Secondo Alberto Mello, biblista monaco di Bose, il libro di Osea è il più difficile dei libri profetici. Ciò è dovuto alle difficoltà presenti nel testo originale, ma anche dal problema ermeneutico generale che esso uscita. Mello consiglia di non fissarsi sulla soluzione dei problemi storico-critici, quanto di valutare a fondo il significato simbolico dei vari brani del libro. Mello traduce personalmente il testo, commentando i dati salienti a livello filologico e teologico, sciogliendo molti nodi interpretativi che sembrano davvero risolutivi.
Originario del Nord, il levita Osea assiste alla degenerazione della monarchia della metà del sec. VIII a.C., fino alla distruzione di Samaria nel 722 e l’esilio della popolazione in Assiria. Egli sale a Gerusalemme e prosegue di là la sua attività profetica. La sua predicazione al Nord verrà poi integrata e rivista con riletture e aggiunte giudaiche.
Nel suo volume, Mello suddivide in modo originario il libro di Osea in quattro parti: cc. 1–3 Esperienza personale e vicenda matrimoniale; cc. 4–7 Conoscenza di Dio e critica sacerdotale; cc. 8–10 Memoria storica e polemica antiregale; cc. 11–14 Fine inevitabile ma conversione ancora possibile.
Per Mello, il profeta Osea appare un profeta scandaloso perché per primo simboleggia il rapporto di YHWH col popolo di Israele in termine di nuzialità segnata da prostituzione idolatrica.
Esperienza personale e vicenda matrimoniale
Nei cc. 1–3 al profeta è comandato di prendere in moglie una donna incline all’infedeltà coniugale. Per Mello non è sicuro che fosse prostituta e men che meno prostituta sacra. Da Osea o da altri uomini la moglie Gomer ha tre figli, che ricevono nomi con i quali YHWH segnala la sua presa di distanza dal suo popolo, prospettando castighi e il ritiro della sua misericordia.
In questo matrimonio complicato – come lo definisce Mello – avviene il cambiamento dei nomi dei figli e l’istanza del divorzio presentata a Gomer attraverso di loro. Si accusa la sposa di prostituzione, cioè di idolatria. Osea parla in modo distinto della parte più fertile del nord (conquistata in un primo momento dall’Assiria) e spesso della zona montuosa centrale (Efraim). YHWH svelerà la nudità necessaria alla conversione.
Al momento dell’annuncio del castigo, subentra l’annuncio di un ritorno al deserto e alla parola. Sarà dato un nome nuovo ai figli, succederà un fidanzamento con le doti nuziali portate da YHWH al suo popolo. È una nuova alleanza fondata su tre parole profetiche fondamentali: “giustizia e diritto”, “amore e misericordia”, “fiducia e fedeltà”.
Le endiadi riducono a tre le condizioni: una giustizia assicurata dall’equità dei giudizi; un amore misericordioso (connotato sessualmente); “fiducia” o “fedeltà”, che è il tema specifico di Isaia e che rende possibile il permanere per sempre di questo amore, la sua indissolubilità.
A queste precise condizioni il rapporto nuziale diventa applicabile anche al rapporto con Dio; diventa una metafora adeguata alla sua alleanza. A queste precise condizioni, l’esperienza personale di Osea lo rende capace di leggere il matrimonio come profezia di una relazione di alleanza con Dio.
Viene, inoltre, annunciata una “corrispondenza” cosmica. Le doti nuziali, le caratteristiche dell’alleanza tra Dio e il suo popolo sono i temi fondamentali della profezia scritta, della profezia dell’VIII secolo. Per Mello, questo testo è una sorta di concentrato della profezia ebraica, quella rappresentata da Osea, ma anche da Amos e da Isaia.
Si discute se Os 3,1-5 annunci un nuovo matrimonio. Mello non è dell’idea, rimandando invece alle vicende burrascose di alti e bassi di ogni amore matrimoniale.
YHWH annuncia un periodo di astinenza sessuale come strumento di recupero di un vero rapporto d’amore. Una “vedovanza in vita”. Dopo di che, i figli di Israele torneranno a cercare YHWH loro Dio e Davide loro re – aggiunta giudaica – e avranno rispetto di YHWH e della sua bontà, nei giorni che verranno (Os 3,5).
