«Ho bisogno di staccare la spina». «Devo ricaricarmi». Espressioni d’uso quotidiano che tradiscono la fatica di pensarsi macchine con un corpo-hardware e una coscienza-software («ci aggiorniamo», «non siamo compatibili», «interfacciamoci»). È la neolingua tecnologica: abbiamo affidato alle macchine l’umanissimo sogno di non morire, perché l’umano, così com’è, sembra una versione superata del vivere. Infatti «ultima generazione» non indica più i nuovi nati, ma i nuovi telefoni o PC.
Eppure noi non stacchiamo la spina, riposiamo come i campi per dare frutto; non ci ricarichiamo, noi rinforziamo i legami con la vita come l’albero con la terra e la luce; non ci esauriamo come batterie, ma come sorgenti d’acqua. Barattando il discorso naturale con quello artificiale, abbiamo scelto: macchina ti dici, macchina diventi.
Ma funzionare è il nostro destino? Il frullatore frulla, la lavatrice lava, il calcolatore calcola. E l’umano come «umana»? Sente e sa di essere vivo perché sente e sa che morirà: siamo un limite aperto, libero, creativo; siamo tempo incarnato, respiro e desiderio, sangue e sogno, destino e destinazione. Eppure invidiamo alla macchina il contrario: non sentire né sapere di sé, non dover scegliere né morire. Funzionare ci rende più sicuri, ma non felici, perché «umanare» non è funzionare, ma diventare. Diventare chi?
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Ogni cultura immagina la felicità in una forma compiuta dell’umano, per questo tutte hanno la loro «formazione»: il metodo educativo per avere quella «forma». Una cultura che punta alla forma-macchina fa, per esempio, una università-macchina, dove si eseguono «programmi» su memorie da riempire di dati. La didattica (dal greco indicare: ciò che è vero, giusto, bello) diventa «didattica» (fornire dati), la formazione formattazione (a tutti gli stessi dati). Già nel 1958 la filosofa Hannah Arendt aveva colto la deriva:
«Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove, che desidera scambiare con qualcosa che lui stesso abbia fatto» (H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana).
Al «diventare ciò che siamo» dei Greci (sei portatore di un destino) e patrimonio di molte altre culture, preferiamo «l’essere programmati»: è più sicuro e alleggerisce il peso della libertà. Però prima o poi ci rompiamo come telefoni che, a forza di «ultimi aggiornamenti», non reggono più il «programma» divenuto troppo «pesante».
Scriveva il poeta greco Pindaro già nel VI sec. a.C. «Diventa ciò che sei, avendolo appreso» cioè, come ricordava il dio Apollo a chi visitava il suo tempio, su una facciata «Conosci te stesso» (sei un uomo), sull’altra «Nulla di troppo» (rimani uomo). Servono i dati, ma non bastano. Ci serve un’ipotesi diversa al «pensati macchina», abbiamo bisogno di abbracciare la condizione umana così «come ci è stata data», dice Arendt, in generale e in originale: la vita non è «data» (dati) ma «data» (donata), non si programma, si scopre.
Che cosa fareste se trovaste un anello capace di rendervi invisibili? È ciò che accadde al pastore Gige, che se ne servì per entrare nel palazzo regale, sedurre la regina e, con il suo aiuto, uccidere il re per poi sostituirlo. Platone si serve di questo racconto nel suo trattato la Repubblica per chiedersi se l’uomo abbia un’etica solo per paura delle sanzioni sociali. Se posso agire senza esser visto chi divento? Si parla di effetto Gige per spiegare l’aggressività o l’impostura a cui spinge l’anonimato, per esempio in rete: vedere senza essere visti dà potere o illude di averlo.
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Nelle scorse settimane ho fatto l’esperienza di una immersione nel metaverso, grazie a un oculus (occhio, visore) di ultima generazione: io ero il mio occhio. In pochi anni, quando si combineranno strumenti e computer quantistici capaci di calcolare a velocità mai viste, «entreremo» in un negozio con il nostro avatar che ci riprodurrà al millesimo di centimetro e di grammo, indosseremo quello che desideriamo, per poi riceverlo a casa, su misura, poco dopo. Il metaverso ci condurrà verso la simbiosi totale con un mondo consumabile in ogni istante e senza corpi reali: la vita non sarà più «data» e quindi «ricevuta», ma «dati» e quindi «controllata». Saremo invisibili e onnipotenti consumatori, anche se il vero potere lo avrà chi gestirà la nuova architettura del reale. Prendiamo i social: aumentano la capacità di interagire rapidamente con gli altri, ma rendono il corpo superfluo. Trasmettiamo immagini, vocali, messaggi di noi stessi, ma diventiamo sempre meno capaci di trasmettere noi stessi.
