intellettuali europei per le sorti dell’Europa ha pesato e pesa molto. Lo ricordavano anni addietro alcuni storici: soltanto poco prima della fine della seconda guerra mondiale o appena dopo, le tematiche europee, che erano «rimaste quasi inosservate» (F. Chabod, J. Goff), cominciarono ad essere oggetto di riflessione.

Ma, se parecchio cammino è stato fatto grazie soprattutto agli storici, la scarsa attenzione da parte di molti intellettuali è continuata nel tempo: il “racconto” europeo è stato ignorato e trascurato, salvo lodevoli eccezioni. È venuta a mancare nel “racconto” europeo la visione ideale e culturale e, alla fine, è venuto meno anche lo slancio politico.

europa

L’attuale scarsa legittimità delle istituzioni europee è anche il frutto di questa progressiva dimenticanza delle due dimensioni che hanno caratterizzato il progetto europeo nello spirito dei padri fondatori, quella ideale-culturale-morale e quella economica-tecnica-pragmatica.

Procedendo su un solo binario, quello economico-tecnologico, il treno europeo si è fermato. Il progetto comunitario è nato e si è storicamente affermato attraverso una forte dimensione spirituale e morale, accompagnata da strumenti economici e politici che hanno assicurato pace e prosperità. Era decisamente importante il riavvicinamento franco-tedesco, a cui hanno dato il proprio importante contributo gli altri Paesi fondatori, tra cui l’Italia di De Gasperi.

Il progetto era, nello stesso tempo, ideale e concreto, politico e militare, morale ed economico, e mirava a purificare il Vecchio Continente dai mali che hanno insanguinato la sua storia.

Poi, soprattutto con la fine del comunismo, l’orizzonte della costruzione comunitaria si è progressivamente sfumato, forse nell’illusione che si potesse realizzare l’Europa pensando solo al raggiungimento del benessere, senza quella valenza storica, politica e culturale a cui il progetto si ispirava.

Quando è aumentata la competizione internazionale e, soprattutto, quando arrivata la crisi economico-finanziaria, con la disoccupazione crescente e le difficoltà di far quadrare i bilanci, il disegno puramente economico non ha più retto, anche perché il complessivo quadro economico mondiale è diventato molto più complesso e difficile. Senza una coesione politica e uno slancio ideale, l’Unione Europea ha perso il suo fascino e la sua esemplarità, è diventata una componente di un ordine mondiale complesso e vorticoso, scosso dalla globalizzazione e dalle migrazioni.

Ora prevale la paura che rende ancora più debole la leadership dei singoli Stati e delle istituzioni europee, con un progressivo ripiegamento su logiche nazionali.

La malattia del populismo

Sembra che la questione del “populismo” sia una questione dell’Europa desiderosa di tornare alle piccole patrie. Ma è un’illusione: il populismo è ben più ampio e più complesso. In un mondo post-globale, viene considerato da diversi studiosi un riflesso negativo della globalizzazione.

Non si tratta di un fenomeno limitato ad alcuni Paesi: la realtà politica che è implicata in questo concetto assai vago e generico va diffondendosi e ampliandosi in tutto il mondo e all’interno di ogni nazione. Sembra presentarsi come l’esito delle contraddizioni di un mondo globalizzato per quanto riguarda l’economia e, ancor più, la finanza, ma, nello stesso tempo, di un mondo che è assai poco globale (oppure è post-globale per tanti aspetti). Basti pensare alla frammentazione in termini politici o geopolitici all’interno dei vari Paesi, come anche nei partiti e nei movimenti. Su questa frammentazione, il populismo (o il sovranismo o il localismo) trova facilmente ascolto, come possibilità (vera o presunta) di riappropriarsi di qualcosa che la globalizzazione ha (o avrebbe) tolto.

Una reazione comprensibile, secondo alcuni anche necessaria, perché la globalizzazione, così com’è avvenuta, ha ingannato: voleva unire tutti e tutto, ma ha (anche) diviso ed escluso. È vero che molti hanno saputo far fronte alla sfida e sono diventati attori economici a libello globale. Ma è anche vero che, chi non ha avuto la possibilità di salire sul treno, è rimasto appiedato. Chi non aveva i parametri necessari per poter partecipare al processo globale, è rimasto tagliato fuori.

È opportuno non dimenticare che la globalizzazione mette in discussione la democrazia. Il rischio è evidente: il processo di globalizzazione ha determinato un’asimmetria tra la politica e il mercato, con un notevole sbilanciamento a favore del secondo.

La politica, per essere legittimata, deve rispettare determinate regole (costituzione, elezioni, partiti…) per raggiungere i suoi obiettivi. Il mercato, al contrario, ha un solo vincolo, la ricerca del profitto.

La relazione che si è instaurata negli ultimi vent’anni è stata caratterizzata dal fatto che la politica ha grande difficoltà nel “regolamentare” l’economia e la finanza, fino a giocare un ruolo subalterno all’economia-finanza, che ha assunto una posizione di supremazia.

D’altra parte, quale politica (quale attore politico, quale nazione) non vorrebbe avere nel proprio territorio gli investitori grandi e medi? Spesso ad essi (soprattutto se grandi) vengono offerte diverse opportunità, perché sono ritenuti il motore della crescita economica, dello sviluppo, della riduzione della disoccupazione. Ma è scarsa la possibilità per gli attori politici di favorire una «globalizzazione dal volto umano», con una concorrenza reale tra le imprese, con una riduzione delle disuguaglianze, con la promozione dello sviluppo locale da parte dei cittadini che, però, devono sapere di dovere integrarsi con il resto del mondo.

ll continente e la globalizzazione

È curioso che si critichi l’Unione Europea, attore importante a livello globale, che deve però confrontarsi con attori assai più potenti, per non aver saputo controllare e governare il processo di globalizzazione. In realtà, solo l’Unione Europea ha cercato di imporre regole ai grandi del mercato mondiale, come Facebook, Google, Twitter… Di queste regole ha bisogno la globalizzazione per essere governata, insieme, ovviamente, al grande impegno morale per salvare la dignità dell’uomo, per arginare i mercati mondiali, per combattere le grandi disuguaglianze che sono all’origine dei vari populismi.