Nel primo capitolo l’azione del profeta è negativa ed esprime la condanna della prostituzione di Israele: il profeta sposa una donna che si prostituisce per denunciare il peccato del suo popolo, il fatto che il paese si è gravemente prostituito.
In seguito, però, l’azione è positiva: è per manifestare l’amore di Dio verso i figli di Israele nonostante essi si volgano ad altre divinità. In 1,2 la motivazione è data da un “poiché” (kî), mentre in 3,1 si traduce con un “come” (ke). C’è un prima e un dopo fra il c. 1 e il c. 3, che va interpretato teologicamente e non solo sul piano della verosimiglianza storica.
«Il peccato è sempre lo stesso – afferma Mello –, ma è cambiata la comprensione che ne ha il profeta. Tra la prima e la seconda esperienza che ci viene narrata, tra il capitolo primo e il capitolo terzo, si opera il passaggio dalla giustizia alla misericordia, quello stesso passaggio che abbiamo visto profilarsi all’interno del capitolo secondo. Osea, attraverso la sua difficile esperienza personale, ha imparato a non licenziare la sua donna, a divorziare da lei, ma ad amarla come il Signore» (p. 53).
Conoscenza di Dio e critica sacerdotale (Os 4–7)
Os 4–7 espongono i temi della conoscenza di Dio e della critica sacerdotale.
In 4,1-3 il profeta invita alla conoscenza di Dio. Questo è un tema fondamentale in Osea. Dalla mancanza di conoscenza di Dio discende l’assenza di fedeltà di amore e la presenza di gravi delitti: spergiuro, falsità omicidio, furto, adulterio, spargimento di sangue su sangue. Manca la fedeltà (emet) e lo ḥesed (traducibile con grazia o gratitudine, bontà o benevolenza, lealtà o solidarietà, amore o misericordia). Costituisce un’endiadi con emet, che definiscono un “amore fedele”.
In 4,4-11 è presente una forte accusa contro i sacerdoti. Poiché hanno rigettato la conoscenza di Dio, hanno indotto il popolo in peccato e si nutrono del loro peccato. Il popolo è uguale ai sacerdoti. Aderendo all’idolatria (“prostituzione”), non godranno dei beni della terra e della discendenza di figli. I sacerdoti dovevano trasmettere la conoscenza della Torah ma, essendo anche “sacrificatori”, si nutrono in abbondanza dei sacrifici offerti dalla gente carica di peccati.
In Samaria c’è uno spirito di prostituzione (4,12-14), che si tratti o meno di appartarsi con prostitute sacre. L’unione di un sacerdote con una donna imitava simbolicamente l’unione di Ba‘al con la divinità femminile (Anat o Astarte), in un culto mimetico volto a favorire la fecondità della terra. I maggiori responsabili del commercio sessuale sono i sacerdoti, bollati ferocemente da Osea.
L’idolatria è denunciata aspramente anche in Os 4,15-19. Il testo descrive Israele-Efraim come una vacca ribelle e si menzionano i siti di Ghilgal, Betel (= Bet Awen, “casa dell’idolo”) e Bersheva (“non giurate”, 4,15). Efraim si è legato agli idoli, un dio che assomiglia all’uomo che lo venera, che gli serve da ideale. L’icona invece guarda l’orante.
In Os 5,1-7 si prende di mira l’“orgoglio di Israele” Oltre ai sacerdoti, Osea si scaglia contro il potere del re, la “casa del re”. L’orgoglio di Israele testimonia contro di lui. Sia Israele (denominazione geografica generale) che Efraim (zona montuosa centrale distinta dalla fertile pianura di Yizre‘el) sono inciampati nei loro misfatti.
Il degrado morale è la non conoscenza di Dio, è uno scandalo, un inciampo, quella abitudine al peccato che diventa arroganza e che non consente più di correre ai ripari, di risarcire un torto o di accogliere un perdono. Si va in cerca del Signore “con greggi e armenti” (5,6), ossia mediante i sacrifici, tramite un culto esteriore ma non attraverso una vera ricerca interiore, un sincero pentimento, e quindi senza poterlo trovare.
