14 giugno 1837: muore Giacomo Leopardi

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poesia

Il 14 giugno 1837 muore a Torre del Greco Giacomo Leopardi. Quindici giorni dopo, il 29 giugno, avrebbe compiuto trentanove anni: era nato, infatti, a Recanati, allora Stato della Chiesa, il 29 giugno 1798.

In questo 2021, né il 1798 né il 1837 depongono a favore di un qualche anniversario leopardiano memorabile e a cifra tonda: non è ancora il bicentenario della morte e il bicentenario della nascita è stato più di vent’anni fa. Però tutti forse ricordiamo che soltanto due anni fa, nel 2019, la Rai realizzò un bellissimo cortometraggio dedicato ai 200 anni dell’Infinito.

Una voce dopo l’altra, ventidue voci si davano il cambio in una sorta di staffetta ideale per recitare con intensità e sentimento la lirica leopardiana più conosciuta e amata: Sempre caro mi fu quest’ermo colle

Frugando tra le pagine leopardiane

A frugare fra le carte leopardiane, i suoi Canti e il suo Zibaldone, occasioni per celebrare ricorrenze a cifra tonda non mancherebbero, di sicuro. Ma per ricordare Leopardi non c’è bisogno di ricorrenze speciali; basta aprire una pagina qualsiasi:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.

Nell’età in cui la maggior parte dei poeti si arrabatta con le proprie rime giovanili, in attesa dei tempi migliori della maturità, Leopardi poco più che ventenne è già un poeta maturo e un pensatore lucido e appassionato. Aprire una poesia con l’aggettivo “dolce” senza correre il rischio di virare verso lo sdolcinato è cosa di pochi, e lui è fra questi. La sua è un’anima che sa vedere e sa ascoltare – dono raro anche questo, dono di pochi.

Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia.

C’è in lui la sapienza antica di Qohelet, quella che sa vedere e contemplare la bellezza della vita cogliendo la perfezione struggente del momento che passa. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire. L’occhio non si sazia di guardare, l’orecchio non è mai sazio di udire, eppure sotto il sole non c’è niente di nuovo:

Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; e alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco
già similmente mi stringeva il core
.

Il canto che si alza nella notte silenziosa ritorna, uguale, a farsi simbolo della transitorietà e dell’effimero della vita. Habel habalim. Tutto è vuoto, è niente. È cenere, fumo, vapore. È voce che “lontanando” svanisce nella notte del mondo. Leopardi, come Qohelet, si lascia scalfire nel profondo da ciò che vede e da ciò che sente; e vede e sente che la vita, così tremendamente dolorosa nella sua bellezza, è un soffio, un soffio soltanto.

Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.

Sul pessimismo leopardiano sono state spese pagine e pagine di letture critiche e delle varianti del suo pessimismo (storico e cosmico) sono pieni i nostri manuali di storia letteraria.

Quando scrive La sera del dì di festa Leopardi ha circa ventidue anni. Sette anni di studio matto e disperatissimo – dettaglio biografico memorabile per generazioni di studenti, sbandierato come emblematico esempio di ciò che non si deve fare per non rovinarsi lo spirito e la salute – gli hanno piegato il corpo e rovinata la vista. Ma ridurre la sua visione del mondo a conseguenza inevitabile delle limitazioni fisiche – è lui stesso ad avvertircene – è sintomo e sinonimo di banalizzazione e superficialità. L’ubi sunt leopardiano lo dice chiaramente: l’inseguirsi delle interrogative rincorre il pensiero dell’infinita vanità del tutto, quella stessa vanitas su cui la sapienza di Qohelet aveva già secoli prima riversato parole di rara intensità.

Ricordo una donna della mia infanzia, una donna molto provata dalla vita. Non aveva avuto figli – dolore per lei mai sconfitto –, soffriva di polmoni e per lunghi anni ha combattuto contro un tumore; è rimasta vedova che non aveva ancora sessant’anni e, prima di morire, ha vissuto da sola per vent’anni.

«La vita è uno schifo», mi diceva. Io l’ascoltavo sconcertato. La sua casa era sempre piena di amiche che l’andavano a trovare e trascorrevano i pomeriggi con lei facendo lavori di cucito; la sera guardavano la televisione insieme o giocavano a carte.

Era una donna buona che sapeva ridere, e grazie al suo cuore generoso coltivava e manteneva con tante persone amicizie e buone relazioni. Ma era anche una donna che conosceva l’amarezza. Habel habalim.

Ripenso a quella frase “la vita è uno schifo”. Con i suoi due anni di scuola elementare e l’italiano imparato ascoltando la televisione, questa donna non aveva altre parole per riformulare l’antica sapienza di Qohelet. La stessa su cui anche Leopardi a lungo ha meditato e rimeditato, attraverso pagine di insuperata poesia.

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