Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze

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teilhard de chardin

Se Walter Benjamin, immaginandolo nostro contemporaneo, avesse potuto leggere la Laudato si’, con particolare attenzione al paragrafo 83, non faticherebbe a proclamare dischiuso il tempo della leggibilità anche per le opere di P. Teilhard de Chardin[1]. Dopo l’innegabile ostracismo ecclesiastico, patito a motivo di posizioni filosofico-teologiche giudicate all’epoca non omologhe all’ortodossia magisteriale, sembra finalmente potersi inaugurare, per il paleontologo gesuita, una nuova stagione.

Preceduta, infatti, da ormai qualche decennio di disarmo tra l’arrocco dottrinalistico della dogmatica e le pregiudiziali positivistiche delle scienze, l’enciclica summenzionata − così come, più implicitamente ma con abbondanza, si può riscontrare in Evangelii gaudium e in Fratelli tutti − annovera, tra i tanti, anche il merito di riferirsi in modo esplicito e altamente autorevole al mirabile portato teilhardiano.

A dire il vero, una più discreta disseminazione delle sue tracce è già accaduto di rinvenirne lungo la direttrice dei pronunciamenti papali post-conciliari, senz’altro in alcune riflessioni di Paolo VI e di Benedetto XVI. Perfino nelle pieghe dei grandi documenti conciliari, Gaudium et spes in primis, non mancano rinvii a qualche inedito del gesuita francese, certamente per virtù dei suoi primi grandi estimatori, il domenicano M.-D. Chenu e il confratello H. de Lubac, che non solo gli fu fedele amico e interprete tra i più acuti del suo pensiero, ma anche strenuo difensore all’interno della stessa Compagnia.

Una «ri-trattazione» opportuna

Il Convegno nazionale «Muovere verso» − Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze, promosso dall’Istituto superiore di scienze religiose «A. Marvelli» di Rimini e San Marino-Montefeltro, grazie alla collaborazione della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (patrocinante l’evento assieme al Comune di Rimini) e col prezioso sostegno di alcune associazioni culturali, tra cui gli omonimi Centro Studi e Associazione – meritori nel diffonderne l’opera –, desidera accogliere il provocatorio invito lanciato da Francesco. Grazie alla sua neppur troppo velata «riabilitazione» teologica, è sembrato così quantomai opportuno avviare una vera e propria «ri-trattazione» dell’intero percorso intellettuale teilhardiano, pubblicato per la maggior parte postumo e ancora poco frequentato, soprattutto presso gli ambiti formativi ecclesiali/ecclesiastici.

Numerosi e di non poco interesse appaiono gli elementi provenienti dal suo genio di scienziato gesuita – non l’unico celebre esempio della storia, per la verità. Dove l’un aspetto (versante scientifico) sembra misteriosamente radicarsi, in unità con l’altro (versante credente) e «senza confusione né separazione» (Concilio di Calcedonia), nel «golfo della molteplicità potenziale» (I. Calvino) che è l’in-comune dell’immaginazione umana.

Vocazione nella/della vocazione[2], quella di Teilhard, che sa di sagace «ana-cronismo» o d’«inattualità» profetica, certamente per il tempo in cui si è svolta la sua biografia; e dai cui tratti, apparentemente antitetici, vengono sviluppandosi convergenze inter-/trans-disciplinari quantomai appellanti e coniugazioni spirituali, ad oggi ancora sorprendentemente inesplorate.

«Muovere verso» non si presta, dunque, solo ad essere titolo sufficientemente efficace per il convegno a lui dedicato, ma racconta icasticamente il convergere incessante di tre componenti, scientifica, teologica e mistica, tanto nella sua formazione, quanto nell’esercizio del suo comprendere la realtà. In un’unica trama, ordita dall’istanza mistica – definita «scienza delle scienze» dal noto e stimato paleontologo –, l’approccio rigorosamente scientifico viene a feconda alleanza con il versante più robustamente filosofico-teologico, per un rapporto genuinamente riuscito e tra le più attuali eredità teilhardiane, in una visione cosmo-teandrica genialmente sintetizzata nelle due grandi opere L’ambiente divino e Il fenomeno umano[3].

«Ortodosso che la pensa come gli eterodossi»

Autodefinitosi «ortodosso che la pensa come gli eterodossi» – si pensi, una per tutte, all’interpretazione assai scabrosa offerta in merito alla concezione teologica del cosiddetto «peccato delle origini» – Teilhard concepisce l’intero della sua acribia intellettuale come una «educazione del vedere», sentendo, sì, tutto il peso del suo essere «nel mezzo», ma vivendolo nondimeno come singolare connotazione vocazionale ad essere ponte fra gli uni e gli altri, muovendosi verso la verità tutta intera, mai tuttavia senza l’altro.

Grazie all’autorevolezza e allo spessore degli esperti chiamati ad intervenire, si cercherà ultimamente di offrire una complessiva, quanto sperabilmente adeguata ricognizione dell’impianto speculativo proprio a p. Teilhard de Chardin, senza trascurare significativi affondi di carattere epistemologico, antropologico (con un focus sulla «ecologia integrale») e teologico, soprattutto sul versante del dialogo interreligioso, di cui fu un autentico pioniere.


[1] L’apertura del paragrafo ha il sapore e le fattezze di una mirabile sintesi della visione teilhardiana della realtà: «Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale».

[2] Si potrebbe a buon diritto applicare a Teilhard de Chardin la riflessione agambeniana in merito alla tensione generativa e, in quanto tale, costitutiva del mistero (miracoloso) significato dalla vocazione messianica, nella prospettiva della teologia paolina. In forza di essa, infatti, «la nullificazione messianica operata dall’hōs mē [“come non” – cf. 1Cor 7,29-31] inerisce perfettamente alla klēsis [chiamata/vocazione], non sopravviene a essa in un secondo tempo […] né aggiunge a essa qualcosa. La vocazione messianica è, in questo senso, un movimento immanente – o, se si vuole, una zona di assoluta indiscernibilità tra immanenza e trascendenza, tra questo mondo e quello» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 30). Ad essere revocata/dis-attivata non è, dunque, affatto la contingenza del vivere, né, nella fattispecie, l’una o l’altra delle dimensioni portanti della vocazione teilhardiana, ma propriamente la loro vicendevole chiusura/impermeabilità/giustapposizione: «In virtù del suo essere “[ri-]chiamata” […] la vocazione messianica non ha, tuttavia, alcun contenuto specifico: essa non è che una ripresa delle stesse condizioni fattizie o giuridiche nelle quali o come quali si è chiamati […] descrive[ndo] questa immobile dialettica […] può aderire a qualunque condizione; ma, per la stessa ragione, essa la revoca e mette radicalmente in questione nell’atto stesso in cui vi aderisce […]. La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione […] come una urgenza che la lavora e la scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa» (Ibid., p. 28).

[3] Oltre ai due testi indicati, rispettivamente tradotti e pubblicati per i tipi dell’editore Queriniana nel 2003 e nel 1995, sono da annoverare almeno altre sue due opere fondamentali: Il cuore della materia; La mia fede: scritti teologici, sempre per Queriniana, ed entrambe uscite nel 1993.

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