In Os 5,8-15 risuonano rumori di guerra, in riferimento alla guerra siro-efraimita (734-733), che porterà, dapprima, alla conquista assira della parte settentrionale di Israele e poi alla conquista di Samaria del 722, con deportazione della popolazione e l’inserimento di popolazioni straniere con le loro proprie divinità.
Giuda invocherà l’aiuto dell’Assiria, ma Osea non si schiera come Isaia dalla parte di Gerusalemme, ma neppure con Efraim. La sua critica radicale è rivolta a entrambi i regni, del nord e del sud.
L’esilio sarà come l’azione di YHWH che sbrana. Però, come in Deuteronomio, l’esilio non è e non può essere l’esito finale della storia di Israele.
Os 6,1-6 contiene l’invito pressante alla conversione e l’annuncio di una guarigione da parte di Dio verso il suo popolo. A differenza di molti interpreti, Mello comprende in modo positivo la fiducia di essere guariti il terzo giorno, senza meccanismi di automaticità.
Egli sposta il v. 5c dopo il v. 3. In questo modo il termine “giudizio” assume un valore positivo di salvezza e il brano assume un significato luminoso. L’amore di Israele resta, però, sempre fragile come la nube del mattino e la rugiada che presto svanisce.
Il Signore ha ferito il suo popolo per mezzo dei profeti «perché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza più degli olocausti» (Os 6,6). Questa frase, citata due volte da Gesù, è centrale nel messaggio di Osea.
Mello la interpreta come un’opposizione vera e propria, una “negazione fortissima” e non come una semplice preferenza. Dio richiede l’amore e non il sacrificio, impostato sulla logica del “ciclo del dono”, interessato. L’amore è dono di sé, ha anche un valore espiatorio; l’espiazione si può definire come il peccato tramutato in sofferenza che, grazie a tale sofferenza, viene eliminato. «Ma ciò non giustifica qualsiasi sofferenza, specialmente se autoimposta o imposta da altri. Qui l’ambiguità dell’idea sacrificale è molto grande – commenta Mello –, e si rende necessaria un’alternativa, un superamento della sua logica» (p. 87). L’amore è l’ultima virtù, non è un sacrificio, perché «si situa a un altro livello di quello implicito nel sacrifico, appartiene a un altro ordine che non è quello fisico delle cose, e neppure quello metafisico del pensiero, ma è un ordine altro: la “virtù di carità”, come direbbe Dante, e che Jean-Luc Marion chiama l’“ultima virtù”, perché essa oltrepassa sia la fede che la speranza» (p. 89). Mello cita al proposito una pagina illuminante di Blaise Pascal sull’ordine della carità (pp. 90-91).
Os 6,7-11 parla di una misteriosa alleanza di Adamo. Si cita la regione di Ghil‘ad, dove è avvenuto un gravissimo atto di sangue ad opera di sacerdoti. È un episodio che non ci è più noto.
Oltre alla prostituzione, Osea denuncia quindi addirittura l’omicidio. «Probabilmente l’“alleanza di Adamo” riguardante l’intera umanità, di cui ci parla qui Osea – commenta Mello –, è quella che anche Amos chiamerebbe l’“alleanza fraterna” ([…] Am 9,9]), esistente fra tutti gli uomini, a prescindere dalla loro appartenenza etnica o politica, ed essa comporta un unico divieto fondamentale: “Non uccidere!”» (p. 94).
In Os 7,1-7 si descrive la parabola del fornaio, mentre in 7,8-16 quella di una focaccia non rivoltata. Si potrebbe alludere all’essere infiammati e descrivere un alto tradimento da parte di principi o capi alterati dal “calore del vino” cui il re ingenuamente ha stretto la mano. La congiura, covata lungo la notte, è divampata al mattino.
Si deve ricordare che nei quindici anni tra il 747 e il 732, ben quattro re del nord sono stati trucidati dal loro successore. Osea denuncia il continuo regicidio.
La focaccia non “rivoltata” potrebbe alludere alla mescolanza delle lingue dei costruttori della torre di Babele, alla diaspora delle genti e rimandare al fatto che l’Assiria ha invaso Israele. Dapprima la parte settentrionale (“una focaccia non rivoltata” = sbruciacchiata da una parte).
