Lo scorso martedì 14 gennaio, l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo della diocesi di Bologna e la Comunità ebraica della città hanno proposto un incontro di approfondimento nell’ambito della giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Il versetto di riferimento era tratto dal libro del Levitico: «È un Giubileo. Esso sarà per voi santo» (25,12), e la riflessione si è soffermata sulla parte che riguarda il riposo della terra, il rapporto con il Creato e la necessità per l’uomo e la donna di prendersi cura della Casa comune. Vi hanno preso parte Marco del Monte, ministro di culto ebraico di Bologna e Anita Prati, docente di Lettere classiche e redattrice di Settimana News, che ha proposto il testo di seguito pubblicato.
In principio la relazione
Nei Racconti dei Ḥassidim, Martin Buber scrive che il Rabbi di Bertittschev era solito cantare questa canzone:
Dovunque io vada, tu!
dovunque io sosti, tu!
solo tu, ancor tu, sempre tu!
tu, tu, tu!
Se mi va bene, tu!
se sono in pena, tu!
solo tu, ancor tu, sempre tu!
tu, tu, tu!
Cielo, tu, terra, tu,
sopra, tu, sotto, tu,
dove mi giro, dovunque miro,
solo tu, ancor tu, sempre tu!
Tu, tu, tu!
A queste parole della canzone del Rabbi di Bertittschev vorrei affidare il compito di esprimere il mio sentimento di gratitudine per l’invito a prendere parte all’evento odierno, legato alla 36° Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei.
Con la sua tessitura testuale semplice, quasi elementare, tutta giocata sull’uso insistito dell’anafora del pronome personale di seconda persona singolare, la Canzone del Tu conferisce evidenza poetica e spessore quasi visionario a quella dimensione dialogica dell’esistenza che, secondo Buber, rappresenta l’imprescindibile e costitutivo fondamento dell’umano.
Non il logos ma il dia-logos dà forma all’umano, scrive Buber. Non si dà umanità se non nella prospettiva della reciprocità, una reciprocità che non comporta annullamento delle differenze, intercambiabilità o giustapposizione, ma che, al contrario, passando attraverso il riconoscimento delle peculiari differenze dell’alterità, si dischiude alla porosità delle possibili influenze e trasformazioni reciproche, in un fecondo e vivificante scambio di doni.
La Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei si staglia, quest’anno, sullo sfondo del Giubileo proclamato dalla Chiesa cattolica per l’anno 2025. È un’occasione preziosa per ripensare la parola e l’evento «Giubileo» all’interno di una prospettiva dialogica che non si limiti a riconoscere la radice storica del giubileo cristiano nel giubileo ebraico, fissando precedenze sul piano cronologico, ma che, piuttosto, metta in luce le qualità intrinseche dell’uno e dell’altro, lumeggiandone le sinfoniche consonanze.
Un tempo a statuto speciale
Fra le diverse piste di riflessione che si potrebbero aprire in relazione al tema del Giubileo, tenuto conto anche dei suggerimenti proposti nel Sussidio preparato dall’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso, mi ha particolarmente toccata quella che rilegge il Giubileo in rapporto con la terra, ossia con la dimensione spaziale del vivere.
La prima osservazione che possiamo fare, quasi banale nella sua evidenza, è che il termine «Giubileo», sia nel mondo cattolico che nel mondo ebraico, viene di norma pensato come un’espressione temporale – tanto è vero che, nel cattolicesimo, questa parola trova un preciso sinonimo nella locuzione «Anno Santo».
Da questa prima osservazione ne discende una seconda, altrettanto evidente, ossia che il tempo giubilare non è un tempo qualsiasi, ma un tempo che potremmo definire «a statuto speciale» – un tempo di remissione, di misericordia, di perdono.
Ma cosa fa sì che il tempo del Giubileo possa essere vissuto come un «tempo speciale»? Cosa conferisce al tempo giubilare questo carattere, questo statuto «speciale»? È da questa domanda che ha preso le mosse la mia riflessione ed è nel cercare risposta a questa domanda che mi è apparsa decisiva, sia nella prospettiva del giubileo ebraico che nella prospettiva del giubileo cattolico, la questione della terra, cioè dello spazio.
