Francia: morire di solidarietà

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Sono tanti gli interrogativi che pone l’assassinio del monfortano Olivier Marie. Una morte certa e prematura con l’intento di seguire Gesù.

Dopo dieci giorni dalla morte violenta del monfortano p. Olivier Maire, la magistratura francese ha formalmente accusato il richiedente asilo ruandese, Emmanuel Abayisenga, di assassinio. Il delitto è avvenuto nella casa provinciale dei padri monfortani fra l’8 e il 9 agosto, a Saint-Laurent-sur-Sèvre (Vandea).

Al mattino, Abayisenga si è recato alla gendarmeria per denunciare il fatto, ammettendo in seguito di essere il colpevole. Il corpo dell’ucciso è stato trovato in uno spazio comune della residenza con segni di gravi colpi alla testa.

La notizia ha fatto il giro del paese e all’estero, richiamando la tragica fine di p. Jacques Hamel, sgozzato da due fondamentalisti islamici il 26 luglio 2017. Ma in questo caso non si tratta di un fondamentalista, ma di un cristiano ruandese, già noto per essere stato accusato dell’incendio della cattedrale di Nantes il 18 luglio del 2020 e accolto dal provinciale, p. Maire, e dalla comunità in affidamento giudiziario prima del processo.

Ciò ha contratto e confuso le reazioni pubbliche e sociali, disciplinate dalla volontà della Chiesa e dei monfortani, decisi a non dare spazio a reazioni ingiustificate o settarie.

La testimonianza di p. Olivier Maire

Lo ha testimoniato la solenne liturgia funebre celebrata il 13 agosto dal presidente della Conferenza episcopale, mons. Eric Moulins-Beaufort, nella chiesa del luogo, che custodisce le spoglie del fondatore, L.M. Grignion de Montfort.

Uno dei momenti più toccanti è stata la preghiera silenziosa finale dei genitori, fratelli e familiari di p. Maire stretti l’un l’altro attorno alla bara, mentre sul presbiterio i celebranti e i monfortani attestavano la sua “seconda” famiglia e nelle navata numerose autorità civili e il popolo cristiano custodivano l’austera grandezza del momento.

In nessun passaggio del rito funebre è risuonato un cenno di accusa o di risentimento.

Fratel Daniel Busnel ha ricordato le tappe della vita di p. Maire: nasce a Besançon nel 1961, professo nel 1986, prete nel 1990 (per le mani di mons. Gaillot). La sua formazione teologica è fra Parigi e Roma. Formatore e insegnante ad Haiti e in Uganda, dopo essere stato assistente generale a Roma diventa provinciale di Francia nel 2011, confermato nel 2017. Dotato di molte doti relazionali, artistiche e musicali, è indicato dalle testimonianze come uomo semplice, accessibile, profondamente ancorato alla spiritualità del fondatore.

Il suo (presunto) uccisore, Emmanuel Abayisenga, viene dal Ruanda. Di famiglia hutu, assiste a 13 anni al massacro dei tutsi nel 1994 (800.000 morti). Dopo la ripresa del potere dei tutsi, suo padre è ucciso e lo zio è in carcere. Entra nella polizia ed è testimone di altre disumane violenze. Viene torturato e abbandona il mestiere e il paese per la Francia (2012).

Un lungo articolo di La Croix (15 luglio) ricostruisce il suo sforzo di integrarsi nel paese e il sistematico rifiuto da parte delle autorità di considerarlo rifugiato politico. Molto generoso nelle attività sociali ed ecclesiali, entra tra i volontari che assicurano il servizio alla cattedrale, fino a sostituire il sagrestano quando è assente.

Una aggressione violenta, mentre sta chiudendo la chiesa, rimette in forse un equilibrio psichico già precario, con crescenti problemi di salute fisica, e lo convince di una presenza demoniaca nella cattedrale e il suo compito di scacciare il diavolo. Forse da qui nasce l’avvio dell’incendio in tre punti diversi della chiesa, una sera in cui presta servizio (18 luglio 2020).

Incarcerato, sottoposto a perizia psichiatrica, dopo aver vissuto in una residenza francescana prima dell’incendio, gli viene concesso un soggiorno in attesa di giudizio nella comunità dei monfortani. Già aperto all’accoglienza dei poveri, p. Maire, per la delicatezza e la segretezza del caso, lo ospita non in foresteria, ma nel convento. Poi la drammatica conclusione.

La carità fra virtù e martirio

Durante le esequie, il superiore generale, p. Luiz Stefani sottolinea l’onda straordinaria di attenzioni e di preghiere sollevata dalla tragica fine del provinciale e il suo coerente esercizio della carità, del perdono e della misericordia secondo il carisma della congregazione.

Nella breve omelia, il viceprovinciale, p. R. Chapette, rilegge il brano marciano della tempesta sedata (Mc 4,35-41) come la ripetuta esperienza di p. Oliver di “passare all’altra riva”, i suoi timori, e la profondità della sua fede.

L’episodio, che richiama da vicino la «santità della porta accanto», sottolineata nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate (2018), si apre ad alcune domande più generali.

La prima è relativa al contesto sociale e alle reazioni popolari davanti a episodi similari (non così rari nell’esperienza ecclesiale). La solidarietà pratica e l’inclusione degli immigrati richiedono una generosità e una fortezza di alto profilo. La multiculturalità non è priva di sconfitte e fatiche che la retorica mediale non percepisce né quando la contrasta, né quando la sostiene.

Perché esporsi tanto? Perché non eseguire le ingiunzioni di rimpatrio (nel caso, il ministro dell’interno ha ricordato che non era possibile per chi doveva affrontare un giudizio)? Perché non essere più prudenti?

Ma, senza i mille gesti possibili di solidarietà, la società si chiude e implode. Lo testimonia, in negativo, l’aggressione della destra di Marine Le Pen; «In Francia si può dunque essere clandestini, incendiare la cattedrale di Nantes, non venire espulsi e tornare a delinquere, uccidendo un prete».

La seconda è interna alla vita ecclesiale, dove non mancano le reazioni negative all’apertura accogliente verso i poveri. Da quelle comprensibili come gli amici dell’organo di Nantes che si chiedono come ricostruire il prestigioso strumento a quelle più discutibili che si scaricano sui vescovi e su papa Francesco, colpevoli di non difendere la tradizione cristiana e i suoi valori a vantaggio di popolazioni pericolose.

Ma la domanda più intrigante è relativa al tema del male e della santità. Nel caso di p. Hamel è stato riconosciuto nel suo grido agli aggressori («Satana vattene! Vattene Satana!» l’esercizio di un esorcismo, verso ciò che Paolo VI indicava come il male che «non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore».

È curioso che, nei deliri di Emmanuel Abayisenga, torni l’evocazione del maligno, nell’esecuzione di un male senza motivo e senza ragione.

L’esposizione generosa di p. Maire (e della sua comunità) può rientrare nel riconoscimento di santità previsto dal motu proprio Maiorem ac dilectionem di papa Francesco (11 luglio 2017)? In esso si prevede una quarta via per la proclamazione della santità: l’accettazione libera e volontaria di una morte certa e prematura con l’intento di seguire Gesù.

Se la fattispecie si applichi o meno al caso è da vedere. Certo siamo assai vicini al nucleo più intimo e ardente della fede.

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Un commento

  1. Efrem Assolari 25 agosto 2021

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