Israele non invoca il Signore, ma l’Egitto e l’Assiria. Le superpotenze. L’esilio in Assiria non avrà mai fine. Da lì Israele non farà più ritorno. L’allusione alla fine del regno conclude questa sezione del libro di Osea. «Quella che segue è una radicale contestazione della stessa istituzione regale che ne è stata la causa» (p. 100).
Memoria storica e polemica antiregale (Os 8–10)
Os 8,1-7 è una feroce denuncia del “vitello di Samaria”. L’idolatria denunciata è quella del culto statale nel regno di Israele (che ha come capitale Samaria). In realtà il vitello d’oro è situato nel santuario di Betel, che è “il tempio del regno” (Am 7,13). Dietro il testo di Osea appare l’episodio del “vitello d’oro” di Es 32,8. Il vitello è il piedistallo per il Signore, come l’arca nel tempio di Gerusalemme. In realtà la sua compromissione con il culto di Ba‘al e con la politica nazionale di Israele è costante e irrimediabile. Geroboamo aveva costruito due vitelli d’oro, uno a nord a Dan e uno a sud, a Betel.
«Chi semina ingiustizia raccoglie miseria» (Pr 22,8). Il peccato di Israele non può portare nulla di buono, ma contiene in sé stesso la propria punizione, anzi ha un effetto moltiplicatore. Il vento produce una tempesta. «Non occorre scomodare l’ira divina: si tratta di una giustizia immanente» (p. 104).
In 8,8-14 si annuncia che Israele dovrà tornare in esilio. Si è rivolto all’Assiria? Ebbene tornerà in Egitto. Vedendo anche Os 11,5, quello che si chiama Egitto è in realtà l’esilio assiro. L’esilio di Israele in Assiria «equivale a un altro Egitto, al ritorno della storia della salvezza al punto zero, a quella schiavitù da cui una volta era già stato liberato, ma invano. In pratica, si attua una completa regressione» (p. 106).
In 9,1-6 si preannuncia, invece, la fine del culto. Fuori della terra di Israele diventa impossibile l’adorazione del suo Dio, la possibilità stessa di rendergli culto. Israele ha abusato delle sue feste, trasformando il suo Dio in un idolo del benessere e della fecondità. Israele ha scambiato il Signore con Ba‘al. La sua prostituzione è un amore che manca della gratuità.
Il profeta si manifesta come guastafeste (9,7-9), sentinella che ricorda a Efraim la sua iniquità e il peccato che sarà punito. Si accenna a un riferimento esemplare della storia del passato, a Ghiv‘a (Gabaa), avvisaglia di episodi del passato che, d’ora in poi, Osea ricorderà come paradigmatici anche per interpretare il presente.
In 9,10-14 si rammenta, infatti, la memoria del deserto, con l’arrivo a Ba‘al Peor e al peccato ivi commesso. Il contrappasso della prostituzione è la sterilità. Osea fa un bilancio fallimentare della propria profezia e con 9,10 «iniziano le retrospettive storiche del periodo più tardo dell’attività di Osea» (J. Jeremias, cit. a p. 112). Osea chiede a YHWH di dare il male minore, un grembo infecondo e mammelle aride.
In 9,15-17 viene invece ricordata la seconda memoria storica, la nascita della monarchia, presentata come non voluta da YHWH. Anche il profeta Samuele vi era contrario. Si accenna a Ghilgal e alla disobbedienza di Saul, primo re, che compie un sacrificio non autorizzato. La disobbedienza sarà punita con il rigetto di Israele da parte di YHWH.
Per Osea, profeta del nord, spettatore del degrado del suo regno, questo è il grande peccato di Israele, quello della classe politica dopo quello della classe sacerdotale.
In 10,1-4 si denuncia la divisione del cuore. La ricchezza produce idolatria, la divisione del cuore fra YHWH e gli idoli, manufatti umani, prodotti artistici e arredi liturgici affascinanti. Il cuore si divide fra il bello e il buono. La ricchezza produce idolatria, mentre la politica degenera facilmente in corruzione e ingiustizia. La giustizia, cioè l’equo giudizio che dovrebbe assicurarla, fiorisce come veleno a causa delle frequenti congiure, che fanno sentire la sede regale come vacante.