Il capitolo 25 di Levitico presenta il Giubileo come un lungo sabato di dodici mesi durante il quale la terra, messa a riposo, viene restituita a Dio, perché a Lui, all’Eterno, essa appartiene, perché Lui ne è l’unico padrone: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25, 23). Vivere il Giubileo significa assumere consapevolezza del fatto che il legame con la terra, cioè con lo spazio, non può e non deve essere vincolato al possesso. Siamo sulla terra, siamo della terra, eppure la terra non ci appartiene.
Nel mondo cristiano, a partire dal primo Anno Santo indetto nel 1300 da papa Bonifacio VIII, l’elemento imprescindibile del Giubileo è rappresentato dal pellegrinaggio – inizialmente alle Basiliche degli apostoli Pietro e Paolo, in seguito anche verso altri luoghi santi. Nel tempo del Giubileo il cristiano è chiamato a farsi peregrinus, ad essere, cioè, uno che passa attraverso la terra (per-ager), consapevole di non avere alcun diritto di possesso su di essa: per il pellegrino la terra, lo spazio, non è che un luogo di passaggio. Lo stesso rito della apertura della Porta Santa, introdotto con il Giubileo del 1500, viene a connotare fortemente sul piano simbolico il “passaggio” come elemento qualificante della postura giubilare.
Sia il Giubileo ebraico che il Giubileo cattolico ci dicono, dunque, che «fare giubileo» significa assumere un determinato atteggiamento nei confronti dello spazio in cui si vive. Giubileo è un tempo che, per essere compreso nella pienezza delle sue potenzialità, chiede che assumiamo una precisa postura nei confronti dello spazio.
Lo «statuto speciale» del tempo giubilare trova il suo fondamento primo nel fatto che non si può vivere il Giubileo se lo si amputa del legame con la dimensione spaziale dell’esistenza, se si prescinde dalla relazione che il tempo sempre stringe con lo spazio – e viceversa.
Pensare il Giubileo come uno snodo spazio-temporale che concilia in sé le due direttici dello spazio e del tempo, ci porta direttamente dentro il mistero dello spaziotempo.
Lo spaziotempo
C’è un aspetto del latino e del greco – le lingue che insegno – che mi ha sempre affascinato: in queste lingue molti avverbi di luogo custodiscono anche una valenza temporale; per fare un esempio, ubi in latino e ὅπου o ἔνθα in greco possono significare sia dove che quando. Latino e greco «sentono» con grande lucidità che l’azione che accade in quel punto è un’azione che accade a quel punto, perché il punto è un punto nello spazio, ma è anche un punto nel tempo.
Emblematico. Questi fatti minimi della lingua ci dicono di una concezione unitaria, non dicotomizzata, dello spaziotempo, che precede di secoli e secoli Einstein e la teoria della relatività, esprimendo una sensibilità «naturale» nei confronti dell’unità intrinseca delle coordinate spazio-temporali, che la modernità e il cosiddetto progresso hanno invece perduto e che sembrano poter recuperare solo attraverso la via della razionalità scientifica – vedi, appunto, la teoria della relatività.
Possiamo rileggere tutta la storia della modernità come storia di una progressiva scissione e dicotomizzazione della primigenia unità spaziotemporale.
Da una parte, lo sfruttamento e l’oggettivazione dello spazio – e qui si apre tutto il tema della «conquista», uno dei grandi paradigmi della modernità: conquista di spazi fisici, di terre, di suoli, di sottosuoli, di acque, di fiumi, mari, oceani, cieli; conquista di spazi economici, con il mercato che da agorà, luogo vivo e vitale di incontri e di scambi, diventa luogo virtuale in cui le logiche della domanda e dell’offerta, destituite da qualsiasi fondamento di moralità, obbediscono unicamente a criteri speculativi che non si fanno remore di stritolare esistenze e azzerare futuri; conquista di spazi mentali, con la piaga delle intelligenze dei nostri giovani, dei nostri bambini e delle nostre bambine, catturate dai social che lobotomizzano il pensiero. All’apice di questo processo, i nonluoghi di Augè: spazi conformi, intercambiabili, anonimi, in cui lo stare è legato all’essere clienti e consumatori, non all’essere persone.
Dall’altra parte, la perdita dell’aspetto qualitativo del tempo e la sua riduzione a mero tempo cronometrico, tempo da misurare e quantificare, tempo-denaro da contabilizzare, tempo oggettivato e prestazionale, tempo del negotium che nullifica l’otium, che azzera la dimensione libera e creativa dell’esistenza per ridurre la vita a prestazione di servizi, il cui tornaconto è valutabile solo e sempre in termini puramente economici e speculativi.
