Cento anni fa, precisamente il 17 maggio del 1925, nasceva a Chambery, nella Savoia, Michel de Certeau. A chi gli chiedeva chi fosse, rispondeva semplicemente di essere uno storico della spiritualità moderna. In realtà Certeau è stato un intellettuale dalle mille sfaccettature, perché “attraversatore” di campi disciplinari e istituzionali tra i più disparati.
«Autore di un’opera che è una continua interpolazione di se stesso (come ha dimostrato Andrès Freijomil), poco meno che eterodossa, interessata allo stesso tempo e con la stessa serietà, come ha fatto notare Éric Maigret, a Ignazio di Loyola, ai fondamenti teorici della storiografia e alle lettrici del settimanale Nous Deux»[1].
Non è possibile perciò frequentare il suo pensiero con l’intenzione di trovare in esso una prospettiva unitaria; anzi, potremmo applicare alla sua scrittura quella frase che egli stesso – riprendendola da Marguerite Duras – rivolse alla letteratura mistica, quando scrisse: «questa letteratura offre strade a chi “domanda un’indicazione per perdersi” e cerca “come non tornare”»[2].
Se l’indicazione è sensata, credo sia più opportuno muoversi nell’arcipelago delle sue opere, provando a interrogarle e a lasciarsi interrogare, in un dialogo continuo che, lontano dal condurre ad approdi sicuri, consentirà brevi e tonificanti soste entro il cammino dell’esistenza.
De Certeau e le istituzioni
Due sono le immagini che solitamente vengono alla mente quando si evoca la figura di Certeau. La prima, meno recente ma tutt’ora in voga, è quella dell’intellettuale cattolico eterodosso e rivoluzionario, acuto interprete del maggio parigino[3].
Senza disconoscere il fatto che egli mantenne un atteggiamento critico nei confronti delle istituzioni che frequentava e dei rispettivi saperi disciplinari, concordo tuttavia con Diana Napoli quando afferma che si tratta di un cliché da ridimensionare, dato che lo storico francese svolse comunque le sue attività scientifiche entro alcuni quadri istituzionali di riferimento[4].
Vi è poi un’altra immagine che si è fatta strada negli ultimi anni. È quella del Certeau teologo; magari troppo innovatore per essere compreso, ma pur sempre teologo. Con tutta probabilità si tratta di un’immagine elaborata da coloro che nutrono aspettative (o anche frustrazioni) nei riguardi della teologia, e che in quell’insolito interrogare la tradizione cristiana che ha contraddistinto il metodo del gesuita francese, hanno intravisto nuovi scenari per la scienza teologica.
Entro questa motivazione più generale vanno probabilmente comprese anche alcune dichiarazioni. La più celebre è quella resa da papa Francesco nel 2016, allorquando – stando almeno ad alcuni media – avrebbe definito Certeau “il più grande teologo per il giorno d’oggi”. Proprio in riferimento a questa dichiarazione, ci si può chiedere quale ruolo abbia giocato l’interesse specifico di Francesco per Pierre Favre (1506-1546), uno dei primi compagni di Ignazio, canonizzato dallo stesso pontefice.
Qualche anno prima (19 settembre 2013), infatti, in un’intervista al direttore della rivista La Civiltà cattolica Antonio Spadaro, il papa dichiarò di prediligere Henri de Lubac e Certeau, e più avanti aggiunse che ammirava il Memoriale di Favre edito da quest’ultimo[5]. Si tratta però di affermazioni che non hanno trovato grande eco tra gli studiosi di Certeau, indice forse del fatto che volerlo vestire nei panni di teologo resta un’operazione alquanto problematica.
Non posso qui soffermarmi sulla questione. Mi limito semplicemente ad osservare che sono le fondamenta stesse dell’operazione teologica che Certeau ha posto radicalmente in discussione, motivo per cui voler far rientrare (almeno direttamente) l’opera certiana nella teologia, senza tener presente la grande sfida che egli ha lanciato al sapere teologico, rischia di risolversi in un “taglia-incolla” o in un maquillage che alla lunga non funziona.
Resta comunque il fatto che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, Certeau prese progressivamente congedo dalla teologia, e lo fece non semplicemente perché divenne uno storico, ma perché si accorse che le questioni che con la sua epistemologia storica andava sollevando non avrebbero potuto fare più da puntello ad una teologia.
Negli anni Settanta[6] egli fece un passo di lato anche nei confronti dell’istituzione Chiesa. In primis nei confronti della Compagnia di Gesù, dalla quale si rese sempre più indipendente, come attesta anche la scelta di andare a vivere in un’abitazione privata.
In secondo luogo dalla Chiesa, di cui aveva più volte messo in evidenza la distanza (il suo linguaggio) rispetto alle pratiche sociali, culturali e persino credenti. A questo proposito M. Ranchetti ha scritto che «il fallimento del Concilio non significa affatto, per Certeau, un’occasione mancata di rinnovamento: vuol dire la riconosciuta impossibilità di una presenza di verità nella Chiesa visibile e soprattutto nelle forme della sua espressione istituzionale: in un certo senso, la fine della ecclesiologia»[7].