Precisamente di questo parla papa Francesco, invitando a vincere la «globalizzazione dell’indifferenza», una seria minaccia per la famiglia umana, e a favorire la globalizzazione della solidarietà e della fraternità al posto della discriminazione e dell’indifferenza. È la grande sfida della nostra società, dei singoli Paesi, dell’Europa e del mondo intero. Se non si consegue una distribuzione equa della ricchezza, non si risolveranno i mali della nostra società (cf. Evangelii gaudium 202). La complessa questione “globalizzazione/populismi” durerà a lungo, in Europa e non solo.

orban e salvini

Non si può ignorare il fatto che le spinte populiste sono anch’esse una minaccia per la democrazia, o, almeno, per una democrazia così come l’abbiamo pensata e vissuta nel secolo passato. Forse ciò che sta succedendo, più che leggerlo come degenerazione della democrazia, va visto come una fase storica in parte nuova, da accogliere con sano realismo.

La realtà – ci ricorda papa Francesco – è più importante dell’idea. La questione globalizzazione/populismi può portare a riflettere su una visione più aperta di democrazia, perché spesso prevale una visione limitata di democrazia, anche in contesto europeo. Quando crollò il muro di Berlino nel 1989, si pensò che la democrazia in quei Paesi volesse dire semplicemente libere elezioni.

Se poi pensiamo alla grande destabilizzazione nello scacchiere mediorientale avvenuta a partire dalle guerre in Iraq, ci si rende conto che non bastano le elezioni e che un certo tipo di democrazia non è facilmente esportabile.

Anche il difficile rapporto tra popolo ed élite, che si riscontra in Europa, è una questione che va al di là dell’Europa. Il rapporto tra popolo ed élite e, più in generale, tra cittadino e potere, è difficile ovunque. Riguarda un po’ tutti i Paesi, anche se in Italia e in Europa il contrasto può apparire più marcato per la delusione forte, quasi un animoso risentimento, rispetto alle politiche tradizionali degli Stati e quelle dell’Unione Europea. Queste politiche si sono rivelate troppo fragili o incerte, incapaci di protezione sociale dei ceti più deboli, come era avvenuto nel passato.

Ma non dimentichiamo che l’Europa vanta il miglior sistema di protezione sociale al mondo. Però gli effetti della crisi si fanno ancora sentire in molti Stati membri, così come persistono le disparità sociali all’interno dell’UE.

Non trascuriamo poi l’invecchiamento demografico del nostro continente, che mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi di welfare e i profondi cambiamenti del mondo del lavoro: sono fattori che costituiscono una grande sfida per l’Europa.

Comunità o nazioni “piccole”

Spesso l’opinione pubblica pensa che l’Europa non sia in grado di far fronte a queste sfide: lo scetticismo è fondato. La crisi economica, il crollo delle ideologie, la pressione migratoria, gli scandali di corruzione non hanno fatto altro che allontanare gli elettori dai partiti tradizionali. Sempre più spesso la popolazione preferisce dare la propria fiducia a partiti definibili come «partiti di protesta».

La protesta, che parte rivolgendosi alle élites politiche o economiche, si estende agli organismi sovranazionali, colpevoli di aver indebolito le sovranità nazionali a discapito della popolazione.

Sono molte le scelte sbagliate del passato e sono troppe le regole che non hanno funzionato: da un eccesso di regolazione del mercato interno ad un’insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie dai nuovi grandi imperi; dalla precocità dell’allargamento a Est al Trattato di Dublino sui migranti, con l’incapacità di far rispettare ai Paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo. Senza trascurare l’uso disinvolto, politico e discrezionale, della regola del 3% di deficit pubblico.

Detto questo, resta da chiedersi: ma i singoli Paesi europei sono in grado di affrontare da soli le grandi questioni che l’attualità ci presenta? Ogni questione importante – dal rapporto tra popolo ed élite alla crisi economica e alla difficoltà di crescere, dalle migrazioni all’ambiente… – necessita di una soluzione comune, trattandosi di problemi che hanno ripercussioni comuni in Europa e nel mondo e che non trovano soluzioni pronte e facili da nessuna parte.

Come ci ha ricordato papa Francesco, noi cristiani che viviamo in questo continente siamo chiamati a ricuperare la memoria per aiutare la nostra Europa a diventare una comunità che vince la paura e guarda con speranza al futuro. Già nel 2003 Giovanni Paolo II, in Ecclesia in Europa, affermava: «Il tempo che stiamo vivendo appare come una stagione di smarrimento. […] È smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone l’eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo».

Seguiamo l’esempio dei coraggiosi padri fondatori dell’Europa. Robert Schuman invitava a costruire l’Europa non come un isolotto di prosperità egoista ripiegato su di sé, ma come una comunità generosa di uomini e donne liberi, fraterni e responsabili anche per gli altri popoli. «Questo insieme – diceva – non potrà e non dovrà restare un’impresa economica e tecnica: le serve un’anima, l’Europa non vivrà e non si salverà se non quando avrà coscienza di se stessa e delle sue responsabilità, tornando ai principi cristiani di solidarietà e fraternità».

Gianni Ambrosio,
vescovo di Piacenza-Bobbio

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