Apoteosi della dissociazione spazio-temporale, le nostre vite confinate per ore e ore in luoghi illuminati artificialmente, senza neanche una pianta o men che meno un animale a ricordarci la vita, preferibilmente senza contatti umani, davanti allo schermo di un PC, il cellulare in mano, ansiosi di guadagnare denari da rimettere al più presto nel circuito, facendo shopping nei centri commerciali o organizzando vacanze in villaggi turistici dove la natura non è che una bella cartolina da immortalare come impeccabile fondale per i nostri selfie.
Ma dicotomizzare lo spazio e il tempo ci fa ammalare, fa ammalare noi, le nostre relazioni, il nostro pianeta: se il tempo è solo tempo che conta e solo tempo da contare, se lo spazio è solo terreno di conquista da portare a reddito in tutti i modi possibili, se non riusciamo ad avvertire e a vivere il legame profondo di armonica risonanza che salda in unità le dimensioni dello spazio e del tempo, le nostre vite non possono che consumarsi perennemente nella rabbia e nell’insoddisfazione.
È proprio su questo sfondo che, in questo anno 2025, il Giubileo ci viene incontro con una proposta dirompente: riconciliare il tempo con lo spazio, restituire alle nostre prospettive temporali la dimensione della spazialità – e viceversa. Siamo fatti di tempo e di spazio, siamo creature dello spaziotempo: se ci ascoltiamo, lo sentiamo con chiarezza, nell’intimo di noi stessi, che per vivere bene abbiamo bisogno che ci sia armonia, dentro e fuori di noi, fra queste due coordinate esistenziali.
Il giardino, figura del Giubileo
Il Giubileo ci consente di pensare il tempo unito alla dimensione della spazialità, poiché non è possibile vivere il Giubileo, «fare» il Giubileo, se non declinando il tempo in una esplicita forma spaziale – l’astensione dallo sfruttamento della terra, il pellegrinaggio, la porta santa.
Straordinaria è, in questa prospettiva, la sapienza dei testi biblici. Come ricordava papa Francesco nella Laudato sii, dalla Bibbia ci viene l’invito «a “coltivare e custodire” il giardino del mondo». Potente è questa immagine del giardino come figura dello spazio che permette di recuperare in prospettiva solidale la dimensione della temporalità – figura, simbolica ma anche concreta, della riconciliazione possibile tra lo spazio e il tempo.
Come scrive Gilles Clément nella sua Breve storia del giardino, un giardino è una realtà che si forgia nel tempo e con il tempo. È «spazio del tempo», vivificato dalla molteplicità delle vite che in esso dimorano. È una realtà vivente in cui il giardiniere si dimentica del tempo che passa, per interessarsi al tempo che fa. Il tempo del giardino è un tempo che non si conta, un tempo dilatato, creativo, che sfugge alle logiche speculative; dal momento che la natura è sempre sorprendente e sempre ricca di inventiva, il giardiniere non può essere frettoloso o sbrigativo, non può identificarsi con l’operatore ecologico che all’ora stabilita timbra il cartellino e se ne va.
Il giardiniere-custode appartiene al giardino, ma il giardino non gli appartiene. Scrive ancora Clément: «Rimane in ascolto, e la sua presenza si dilata con il tempo».
Pensare il giardino come figura del Giubileo significa pensare la terra, il mondo come un giardino. Significa sentirsi abitanti di un luogo che non ci appartiene. E sentire che la terra non ci appartiene, perché appartiene a Dio, è sentire che anche il nostro tempo non ci appartiene, perché è tempo di Dio.
Il tempo a statuto speciale del Giubileo ci invita ad assumere atteggiamenti concreti di cura nei confronti del creato, il giardino del mondo. Il giardino è lo spaziotempo della speranza, perché è il luogo in cui il futuro prende dimora, chiedendo il gesto di cura. Ricordava ancora papa Francesco nella Laudato sii che
«custodire» vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future.
È il gesto di cura che apre alla speranza e fa il giardino.