Per Osea non è decisiva la figura del re, il potere politico, al limite anche il messia. Essenziale è la “conoscenza di Dio” che si manifesta in questi versetti come “timore di YHWH”, il rispetto di colui che è, insieme, “bello e buono”.
Il peccato di Israele è descritto in 10,5-8. È il vitello di Samaria situato a Betel o Bet Awen (la “casa dell’idolo”). Esso rappresenta il culto statale, il culto monarchico. Perciò, è indissociabile dal potere politico, dal peccato di Geroboamo: ne è la giustificazione religiosa, l’ideologia regale.
Il castigo, doppio e simultaneo, è la cessazione dell’idolatria e la fine del regno del nord, con il re di Samaria rimosso come un fuscello sul pelo dell’acqua. «Cessazione dell’idolatria e fine del regno del nord sono quindi indisgiungibili: sono, per così dire, ambedue contemporaneamente necessari affinché si operi il ritorno a quel deserto degli dèi che è indispensabile per poter ricominciare una storia positiva di salvezza. Ciò nondimeno, il lutto per questa perdita è realissimo. È un fatto tragico che rasenta la catastrofe, il ritorno al caos puro e semplice, perché la fine del vecchio ordine delle cose non lascia ancora trasparire l’inizio del nuovo. L’angoscia del profeta è un’angoscia mortale» (p. 121).
Os 10,9-10 denuncia la duplice colpa. Si accenna ai giorni di Giv‘a, patria di Saul, dove dev’essere avvenuto qualcosa di arcinoto. Osea ha in mente probabilmente le origini della monarchia.
Per il profeta il peccato è una duplice colpa: la degenerazione insieme politica e religiosa che si è instaurata in Israele con l’avvento della monarchia e con i culti di Ba‘al. Osea è radicato nelle tradizioni nomadiche del deserto, è risolutamente contrario all’istituzionalizzazione derivante dalla monarchia, peraltro assai deficitaria nel regno del nord. Il Signore ha tentato invano di correggere Israele, impigliato nel suo duplice peccato.
Mello ricorda come la punizione non è causata dall’ira divina, ma è effetto della stessa ostinazione umana che, perseverando nel peccare, produce colpa su colpa. Il castigo è una giustizia immanente. Per correggere Israele, YHWH raduna contro di lui i popoli, ma egli rimase attaccato alla sua duplice colpa.
È ora di cercare il Signore, ricorda Osea in 10,11-15. Efraim era una vitella ben addestrata, ma ha arato per l’iniquità, confidando nella politica e nella forza militare. Ora è tempo di cercare il Signore, seminare con giustizia (ṣedaqà, che, a differenza di ṣedeq, significa quasi “misericordia”), affinché YHWH venga a Israele facendo piovere la giustizia. Occorre dissodare un terreno e non seminare tra le spine (cf. Ger 4,3) dissodarsi un campo nuovo perché è tempo di cercare YHWH (Os 10,12), perché egli venga a Israele e faccia piovere la giustizia.
Fine inevitabile ma conversione ancora possibile (Os 11–14)
In Os 11,1-9, pagina famosissima del profeta, viene descritta l’umanità di Dio. Egli ha chiamato dall’Egitto il suo servo (così Mello a differenza di CEI 2008) Israele, facendolo passare dalla schiavitù alla libertà, facendolo diventare suo figlio.
I profeti (così Mello integra il soggetto mancante) li hanno chiamati, ma essi sacrificavano a Ba‘al e incensavano idoli. Dio ha insegnato a Efraim a camminare tenendolo per le sue braccia. Li traeva a sé con legami d’amore umani, sollevando il giogo (così Mello a differenza di CEI 2008) dalla mascella – alleviando così la fatica –, piegandosi su di lui per farlo mangiare. Dio è stato padre e madre per Israele/Efraim.
Osea fa dire a Dio che Efraim ha rifiutato di convertirsi, e dovrà tornare in esilio in terra d’Egitto/Assiria. Il popolo si è impigliato nel traviamento con i Ba‘al: gridano a lui, ma egli non li risolleverà.
