Saluto a un padre nobile

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Nel giorno del suo 80° compleanno papa Francesco ha accolto le dimissioni del card. Karl Lehmann da vescovo di Mainz. Entrato in diocesi nel 1983, Lehmann è stato presidente della Conferenza episcopale tedesca dal 1987 al 2008. La città e la sua gente si sono stretti attorno a lui per salutarlo con affetto e gratitudine. Perché Lehmann è stato soprattutto vescovo del suo popolo, aperto al contatto con le persone, figura di riferimento in una stagione in cui tutti ci si sente un po’ disorientati – come ha ricordato il presidente del Parlamento europeo, M. Schulz, in occasione della festa di congedo seguita alla celebrazione eucaristica nel duomo di Mainz.

Convinto che una Chiesa universale pensata a latere delle Chiese particolari finisse solo con l’essere un’astrazione, un’entità auto-referenziale incapace di sentire il vissuto della fede, Lehmann è sempre partito dalla realtà e dal contesto locale per immaginare la Chiesa cattolica nella vita di un mondo globalizzato. Si è speso per la sua gente, ed è stato apprezzato e stimato per questo. Teologo non solo di formazione, ma uomo catturato dal fascino dell’impresa teologica, è stato capace di scendere nelle realtà di popolo della sua città e della diocesi. Abitandole con una naturalezza impensata. Questo intreccio fra cultura alta e attraversamento dei giorni della vita umana gli ha permesso di vedersi riconosciuta una fiducia diffusa: «Il cardinal Lehmann ci indica la via in una stagione di grande confusione e perdita dell’orientamento. Vive il comandamento dell’amore del prossimo in maniera tangibile, quando quasi ovunque è il freddo egoismo a prevalere. Costruisce ponti dove altri scavano fosse di separazione. In questo modo il cardinal Lehmann ha raccolto qualcosa che non si può comprare con tutti i soldi del mondo. Qualcosa che neanche delle ottime relazioni pubbliche possono garantire. La fiducia» (M. Schulz).

In nome della sua Chiesa locale, quella della diocesi di Mainz e quella tedesca, ha aperto il tavolo di due durissimi confronti con il Vaticano e la Curia romana. Nel 1993 con la Lettera sull’approccio pastorale verso le persone divorziate e riposate (insieme ai vescovi di Tübingen, W. Kasper, e di Freiburg, O. Saier), e tra il 1995 e il 1999 in merito al rilascio del certificato di avvenuta consulenza da parte dei consultori familiari della Caritas in casi di gravidanza conflittuale. L’intenzione pastorale della prima è stata sostanzialmente raccolta e riconosciuta da papa Francesco con Amoris lætitia. Mentre l’uscita dei consultori cattolici dal sistema statale nei casi di gravidanza conflittuale rimane una ferita aperta della capacità della Chiesa tedesca di farsi realmente presente laddove una vicenda umana si trova in una condizione di difficoltà estrema, se non di dramma. In fin dei conti, quei consultori, le persone che vi spendevano la propria passione e le proprie competenze come figure della fede, erano degli avamposti di quell’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” cara a Francesco.

Karl Lehmann ha combattuto le sue battaglie, anche perdendole, e ha mantenuto la sua fede – e fino a qui siamo nel solco paolino. Ma in tutto questo non ha mai perso la sua giovialità e sottile ironia. È rimasto, insomma, un uomo felice, senza rancori. La trama intima della sua personalità non si è smarrita nelle vicende avverse delle sue responsabilità ecclesiali. E questo dice esattamente la misura e la statura della sua persona. Rimane sicuramente un padre nobile non solo del cattolicesimo tedesco, ma della Germania tutta. Ed è proprio da tedesco che Lehmann fu un convinto europeista: «Per la mia generazione e la mia famiglia fu un grosso segno di speranza quando, subito dopo la II Guerra mondiale, politici importanti si preposero il compito di costruire una casa comune europea (…). Sicuramente ci sono stati anche passaggi sgradevoli nei toni: come la talvolta pedante burocrazia di Bruxelles, il predominio degli interessi economici, la divisione su una Costituzione europea e sul suo Preambolo, fino alle dialettiche polemiche dei nostri giorni che tutti conosciamo. Eppure l’Europa, vista sullo sfondo della nostra storia, è e rimane un reale segno di speranza che non avremmo neanche osato sognare. Noi siamo grati a lei, signor presidente Martin Schulz, e ai suoi colleghi perché, nonostante tanti impedimenti, rimanete fedeli all’idea di una nuova Europa con un tale impegno e una così profonda forza di persuasione» (K. Lehmann). Lehmann è stato europeista anche per quanto riguarda la Chiesa cattolica. Protagonista di un’inedita e irripetibile stagione in cui tre figure seppero costruire un quadro coerente e di alto livello dal bacino mediterraneo (C. M. Martini), passando per la Mitteleuropa (Lehmann stesso), fino alla regione atlantica del nostro Continente (B. Hume).

L’Europa politica non riesce più a produrre personalità alla pari di quelle che diedero inizio a ciò che, allora, poteva sembrare l’azzardo di un sogno; mentre l’Europa reale delle generazioni più giovani è così naturalmente immersa in uno spazio continentale senza confini che non sembra essere in grado di percepire lo sbriciolamento di quel sogno, né ha gli strumenti culturali per cercare di arginarlo. Ma anche la Chiesa europea ha perso per strada l’arte di edificare e plasmare persone di questo genere, dalla leadership episcopale al mondo della teologia. Il lento congedo della generazione nata tra gli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta dai ruoli ecclesiali rischia di creare un vuoto di qualità personale e spirituale nel cattolicesimo europeo che non siamo attrezzati ad affrontare. Forse dovremmo ricominciare da quei fondamentali dell’umano, come giovialità e cordialità in ogni situazione, intelligenza e fine dialettica, che Lehmann ha incarnato in maniera esemplare. Insieme alla sua accanita tenacia di tenere insieme i lembi del mantello proprio quando questi sembrano divaricarsi irrimediabilmente. Mentre lo salutiamo nel congedo dell’ultimo tratto di strada verso «quell’ultimo compimento della nostra vita che viene da Dio, che non ci sottrae però l’amore per le cose del mondo» (K. Lehmann), la nostra gratitudine deve avere la forma del dovere di raccogliere lo stile e l’idealità con cui ha vissuto la sua fede – come uomo, teologo, e vescovo della sua gente.

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