Coltivare la vita come un giardino: Ildegarda di Bingen
Abbiamo bisogno di intrecciare relazioni – con le persone, con il creato, con il tempo, con noi stessi e la nostra interiorità – che si sottraggano alle logiche dell’interesse, per aprirsi alla gratuità del gesto di cura. Abbiamo bisogno di coltivare e curare la vita – la nostra vita, la vita di chi ci è affidato, la vita del mondo – come un giardino.
Nel giardino figura del Giubileo – dimensione dello spirito, prima ancora che luogo fisico – possiamo ritrovare l’immagine di quell’intreccio sinfonico di microcosmo e macrocosmo che sta al cuore della riflessione antropologica e teologica di Ildegarda di Bingen.
Ildegarda, magistra nella cura dei corpi e delle anime, in ogni creatura riconosce la presenza di Dio come Viriditas, forza vitale che agisce in tutte le realtà create, nel verdeggiare delle piante, nella fiamma del fuoco, nelle acque, nelle pietre, negli animali tutti, nel corpo dell’homo, nella sua anima, nel suo spirito, nella ragione, nei sensi, nella volontà.
Poiché Dio è presente in tutte le creature, tutto è chiamato alla relazione, alla comunione, alla reciproca armonia. Poiché Dio è presente in noi e fuori di noi, prendersi cura del mondo fuori di noi e del mondo dentro di noi è la via che ci permette di recuperare l’unità di quella visione sinfonica della vita, da cui sola può prendere forma l’armonia. Un’armonia che è armonia interiore – di noi con noi stessi, in noi stessi –, armonia con i fratelli e le sorelle, armonia con il creato. Armonia che chiede di essere realizzata nell’hic et nunc dello spaziotempo in cui viviamo.
Credo che sia proprio questo desiderio profondo di armonia ad aver ispirato e a tracciare il senso della Giornata del 17 gennaio, dedicata al dialogo tra cattolicesimo ed ebraismo: muoviamo da strade, esistenze, esperienze diverse, da fedi diverse, ma, oggi pomeriggio, siamo qui a condividere in dialogo accogliente parole e ascolto, siamo qui per dirci che è bello e dà gioia esperire la possibilità di realizzare armonia nelle nostre vite attraverso l’apertura alle reciproche alterità.
Ildegarda, magistra di armonia, compose testi e musiche per le preghiere che scandivano i ritmi della vita quotidiana del suo convento. Sono canti meravigliosi, che toccano e fanno vibrare le corde più intime dell’anima: la voce che si eleva nel canto sfiora l’Invisibile, si fa divinum ministerium, opera a servizio di Dio, e ci invita a sentire e vivere il tempo come tempo giubilare – tempo restituito a Dio, perché a Lui soltanto appartiene.
Vorrei concludere il mio intervento leggendo il testo di un componimento di Ildegarda, il responsorio O nobilissima Viriditas. La qualità spirituale di questo inno può dispiegarsi in pienezza solo attraverso il canto e l’espressione musicale; dalla lettura delle parole ci viene, comunque, la possibilità di intravedere tutta la profondità spirituale che sostanzia la preghiera: la Viriditas, verde di quella speranza che è promessa di futuro, rosseggia come l’alba di ogni nuovo giorno che si apre davanti a noi. Potenza del simbolo che, superando i nostri limiti umani, ci apre all’Infinito.
O nobilissima Viriditas, que radicas in sole et que in candida serenitate luces in rota quam nulla terrena excellentia comprehendit:Tu circumdata es amplexibus divinorum ministeriorum. Tu rubes ut aurora et ardes ut solis flamma. |
O nobilissima Viriditas, Tu sei circondata Tu rosseggi come l’aurora e ardi |
Mi pare di poter dire che questo periodo è straordinario anche nei termini che lo connotano: un invito alla gioia e alla speranza attraversa parole come dialogo, spaziotempo, giardino, pellegrino e preghiera .
Passa da loro la nostra umanità.
Grazie per questo inventario
ringrazio molto Anita Prati per questo suo ” Giubileo: lo spazio, il tempo, il giardino”. Ho sentito la professoressa a Bologna il 14 in occasione dell’incontro organizzato per la giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei, e ho apprezzato molto il suo intervento ( lo stesso dell’articolo) e anche il suo modo di esporlo al pubblico, il suo stile così elegante. Avrei voluto complimentarmi lì, ma non ne ho avuto il tempo, lo faccio ora; chiedo se è possibile avere la sua mail per scriverle.