[…] «Il nuovo fidanzamento profetizzato da Osea all’inizio (cf. 2,20-22) rimane pur sempre un bel sogno – annota Mello –. Se si vuole salvare a tutti i costi questa storia d’amore, l’unica possibilità è configurarla diversamente, è trasferirla su un altro piano. Non più come il rapporto tra lo sposo e la sposa, ma tra il padre (o la madre) e il figlio (o la figlia)» (p. 132).
Os 11,8-11 descrive il pentimento di un padre. Dio di sente “sconvolgere” (così Mello al v. 8) dentro il proprio cuore, si sente commuovere le viscere. Come potrebbe abbandonare Efraim perché sia distrutta/sconvolta come le città attorno al Mar Morto, vicine a Sodoma e Gomorra? YHWH non darà sfogo alla propria ira perché egli è Dio e non un uomo. Non entrerà “in agitazione” (così Mello, e non “in città”).
YHWH ruggirà come un leone ed Efraim seguirà YHWH, tornando come passeri dall’Egitto, come colombe dalla terra d’Assiria. YHWH promette che li farà abitare nelle loro case.
Dio non può distruggere il suo popolo. Il suo amore, la sua misericordia ha la meglio sul giudizio. L’umanità di Dio, il suo amore, lo spinge fino al pentimento, perché egli è Dio, “santo”, diverso, separato dagli uomini in quanto è misericordioso e lento all’ira.
Il meccanismo retributivo peccato-punizione viene a incepparsi. È proprio questo pentimento di Dio Padre che rende possibile anche il nostro pentimento, la nostra conversione, annota Mello (cf. p. 134).
Os 12,1-7 ricorda Giacobbe il menzognero, che ingannò il fratello fin dall’inizio. Da adulto lottò contro Dio: lottò contro l’angelo e lo vinse, pianse e supplicò.
Mello annota come Osea chiarisca il racconto di Gen 32,25-29. Per Osea fu Giacobbe a vincere, perché pianse e lo supplicò. «Giacobbe non ha vinto né con la forza né con l’astuzia – scrive lo studioso –: ha vinto con il pianto e la supplica. Decisive queste lacrime, assenti nel racconto della Genesi, se non nella ferita che gli si è impressa nella carne. Giacobbe ha vinto, sì, ma piangendo e chiedendo perdono. Anch’egli si è pentito: per questo il suo nome è stato cambiato e da Ja‘aqov, l’ingannatore, il tortuoso, è stato trasformato in Jisra’el che, secondo un’altra possibile etimologia, significa “uomo che ha visto Dio” (e il luogo della lotta notturna è detta Penu’el, ovvero “volto di Dio”)» (p. 139).
Secondo Mello, Os 12 è il capitolo più difficile del libro, ma importante a livello teologico.
In 12,8-15 (che Mello titola “Per mezzo di un profeta”) ci sono oracoli che sembrano molto slegati fra loro. Osea ricorda come YHWH abbia fatto salire Israele dall’Egitto mediante l’opera di un profeta. Si allude a Mosè, il legislatore e la guida di Israele per tutto il cammino del deserto. Solo nel Deuteronomio egli riceve il titolo di navi’, “profeta”.
Per Osea, come poi per Geremia, la profezia mosaica è una profezia dell’ascolto della parola e non della visione. Proprio per questo Mosè è il più grande di tutti i profeti. Nm 12,6-8 ricorda come Dio parlò bocca a bocca con Mosè, e non in enigmi. Mosè conosceva YHWH faccia a faccia, secondo Dt 34,10. Per i rabbini questo avvenne solo nella sua morte.
In 13,1-8 si parla ancora di idolatria e morte. Efraim è la parte montagnosa della Palestina settentrionale, del regno del nord. Quella parte era stata ancora risparmiata dall’annessione assira negli anni dell’attività del profeta, dopo il 733. Efraim è riconosciuto come un capo in Israele, con un’elezione carismatica.
