Fondi per la ripresa. Che direzione per il Paese?

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Da settimane e settimane assistiamo al dibattito politico sull’uso dei Recovery Fund. Addirittura, ora si paventa che questo dibattito arrivi a motivare una crisi del governo Conte. Si sono succeduti incontri, tavoli, vertici.

Non solo Renzi, ma anche tante altre voci – nella maggioranza e fuori – hanno valutato non sufficiente il piano proposto dal governo. Piano necessario per spendere (in cinque anni) i circa 200 miliardi di euro che ci arriveranno dall’Unione Europea.

Si tratta di voci interessate o di fondate preoccupazioni? Le critiche al governo sono solo strumentali e mirano in realtà ad altri obiettivi (cioè ad altri equilibri di potere)? Oppure sono motivate nel merito e trovano riscontro nei limiti del piano proposto da Conte? Stiamo per spendere bene questa occasione irripetibile o – come teme qualcuno – stiamo per disperderla in troppi rivoli, senza una visione coerente?

Ci pare che un’analisi nel merito dei documenti sia l’unica strada per tentare una risposta a questi dubbi.

A che punto è il “Recovery plan” italiano

Dobbiamo premettere che ad oggi un testo definitivo del Recovery plan italiano, non c’è.

A metà settembre il governo aveva già presentato al Parlamento le Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR, dunque, è il suo acronimo tecnico).

Lo scorso 7 dicembre il testo è stato portato in Consiglio dei Ministri. Da lì, prontamente, è finito sulle agenzie di stampa e sui giornali, ancora prima che fosse discusso.

Solo pochi giorni prima di Natale, il 21 dicembre, Conte ha poi inviato una ulteriore bozza alle forze di maggioranza, in vista del confronto politico finale, previsto in questo periodo.

Tra le principali modifiche, rispetto al 7 dicembre, pare vi sia la scomparsa della famosa e discussa Task Force, inizialmente ipotizzata per gestire quella massa enorme di fondi, in alternativa – o in parallelo – alle strutture amministrative ordinarie. Al posto del controverso paragrafo che istituiva la squadra di «responsabili di missione» con «poteri sostitutivi» rispetto ai Ministeri, comparirebbe ora una prudente dicitura «da completare», in vista del confronto di maggioranza previsto a cavallo di Capodanno, a fronte delle perplessità di Renzi, e non solo.

Mentre a Roma si discute, a Bruxelles il Piano nazionale di ripresa e resilienza poteva già essere depositato: la scadenza formale è entro aprile 2021, c’è tempo, ma si tenga conto che – una volta presentato – il nostro PNNR dovrà passare un vaglio complesso, tra Commissione ed Ecofin, che potrà richiedere fino a 12 settimane totali, cioè circa 3 mesi. Se davvero c’è urgenza (e ce n’è tanta!), se non si vuole cominciare a spendere i primi soldi solo nella seconda metà del 2021, il piano va presentato subito, a gennaio, come Conte ha più volte annunciato.

Siamo dunque alla stretta finale: in pochissimi giorni è difficile prevedere una radicale rivoluzione delle bozze sin qui presentate; ma, ovviamente, dal duro confronto in atto nella maggioranza può uscire di tutto.

La perplessità maggiore – invero – resta questa: perché ci si riduca sempre all’ultimo, perché da settembre ad oggi – visto che le bozze circolavano – non si sia trovato lo spazio per un ampio confronto di merito, nella maggioranza e ancor di più nel Paese, sulle priorità del PNRR. Una questione di metodo che però può incidere in modo incredibile sul merito finale.

Le politiche strutturali previste e i principali assi di spesa

Nelle ultime versioni emesse a dicembre, il PNRR è comunque ben definito, anche se molto complesso nella sua articolazione. Il valore complessivo è 195,6 miliardi (un po’ meno del previsto), di cui però 87,6 sono sostitutivi, cioè vanno a ricoprire progetti già finanziati: quindi sono solo 108 i miliardi realmente aggiuntivi.

Di questi, a loro volta, 68 miliardi sono effettivamente sussidi, mentre 40 sono prestiti (per quanto a tassi e tempi vantaggiosi). Si capisce bene, allora, la necessità di fare scelte: è un bel po’ di soldi, ma non un contenitore infinito e così ampio come sembrerebbe.