La tecnologia aumenta la nostra capacità di organizzazione e controllo del mondo, ci dà potere su cose e persone, ma proprio per questo non è mai neutra: si guadagna qualcosa e qualcosa va perduto. Il mito greco, che narra la vita come tensione ed equilibrio di polarità, rese infatti sposi Afrodite e Efesto, dea della generazione e dio della tecnica. Quando la tecnica cerca di dominarla del tutto, la vita de-genera, così come la vita senza tecnica è barbarie. Prendiamo per esempio una tecnologia che diamo per scontata: la scrittura.
Trasferendo la memoria in un oggetto al di fuori, l’uomo ha dimenticato ciò che, in una cultura orale, era essenziale avere sempre con sé, anzi in sé. A questo effetto negativo ne corrispose uno positivo: la mente libera dall’eccesso di memorizzazione aveva più potere creativo e di scoperta. Questo accade con ogni invenzione tecnologica. Il cambio automatico semplifica la guida ma rende meno attenti e abili nel guidare. La tecnica “aumenta” l’uomo, ma aumentare una capacità ha sempre un contro-effetto sulla vita organica, più o meno ambiguo: la lavatrice ha un lato d’ombra minimo rispetto alla polvere da sparo.
Il metaverso poi è l’architettura ideale dell’intelligenza artificiale: l’occhio che tutto vede senza esser visto realizzerà la mente-alveare, non conterà più il singolo con le sue scelte imprevedibili, ma l’analisi e la gestione dei comportamenti per suggerirci prodotti sempre più mirati. Dato che la libertà rende l’uomo fallibile e imprevedibile, l’intelligenza artificiale ci eviterà di usarla troppo, sostituendosi al nostro giudizio. Saremo più de-corporati (il corpo è ritenuto in alcuni ambienti della Silicon Valley un hardware inadeguato e obsoleto) e più de-liberati, cioè alleggeriti del peso delle scelte e indirizzati: desidera così, risolvi così, curati così, fai così… Saremo sollevati dalla paura di decidere, dal timore di sbagliare, dal peso delle nostre azioni, dall’incertezza delle conseguenze. Sempre più ebbri di vedere senza essere visti, saremo in realtà scrutati continuamente.
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Lo aveva intuito J.R.R. Tolkien: Sauron, creatura angelica corrotta dal potere, forgia un anello per controllare tutto e tutti, ma a poco a poco diventa lui stesso l’anello, non ha sembianze umane ma è un gigantesco occhio onnivedente e invisibile, quindi onnipotente. Lungi dal creare un fantasy per bambini, lo scrittore più letto del XX secolo, dopo gli orrori di due guerre mondiali vissute in prima persona, squarciò il velo su una cultura che chiedeva salvezza solo al potere della tecnica (potenza) e non a quello dell’amore (cura).
La serie Gli anelli del potere ispirata ai racconti precedenti il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, avrebbe dovuto narrare proprio questo: solo rinunciando a oggetti che dominano del tutto la vita, l’uomo esercita il vero potere, la parola e l’ascolto. Infatti solo l’alleanza tra popoli diversissimi, ma ognuno con qualcosa di unico da dare agli altri, come elfi, hobbit, nani e umani, consente di salvare cioè creare la Terra (di Mezzo).
Una certa tecnologia spinge nella direzione della eliminazione di ciò che è caduco e fallibile, il corpo e la libertà, cioè la nostra capacità di “patire”: sentire la carne del mondo e degli altri come nostra, ricevere senza consumare, prendersi cura. Non abbiamo “pazienza”, parola che viene dalla stessa radice di patire e di passione: senza pazienza perdiamo la passione per la vita.
Presto esulteremo per l’uso dei visori nella didattica, e sarà un ausilio straordinario per immergersi virtualmente nella Roma antica o nell’apparato circolatorio. Spero che nel frattempo troveremo anche il modo di aumentare la capacità di ricevere ogni cosa del mondo come parte di noi stessi, guardandoci negli occhi, facendo una carezza, dicendo una parola, lasciando essere le cose e le persone, con pazienza, cioè con passione. Compassione.