Questa benedizione è stata radicalmente compromessa a causa dell’idolatria praticata. L’idolatria è l’inverso della benedizione, produce la morte. Significa scambiare il Signore con Ba‘al, avere un altro Dio. YHWH annuncia che sarà come un leone, un leopardo sulla via dell’Assiria. Come un’orsa senza figli, divorerà Efraim, squarterà la cassa del suo cuore, li farà a pezzi la bestia del campo.
Os 13,9–14,1 annuncia la fine del regno, la rovina di Israele, perché solo in YHWH c’era il suo aiuto. Il re e i giudici non lo salveranno. Con domande retoriche (riprese da Paolo) si parla di morte, di peste, di inferi. La compassione è nascosta agli occhi di YHWH. Un vento d’oriente, un vento di YHWH, seccherà la sorgente a cui Efraim attingeva. «Samaria dovrà espiare perché si è ribellata al suo Dio: cadranno di spada, saranno sfracellati i bambini e le donne gravide sventrate» (14,1).
Mello sottolinea con forza che non si tratta della fine di Israele, della morte del popolo di Dio. È la fine della “casa di Israele”, come direbbe Amos, «cioè della sua autonomia politica, della sua costituzione monarchica: è la fine del regno del nord, non dell’esistenza del popolo in quanto tale, che continua a essere “il mio popolo, Israele”, e quindi destinatario di un’elezione irrevocabile, di una promessa, di una “chiamata di Dio senza pentimento” (Rm 11,29)» (pp. 149-150).
Lo studioso ricorda come il senso tradizionale di questa parola di Osea si è trasformato completamente nel suo opposto, in un’affermazione categorica. «Sì, li scamperò dalla mano degli inferi, li scamperò dalla morte». Il potere della morte è stato annientato dalla risurrezione di Cristo, ricorda Paolo. Il senso della parola di Dio cresce indefinitamente con la capacità spirituale dei suoi lettori.
Per Osea si tratta di spiegare un fatto storico, una grave sciagura nazionale: la caduta di Samaria, capitale del regno del nord, conquistata dagli assiri di Tiglat-Pileser III nel 722. L’unica chiave di lettura che gli sia disponibile, che gli possa dare un senso, è quella della colpa e dell’espiazione. «Ma, per quanto tragica, questa non è la parola ultima, non è la fine del “mio popolo, Israele”: tant’è vero che subito dopo risuona un appello ancora più accorato a un “ritorno” ancora possibile, a una salvezza che si può dare anche al di là della morte» (p. 151).
Ritorno o conversione (14,2-9) è il titolo dato dallo studioso all’appello riportato da Osea a chiusura del suo libro. «Ritorna, Israele, fino al tuo Dio, perché hai inciampato nella tua iniquità (14,2). La preposizione ‘ad (“fino a”) è più forte di ’el (“verso”) e rimarca una certa lontananza. Questo fa pensare a una distanza tra Dio e l’uomo che sembra incolmabile, ma che invece la grandezza della grazia divina riesce a superare» (pp. 152-153).
Israele ha “inciampato”. Non si tratta, quindi, di una situazione irreparabile. La conversione, teshuva, è appunto un tornare indietro quando uno si accorge di aver sbagliato strada. La coerenza di un uomo, la purezza del suo cuore, non è la sua impeccabilità, la sua inerranza, ma la sua capacità di pentirsi, ricorda Mello. «L’essenziale dello sforzo morale si ha proprio nel ritorno al bene dopo la disavventura del male» (E. Levinas, cit. a p. 152).
Osea fa appello a Israele perché torni a Dio e gli suggerisce perfino le parole da dire: “Togli tutta l’iniquità e prendi il bene”. Prendi su di te e porta (via), togli via, perdona. La conversione è sempre possibile, qualunque sia l’entità del peccato commesso.
Osea ricorda che, per convertirsi, non occorrono neppure prestazioni particolari, “opere” straordinarie: bastano delle «parole, una sincera confessione dei peccati. «Noi ti offriremo il frutto (perì, qualcuno sceglie la lezione “buoi”, parim) delle nostre labbra». Non è richiesto nessun sacrificio particolare, ma basta la confessione e il ringraziamento, cioè la sincerità e la pace del cuore, che è appunto “il frutto delle labbra”.
