Lo scontro nel Mediterraneo per il gas del Levante

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La guerra in Palestina e la sua possibile estensione al mondo arabo e al Medio Oriente non sarà priva di conseguenze per il settore degli idrocarburi. Anche se il conflitto scatenato da Hamas è di natura politico-religiosa, esso si inserisce, infatti, in un contesto segnato da forti tensioni per il controllo delle gigantesche riserve di metano del Mar di Levante.

Ai ritrovamenti di gas naturale nel quadrante orientale del Mediterraneo e ai suoi effetti geopolitici è dedicato uno dei capitoli de L’arma del gas. L’Europa nella morsa delle guerre per l’energia, il saggio scritto a quattro mani da me e da Andrea Greco, da poco pubblicato da Feltrinelli.

Caccia alle riserve

All’origine della contesa tra i paesi della regione – Grecia, Cipro, Turchia, Siria, Libano, Israele, Striscia di Gaza, Egitto, ma anche Libia – vi è la delimitazione dei confini delle rispettive zone economiche esclusive.

In base al diritto internazionale sul mare, la zona economica esclusiva è l’area che comincia al limitare delle acque territoriali di uno Stato rivierasco (a 12 miglia dalla costa) e che si estende in linea retta per altre 188 miglia nautiche.

Sulle materie prime energetiche che ricadono all’interno di questo esteso tratto di mare, lo Stato esercita la sua sovranità: ha cioè diritti esclusivi di esplorazione e sfruttamento, oltre che di conservazione e gestione delle risorse naturali.

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Con il gas rivenuto nella sua zona economica esclusiva, Israele, un tempo privo di fonti di energia, è divenuto in questi anni paese esportatore e lo sarà sempre più. Lo Stato ebraico oggi vende il suo gas all’Egitto, da cui in precedenza ne importava grandi quantità.

La maggior parte del metano estratto dal giacimento di Tamar, chiuso per motivi di sicurezza, perché potrebbe diventare un obiettivo di Hamas, è acquistata dal Cairo. Se consideriamo anche il giacimento supergigante di Leviathan, Israele oggi ha tanto gas da poter soddisfare i suoi consumi per i prossimi centoventi anni.

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Negli ultimi anni anche l’Egitto ha fatto grandi progressi con la scoperta, realizzata dall’ENI, del giacimento di Zohr, il più grande mai rinvenuto nel Mediterraneo.

Sotto la guida del generale Abel Fattah al-Sisi, il paese punta a diventare centro di smistamento del gas per l’intera regione mediterranea in competizione con la Turchia, il cui presidente, Recep Tayyip Erdogan, ambisce a un ruolo analogo per il gas proveniente dall’Asia centrale e diretto in Europa.

Ankara, che deve ridurre la sua dipendenza dal gas russo, vorrebbe addirittura convincere Israele a far passare il metano di Tamar e di Leviathan per l’Anatolia, per poi avviarlo sui mercati dell’Unione europea attraverso la rete di metanodotti turca. Solo che l’infrastruttura di collegamento dovrebbe transitare per le acque di Siria e Cipro, paesi privi di rapporti diplomatici con la Turchia.

Proprio il paese della mezzaluna è l’elemento di maggiore criticità della regione, per le ambizioni di potenza di Erdogan: il quale ha rivolto serie minacce al governo di Atene accusandolo di considerare la miriade di isole dell’Egeo, anche quelle che bordeggiano la costa turca, come la naturale prosecuzione della piattaforma continentale greca.

La Turchia considera invece queste isole un’eccezione geografica che non dovrebbe influire sulla ripartizione delle zone economiche esclusive tra i due paesi. Il leader turco non tollera che il diritto internazionale riconosca a ogni isola greca, anche a quelle minuscole come Castellorizo, la possibilità di trivellare lungo un’area di 188 miglia nautiche, comprimendo gli spazi di ricerca a mare del suo paese e ridimensionandone le mire espansionistiche.

Le conseguenze dei conflitti

Un altro grande punto interrogativo è la Siria, attraverso cui l’Iran vorrebbe far transitare un gasdotto per dare uno sbocco sul Mediterraneo al gas che estrae dal giacimento di South Pars, nel Golfo Persico. L’infrastruttura, che dovrebbe attraversare anche l’Iraq, è stata però fortemente avversata dal Qatar e dagli Usa, mentre ha ricevuto l’avallo della Russia, che nel conflitto in Siria appoggia il presidente Bashar al-Assad.

Peraltro il timore di alcuni osservatori è che il nuovo conflitto israelo-palestinese possa favorire la costituzione di un asse tra russi e iraniani (questi ultimi accusati di essere registi dietro le quinte dei fatti del 7 ottobre 2023).

