Bonhoeffer: poesia in carcere

di:

gallas

Im übrigen schreibe und dichte ich, so weit die Kräfte reichen (D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung, 190). L’inglese, ma anche l’italiano, non ha un verbo capace di esprimere tutto lo spessore del fare poesia, come invece può il tedesco con il verbo «dichten» (da cui deriva il sostantivo «Gedicht», poesia appunto). Ma è proprio a questo spessore vischioso della poesia come pratica che è dedicato questo nostro convegno «In Gedichten verstrickt» (che potremmo cercare di tradurre con invischiati nelle poesie).

Tegel, per Bonhoeffer, è dunque il luogo dello scrivere e del fare poesia. Torneremo fra poco su quell’«und/and» che lega e/o separa l’unica pratica possibile in un’esistenza violentemente segregata, separata dagli affetti più cari, ma anche messa ai margini di quel tentativo di piegare il destino di un popolo a un esito che lo possa riconsegnare quantomeno alla decenza civile sulla scena del mondo.

Uccidere il tiranno, per quanto questa azione possa sembrare capace di giustificarsi da sé, è il vicolo cieco davanti al quale la fede cristiana è chiamata a decidersi – a decidere di andare contro il comandamento di Dio. Per questa azione non c’è giustificazione ultima, il suo dovere appartiene al regno delle cose penultime – quelle che non possono mai essere messe sotto la tutela benevola della volontà di Dio. Etica è anche una testimonianza di questo dramma della fede. Da cui non si esce mai a cuor leggero.

Perché il penultimo, tempo pratico dell’agire, è quell’«al di qua» che deve caratterizzare il cristianesimo. «Negli ultimi anni ho scoperto e compreso sempre di più il profondo al-di-qua del cristianesimo. Il cristiano non è un homo religiosus, ma un essere umano tout court, come Gesù –a differenza del Battista – è stato un essere umano. Non intendo l’al-di-qua piatto e banale degli illuministi, dei laboriosi, degli accomodanti o dei lascivi, ma quel profondo al-di-qua in cui è sempre presente il sapere della morte e della risurrezione» (WuE, 195).

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È proprio in carcere che Bonhoeffer affina la consapevolezza che «è nell’al-di-qua che prima si impara a credere» (WuE, 195-196). E il tempo della maturità di questa consapevolezza, che ha le sue conseguenze per l’impianto teologico, ma anche per il senso della fede e del cristianesimo nella storia dell’umana contemporaneità, è anche il tempo in cui la pratica poetica di Bonhoeffer si intensifica.

Non solo, si fa essenziale. Perché il carcere rappresenta il luogo «che costringe uno a esistere solo nei pensieri (…)» (WuE, 201). Ma i pensieri come unica forma possibile dell’esistere sono una minaccia, una contraddizione della libertà, una fuga davanti alla misura del suo compito. Così, infatti, scrive Bonhoeffer in Stazioni sul sentiero verso la libertà (WuE 208-209): «Agire e osare non il qualsivoglia, ma ciò che è giusto, non rimanere sospesi nel possibile, ma afferrare con coraggio il reale, non nella fuga dei pensieri, ma solo nell’azione sta la libertà».

Eppure, solo qualche settimana prima scriveva così all’amico Eberhard Bethge: «Non solo l’azione, ma anche il patire è un sentiero verso la libertà. Che la liberazione stia nel patire significa che a uno è consentito di porre interamente il suo-più-proprio, dato dalle sue mani, nelle mani di Dio» (WuE, 198).

È qui che il fare poesia è essenziale al linguaggio, perché ne è la forma capace di ospitare le contraddizioni della vita – meglio, di ospitare quella contraddizione che è il vivere umano e la fede nel Dio di Gesù rimanendo ben ancorati in quell’al-di-qua nel quale solo è possibile imparare a credere. Seguendone ulteriormente le tracce, si potrebbe dire che il fare poesia, per Bonhoeffer, è il modo di essere che sottrae i pensieri alla loro fuga dal reale e li disciplina a essere una pratica capace di passività – all’altezza di quel patire che fa la differenza del Dio cristiano e del cristianesimo di Dio.

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Ed è qui che si pone la questione della congiunzione/disgiunzione «und» di scrivo e faccio poesia. Alla fine di Resistenza e resa possiamo dire con buona approssimazione che scrivere significa la teologia in carcere di Bonhoeffer. Scrivere sono le lettere, che hanno i loro destinatari. Fare poesia sarebbe dunque altra cosa dalla teologia incarcerata di Bonhoeffer (funzione disgiuntiva della congiunzione)? A differenza delle lettere, le poesie sono indestinate; ma, al tempo stesso, vivono del segreto desiderio di trovare proprio nel destinatario delle lettere teologiche un loro lettore: «Hai ricevuto la poesia, ancora molto incompleta, ma nel suo contenuto per me molto commovente, sulla libertà?» (WuE, 211) – chiede Bonhoeffer, non senza apprensione e impaziente attesa, all’amico Bethge.