La conversione stessa ha effetto per un’iniziativa divina e proveniente da Dio, ricorda Mello: “Io guarirò il loro traviamento, li amerò spontaneamente (nedavà: un’offerta libera e gratuita) perché la mia ira si è ritratta da loro” (v. 5).
L’uomo è più capace di sviamento meshuvà, una conversione sbagliata, che non di conversione. Questo è il caso più frequente e sottolinea l’incapacità dell’uomo di convertirsi in maniera adeguata. Per contro, quanto risulta decisivo è la guarigione operata da Dio: il fatto che la sua ira “si ritrae” (shuv, lett.: “torna indietro”) e in questo modo rende possibile anche la nostra conversione.
Mello cita Sicre Diaz e Alonso Schoekel: «Il messaggio di Osea ha qualcosa di sconcertante. La nostra logica religiosa segue il passaggio peccato-conversione-perdono. La grande novità di Osea, che lo situa su un piano diverso e lo fa precursore del Nuovo Testamento, è che egli inverte l’ordine: il perdono precede la stessa conversione. Dio perdona prima che il popolo si converta e sebbene non sia ancora convertito… Questo non significa che la conversione non sia necessaria, ma che essa si realizza come risposta all’amore di Dio e non come condizione previa del perdono» (cit. a p. 155).
Il messaggio finale di Osea orienta di nuovo verso quell’amore grazioso che è l’ḥesed di Dio, il suo amore fedele. All’affermazione di Israele di non avere più niente a che fare con gli idoli, YHWH risponde: “Io gli rispondo e veglio su di lui: sono come un cipresso verdeggiante e il tuo frutto è trovato in me” (v. 9).
Dio risponde alle parole di conversione del popolo, alla sua preghiera e al desiderio di conversione. Dio è “responsabile”, continua a vegliare su di lui. I frutti che si trovano in Israele, degni di conversione, provengono da Dio stesso, sono “trovati” da lui solo, trovati là dove magari noi non sappiamo nemmeno che potessero esserci. Tutto è ḥesed, tutto è grazia.
La stessa conversione è possibile solo per grazia. Quella «delle due cose che determinano la conversione (la nostra buona volontà umana e la grazia divina), quella che comunque precede, anticipa ed è veramente determinante è l’amore di Dio», conclude Mello (p. 155).
Il libro di Osea è difficile da comprendere, specialmente se lo si legge a livello storico-filologico. Il colophon o conclusione di 14,10 dice invece il contrario: “Le vie del Signore sono diritte”, sono semplici. “I giusti vi camminano, mentre i peccatori vi inciampano”.
Secondo Mello, la difficoltà di Osea è propriamente teologica. Tre parole sono fondamentali nell’insegnamento profetico: giustizia, amore e fedeltà (cf. Os 2,21-22). Sono riconducibili a due: amore e giustizia (Os 12,7), la fede o fedeltà essendo una prerogativa di entrambe. Queste due parole sintetizzano il duplice comando dell’amore di Dio e del prossimo su cui si realizza un accordo maggiore anche tra lo scriba e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento (cf. Mc 12,32-34).
Per Paolo, la virtù teologale più grande è la carità (cf. 1Cor 13,7-8) e non avrà mai fine e non verrà meno, nonostante tutte le nostre possibili contraddizioni e infedeltà. La “via sovraeminente” dell’amore (cf. 1Cor 12,31), questa “conoscenza che sorpassa ogni conoscenza” (cf. Ef 3,19) è stata inaugurata e resa accessibile, primo fra tutti, proprio dal profeta Osea, conclude Mello il suo commento.
Alle pp. 159-164 si trova la bibliografia.
Il volume si presenta come un’affascinante traduzione personale e commento sapienziale a un testo profetico complicato ma modernissimo. La profonda conoscenza del mondo biblico e rabbinico del monaco di Bose lo rendono un testo accessibile, succoso e stimolante per un discorso su Dio in rapporto con gli uomini che sia veramente secondo la rivelazione biblica.
Alberto Mello, Amore e non sacrificio. La profezia di Osea (Spiritualità biblica), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2025, pp. 168, € 18,00, ISBN 9788882276522.