Più dell’aumento dei prezzi degli idrocarburi, questo è considerato il principale rischio indotto della guerra tra Hamas e Israele. E con la decisione di Algeria e Tunisia di schierarsi con i palestinesi appare sempre più depotenziato il «Piano Mattei per l’Africa», annunciato dal governo Meloni un anno fa, al momento del suo insediamento, ma mai esplicitato nei contenuti.

L’unica cosa che ci sembra di aver capito è che, facendo leva sull’antico radicamento dell’ENI nell’area nordafricana, in paesi come Egitto e Libia, il governo punta ad accordarsi con i paesi arabi del Mediterraneo per porre un freno ai flussi migratori verso l’Italia.

Il problema è che politicamente l’Italia conta poco nella regione, per non parlare dell’Unione europea.

Prova ne sia il fallimento del memorandum di intenti sottoscritto da Giorgia Meloni con il governo di Tunisi per contenere gli arrivi di migranti dallo Stato magrebino. Piuttosto che flettere, la curva degli arrivi dalla Tunisia ha registrato un’impennata nel corso del 2023 e a fine anno potrebbe segnare il record storico.

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Nel nostro saggio analizziamo anche le conseguenze dello sganciamento dei paesi europei, e in particolare dell’Italia, dalle forniture russe a seguito della guerra in Ucraina. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i prezzi del metano e dell’elettricità sono raddoppiati rispetto alla media storica degli ultimi venti anni.

L’avere svincolato gli acquisti di gas dai contratti a lungo termine con Gazprom e l’avere preso come base di riferimento degli scambi europei di gas la cosiddetta Borsa di Amsterdam (il TTF), dove sono negoziate al momento le partite spot e i contratti «futuri» di metano, ha finito per dare la stura alla speculazione e per rendere i prezzi erratici. A farne le spese sono le famiglie e le imprese.

Ma se l’accelerazione dell’import di gas siberiano nell’era Putin ha accresciuto la dipendenza dell’Europa da Mosca, oggi corriamo il rischio di sbilanciare i nostri acquisti di metano verso altri fornitori: non solo verso gli Usa, nostri maggiori alleati nella Nato, la cui raggiunta autosufficienza energetica li spinge a ricercare una posizione dominante sul mercato europeo, ma anche verso paesi come l’Algeria, storico alleato della Russia in campo militare, e come l’Azerbaigian, retto da un regime non meno dispotico di quello russo, che dopo aver conquistato con la forza il Nagorno Karabach potrebbe adesso apprestarsi a invadere l’Armenia.

Nel libro dedichiamo ampio spazio anche ai rapporti in campo energetico tra Germania e Russia, avviati durante il cancellierato di Gerard Schroeder e proseguiti senza soluzione di continuità durante il cancellierato di Angela Merkel: rapporti sfociati nella posa del tubo sotto il Mar Baltico voluto dal Cremlino per escludere dal transito del gas l’Ucraina, colpevole agli occhi di Putin di volersi sottrarre dalla sfera d’influenza russa e di aspirare a far parte dell’Unione europea e del sistema difensivo atlantico.

La politica del «cambiamento attraverso il riavvicinamento», attuata con la Ostpolitik durante la guerra fredda, evolve dopo la riunificazione tedesca in quella del «riavvicinamento attraverso l’interdipendenza», che è consistita nel creare forti legami commerciali con il Cremlino in campo energetico nella prospettiva di un’integrazione della Russia con l’Europa.

Troppo gas?

Nel libro è citata, tra le altre cose, una ricerca commissionata in Germania dal ministero dell’Economia e del Clima all’Istituto di Economia dell’energia dell’Università di Colonia da cui emerge che una parte dei rigassificatori programmati dal governo tedesco potrebbe rivelarsi superflua.

Nell’analisi è evidenziato che Berlino prevede una importante sovraccapacità di rigassificazione. Se il governo attuasse in pieno i suoi piani, i terminali di cui è stata prevista la costruzione finirebbero per funzionare a meno del 50 per cento della loro capacità di trattamento da qui al 2030.

Anche l’Italia corre un rischio del genere?

La domanda non è affatto retorica considerato che è stato installato un terminale di rigassificazione nel porto di Piombino e un altro dovrebbe essere installato al largo di Ravenna.

Dalla nostra analisi emerge infine prepotentemente il ruolo della Cina con il suo enorme fabbisogno di gas e la sua leadership mondiale nella produzione-raffinazione di metalli strategici e nell’industria dei pannelli solari.

Gazprom ha già dirottato per necessità verso la Repubblica popolare cinese parte del suo gas che oggi non trova più acquirenti in Europa.

E con il nuovo metanodotto Forza della Siberia 2, ancora in fase di progetto, la cui posa dovrebbe essere ultimata per il 2030, la Russia dovrebbe poter trasferire nel paese del Dragone volumi sempre più consistenti di metano.

  • Dal blog di Stefano Feltri, Appunti, 29 ottobre 2023

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