El Salvador: gli accusati della strage dei gesuiti

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Il 5 giugno scorso il Procuratore generale della Repubblica di El Salvador ha presentato l’Atto di accusa nei confronti di otto persone – militari di alto grado – che sarebbero coinvolte nella strage dei sei gesuiti dell’Università (UCA), della cuoca e della figlia di 16 anni. Accusato numero uno l’ex presidente Alfredo Cristiani, che avrebbe organizzato il piano messo in atto il 16 novembre 1989.

Il padre di Alfredo era un immigrato da Bagnaria, provincia di Pavia, e la madre Marghot Burkard discendeva da immigrati svizzeri.

Alfredo, nato il 22 novembre del 1947, fu educato nella “scuola americana” in San Salvador, proseguì gli studi di economia a Washington, nella celebre Università Georgetown. Ritornato in San Salvador, lavorò per conto della ricca famiglia, che operava soprattutto nel commercio del caffè e del cotone. Si sposò nel 1970 con Margarita Llach.

Rimase al di fuori della politica fino al 1980, quando il conflitto armato con il movimento FLMN (Fronte Farabundo Martí di liberazione nazionale) raggiunse un punto critico. Si coinvolse nell’Alleanza Nazionalista Repubblicana (ARENA), che era stata fondata dalla “scuola delle Americhe”, guidata dall’ufficiale Roberto D’Aubuisson che, nel 1985, diede le dimissioni a seguito del disastroso esito delle elezioni presidenziali.

Cristiani divenne leader del partito nel 1988. Nel 1989 fu eletto presidente di El Salvador con il 53,8% dei voti.

Anni fa, raccolsi la testimonianza del noto teologo Jon Sobrino, che il 16 novembre 1989 non era in casa. Un altro gesuita della comunità era andato a dormire in un’altra comunità. Di otto gesuiti ne erano presenti sei e furono assassinati.

Vennero di notte i soldati del presidente Cristiani, forzarono la porta d’ingresso della casa, li fecero uscire nel giardinetto e spararono loro alla testa. Le cervella schizzarono fuori. Impazziti, i soldati buttarono a terra macchine da scrivere, computer, registri, video e rubarono documenti e registri. Entrati nella cappella di mons. Romero, ucciso nel marzo 1980, presero di mira la grande foto e spararono al cuore.

Il potere di destra si accanì contro l’Università dei gesuiti perché erano persone che davano disturbo. I gesuiti erano chiamati comunisti e marxisti, anti-patrioti, persino atei. Il regime di Cristiani voleva ridurli al silenzio, espellere dal Paese, disperdere, saperli morti.

Si muovevano all’Università e ai gesuiti accuse concrete: appoggiavano il Fronte Farabundo Marti di liberazione nazionale, erano la loro facciata ideologica, responsabili della violenza e della guerra civile.

Il teologo Sobrino conosceva bene i suoi colleghi e amici. Disse all’indomani del crudele assassinio che erano cristiani tutti d’un pezzo, convinti di seguire Gesù di Nazaret nella lotta di liberazione dall’ingiustizia e dai soprusi. Conoscevano bene il marxismo per analizzare la situazione di oppressione nel cosiddetto terzo mondo, ma erano altresì consapevoli dei seri dubbi dell’analisi marxista.

Non fu mai il marxismo la loro fonte principale di ispirazione, come si sosteneva anche nella Curia romana. Il rettore, Ignacio Ellacuria, era una celebrità come filosofo e teologo, ricorda ancora il teologo Sobrino. Era il vangelo di Gesù che ispirava l’azione dei gesuiti. Lo ripetevano di continuo che non appoggiavano né un partito politico o un determinato governo né un determinato movimento popolare.

Erano fedeli alle parole del vescovo massacrato Romero: «I processi politici vanno giudicati a seconda se vanno o no a beneficio del popolo». Per questo appoggiavano quanto di positivo c’era nei movimenti popolari e anche nel FMLN, criticandone però le azioni terroristiche e gli assassini dei civili. Erano per il dialogo e il negoziato con i capi del movimento. Ne parlavano con il presidente Cristiani, con i membri del governo, con politici e diplomatici, compresi alcuni militari, restando fermi nella denuncia di abusi e violazioni dei diritti umani a opera dell’esercito e degli squadroni della morte, denunciando l’efferatezza dei crimini.

È un’idiozia – mi diceva Sobrino – affermare che fossero la facciata ideologica del FLMN. Erano invece la facciata delle maggioranze popolari, dei poveri e degli oppressi del Paese. Soffrivano quando la Chiesa non era evangelica; quando guardava più a sé stessa e all’istituzione che al dolore del popolo; quando vari ecclesiastici della gerarchia mostravano incomprensione e indifferenza davanti alla sofferenza del popolo e quando facevano tacere il vescovo Romero.

Il 22 marzo 1990, alle 7 del mattino, il vescovo di Sao Felix (Brasile), il mistico e poeta Pedro Casaldaliga, si recò al Centro pastorale “mons. Romero” per visitare il luogo del massacro. Si incontrò casualmente con Obdulio, marito di Elba, la cuoca e padre di Celina, entrambe crivellate di colpi. Obdulio era intento al suo lavoro. Stava ponendo piante di rose nel luogo del martirio. I due si abbracciarono. Romero voleva donare qualcosa al marito e padre. Aveva un rosario e glielo diede. Lui se lo mise al collo. Il giorno dopo, Casaldaliga, poeta già molto noto, scrisse questi versi dedicati all’UCA e al popolo ferito:

Già siete la verità in croce
e la scienza in profezia.
Ed è totale la compagnia,
compagni di Gesù.
Il giuramento compiuto, la UCA e il popolo ferito
dettano la stessa lezione
delle cattedre-fosse
e Obdulio cura le rose
della nostra liberazione.

Il 5 giugno scorso, 34 anni dopo il massacro, il Procuratore generale ha fatto i nomi presentando l’Atto di accusa nei confronti di Alfredo Cristiani e degli otto assassini.

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Un commento

  1. Bassani don Marco 7 giugno 2023

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