Non potrebbe essere che il fare poesia non sia una alternativa alla scrittura (teologica), ma la sua forma propria nel tempo della maturità del cristianesimo e della fede vissuti radicalmente nell’al-di-qua? Facendo dell’indestinazione un lascito in cerca di lettore? E svincolando la destinazione delle lettere teologiche dalla contingenza della loro missiva?

La poesia, ospitalità di quella contraddizione che è la vita umana, non rappresenta forse quella forma del linguaggio che gli consente di essere effettivamente «fra-intendimento» (P. Valesio)? E se la poesia non è momento disgiunto dallo scrivere teologico, essa non potrebbe rappresentare quel registro linguistico imprescindibile per dire la contraddizione in sé che è il Dio cristiano?

Perché il Dio cristiano è la forza disattivante la potenza di governo del principio di non contraddizione; ma è anche la disattivazione dell’addomesticamento religioso-ecclesiale del modo di essere di Dio in Gesù. Questo, da ultimo, mi sembra essere il senso della poesia Cristiani e pagani (WuE, 189). «Uomini e donne vanno a Dio nel momento di bisogno, nella loro miseria»; cristiani e pagani supplicano aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza e riscatto – tutti fanno così, cristiani e pagani. «Uomini e donne vanno a Dio nella sua miseria»; cristiani e pagani lo trovano povero, divorato dal peccato, dalla debolezza, dalla morte – ed essere cristiani significa «stare presso Dio nel suo patire», stare presso Dio nella sua miseria.

Indifeso, impotente, crocifisso – questa è l’incoscienza del Dio cristiano: essere questo suo modo di essere, senza scampo, senza salvezza alcuna per lui – perché solo così è possibile salvezza per tutti, cristiani e pagani allo stesso modo. Cristiani e pagani perdonati, entrambi e insieme, dal medesimo gesto di Dio – gesto indistinto, come destinazione della salvezza voluta da Dio.

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Non è stata la modernità, e nemmeno la secolarizzazione, a smantellare l’«ipotesi di lavoro Dio» (WuE, 191): è Dio stesso che si è dichiarato invalido a essere qualcosa di simile. La secolarizzazione, il mondo etsi deus non daretur, è il modo di essere di Dio in Gesù – è il suo essere reale negli ordinamenti del penultimo. Ma non vi sono altri ordinamenti in cui il tempo messianico, ossia l’essere di Dio, si attesta nel suo essere proprio così e non altrimenti.

«Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come coloro che vengono a capo della loro vita senza Dio. Il Dio che è con noi e il Dio che si congeda da noi (Marco 15,34)! Il Dio, che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio, è il Dio davanti al quale continuiamo a stare. Dio è debole e impotente nel mondo, ed è proprio così e solo così che egli è presso di noi e ci sostiene» (WuE, 192).

La modernità non è un gesto usurpatore delle potenze mondane sulla signoria di Dio, e la secolarizzazione non è l’imposizione di un regime ostile alla nominazione della presenza di Dio; quanto piuttosto esse rappresentano le condizioni teologiche poste da Dio stesso in Gesù per accedere al suo modo di essere che lo fa essere assente nel mondo come principio di potenza politica, culturale e morale.

Non vi può essere più forte e radicale rivendicazione cristiana e teologica della genealogia della modernità di questa. E il cristianesimo è il modo di essere dell’umano nel tempo penultimo che è all’altezza di questa rivendicazione – perché i cristiani sono coloro che stanno presso Dio nel suo patire, nella sua miseria, nel suo non poter essere potenza che si impone sul mondo.

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Riempire il mondo della presenza di Dio è l’eresia tout court – ed è, al tempo stesso, la tentazione più subdola per la fede, il cristianesimo, la Chiesa. Impossessarsi del congedo di Dio, per dichiararlo invalido, trasforma il cristianesimo in paganesimo – lasciando Dio completamente solo nella miseria del suo patire. Questa è la forza perversa che il congedo di Dio concede come possibilità alla fede cristiana e alla Chiesa.

L’«interpretazione non religiosa delle figure bibliche», a cui Bonhoeffer lavora nei suoi ultimi mesi di vita, non è la resa del pensiero teologico allo spirito della modernità, ma una pratica di resistenza alla perversione della forza dischiusa dalla contraddizione dell’essere che è il Dio cristiano.

E la poesia è quel registro del linguaggio che può tenere insieme tutti i lembi del mantello: l’essere nella contraddizione di Dio, la perversione religiosa di un cristianesimo che vuole occupare il mondo come se Dio fosse, la resistenza della fede appresa nella profondità dell’al-di-qua che ci fa essere presso la miseria del Dio che è (tale) solo nel patire.

  • Traduzione italiana della relazione “Bonhoeffer’s Letters and Poems from Prison” tenuta al convegno In Gedichten verstrickt organizzato dal Dipartimento di teologia cattolica dell’Europa-Università di Flensburg.
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