Le direttrici fondamentali del PNRR sono sei. Sei “Macrosettori” di intervento, dei quali il più ricco è quello dedicato alla “Rivoluzione verde” (74 mld), seguito da “Digitalizzazione” (comprende innovazione della PA, cultura e turismo, 48 mld totali), “Infrastrutture” (27 mld), “Istruzione e ricerca” (19 mld), “Coesione sociale” (17 mld) e, infine, “Salute” (9 mld). Ogni “Macrosettore” si articola in “Clusters” (17 in totale). Ogni “Cluster” si divide a sua volta in “Progetti”: in tutto 52. Da qui, l’accusa di eccessiva frammentazione.

In realtà, la consistenza dei “Cluster” e dei “Progetti” è molto differenziata: alcuni di questi – come quello dedicato all’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici – conta da solo 40 miliardi, e contiene la prosecuzione di tutta una serie di politiche di ecobonus ed efficientamento energetico fin qui dimostratesi efficaci, sia per adeguare il patrimonio abitativo sia per sostenere le imprese. Anche “Alta velocità di rete e comunicazione stradale 4.0”, con 27 miliardi, non appare “polverizzato”: ma è pur vero che in tale settore 27 miliardi si esauriscono presto.

I singoli “Progetti” hanno spesso – non sempre – una chiara definizione: come i 17 miliardi per l’efficientamento energetico degli edifici pubblici, i 4,8 per il progetto telemedicina, o i 2 per lo sviluppo della formazione professionale post-secondaria, e così via. Certo, altri progetti appaiono assai più generali, e moltissimo dipenderà da come saranno effettivamente indirizzati, organizzati, realizzati.

Sarà davvero una svolta per il Paese?

Dall’analisi del testo del PNRR – che abbiamo sommariamente descritto – emerge, nel complesso, la “visione” di un Paese più digitale, anche nella sua PA, e con forti investimenti su rivoluzione green, capitale umano e progetti strategici di innovazione. C’è una direzione abbastanza definita: ora, si tratta di vedere se si saprà davvero perseguirla, e se le risorse saranno ben spese e – soprattutto – sufficienti per un cambio di passo visibile e una reale innovazione del Paese. Questo il vero punto da giudicare.

Sembra difficile che questo giudizio si possa esprimere a partire dal solo documento di programmazione, per quanto ben fatto o migliorabile. In altri termini, il rapporto tra un “piano” e la sua realizzazione, tra la razionalità progettuale e la realtà che ne consegue, è sempre piuttosto aperto, in ogni progetto politico (e non solo).

Molto spazio rimane alle scelte adattive da fare in corso d’opera: e forse proprio questo preoccupa alcuni leader della maggioranza, l’Europa (che per bocca del Commissario Gentiloni ha espresso timori sulla nostra capacità di spesa e attuazione) e – in fondo – lo stesso governo.

Più che al PPNR in sé – che nelle sue grandi maglie centra le evidenti priorità strutturali del Paese – occorrerebbe dunque guardare ai suoi meccanismi di governance (e la discussione è in corso) e ancor di più alla sua trasformazione in progetti di dettaglio: che richiederanno altri atti, decreti, circolari, gare d’appalto, e così via. È questo il vero livello a cui potremo valutare l’impatto dei fondi Next Generation UE per la ripresa e l’innovazione del nostro Paese.

E a questo livello attuativo dovrebbero essere rivolte tutte le attenzioni, le discussioni, le puntigliose disamine che vediamo invece concentrarsi oggi sul Piano, nella sua forma generale. Nel dibattito a livello di dettaglio attuativo sarebbe ben più difficile accusare qualcuno di critiche strumentali al governo, perché ci sarebbe tanto spazio per il confronto nel merito.

Quello che nel nostro Paese manca sempre e che anche questa volta appare la vera lacuna, l’innesco profondo di una tensione che rischia di trasformare in crisi un’opportunità irripetibile. Che in nessun modo – invece – possiamo più permetterci di mancare.

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Un commento

  1. Nino Remigio 8 gennaio 2021

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