Ma anche nei confronti di altre conventicole (università e centri di ricerca) e di altri chierici (storici, antropologi, filologi, etc) Certeau non ha mancato di muovere le sue osservazioni. E questo non semplicemente perché si era confrontato criticamente con autori dal calibro di M. Foucault, P. Bouridieu, R. Barthes, J. Lacan (per citarne alcuni), ma perché aveva sperimentato sulla sua pelle cosa significava essere accreditato o meno entro un’istituzione scientifica (solo nel 1984, ovvero due anni prima della sua morte, viene eletto direttore di studi presso l’EHSS), a quali condizioni economiche, statutarie, politiche, occorreva sottostare, e quali gruppi o correnti (mainstream) era importante frequentare.
Mistica e modernità
Le indagini storiche di Certeau (mistica, stregoneria, possessioni, pratiche religiose, etc), proprio perché indissolubilmente epistemologiche, ci consentono anche di rileggere la storia della coscienza europea e il ruolo fondamentale che in essa ha avuto il cristianesimo; impresa questa di cui lo stesso Certeau ha dato prova.
Si veda, solo per fare un esempio, quella sorta di parallelismo che ha colto tra la mistica del XVI e XVII secolo e il contesto socio-culturale coevo. Le guerre di religione a seguito della Riforma, la nascita degli stati moderni, la scoperta del nuovo mondo, impressero delle crepe non più rimarginabili in quell’universo forgiato dall’ontologia medievale.
Le conseguenze ecclesiologiche che Certeau rileva sono a mio avviso ragguardevoli: un corpo – clericale, dottrinale, scritturale – si va disfacendo. L’eretico diventa il ministro di un’altra chiesa, la dottrina è ritagliata sulle sagome di un’esperienza, la Scrittura è sottratta ad un’autorità che ne deteneva le chiavi di accesso. Il capovolgimento è già nell’ordine del “pensabile”. In un mondo in cui un Locutore divino aveva depositato le sue vestigia, il compito dell’uomo consisteva nel dire ciò che già era iscritto in un ordine (cosmo), nel tirare fuori un essenziale che si manifestava attraverso le sue forme, nel cogliere un senso che si esprimeva mediante dei linguaggi, nell’ascoltare una voce che era stata codificata in un testo.
Ma quando la spaccatura prende piede, «disturbando il lessico» e aprendo il «vuoto di un innominabile»[8], prima ancora che l’audacia di un’invenzione ceda il passo ad una monotonia del commento, è allora che per Certeau imperversa la “tempesta mistica”. Una tempesta breve, certo, e presto sedata (fine Seicento), ma i cui segni non potranno essere cancellati, quantunque l’omogeneità di un sapere tenterà di addomesticare tale scientia experimentalis.
La teologia, con il suo ritagliare un’essenziale entro una pluralità altrimenti oceanica (gesto fondatore che la qualifica fin nelle sue fibre più intime), rappresenterà il tentativo più portentoso, sebbene non l’unico. Anche la psichiatria, imponendo il suo pensabile (normale/patologico), tenterà di espugnare l’impenetrabile estraneità dei testi mistici al fine di renderli “decifrabili” (un oggetto di studio è finalmente prodotto).
La storia, psicanalisi del presente
Sarà allora la scienza storica a poter aprire gli scrigni della mistica? Non di certo una storiolatria oggettiva, che nel mentre narra gli avvenimenti cancella le pratiche con cui li va costruendo; né una storia teologica, tributaria di un sentimento apologetico di cui già Henri Bremond aveva percepito i limiti.
Il compito, come si può capire, non è per nulla facile! Certeau lo aveva sperimentato fin dai suoi primi studi su Favre e poi sul “suo” J.-J. Surin (1600-1665). Sceso negli inferi degli archivi con l’ingenua sicurezza di chi crede nella storia dei “fatti” (“come sono andate realmente le cose”), ne era risalito barcollante, ferito dalla consapevolezza che non avrebbe potuto esumare quei “cari estinti”[9].
Un linguaggio alterato, ferito, segnato da un impossibile a dirsi che ugualmente vuol esser detto, suscitato da un Altro che pur “autorizzandolo” non lo garantisce, richiederà – osserva Certeau alla scuola di J. Orcibal – di essere interrogato da coloro che restano «all’interno di una esperienza di scrittura» e conservano «una sorta di pudore delle distanze»[10].
Eppure proprio quell’esperienza di scacco di fronte all’estraneità dei testi mistici lo aveva reso più avvertito non solo nei confronti delle operazioni dello storico[11], ma soprattutto di fronte alle aspettative del suo presente. Già il presente!
Quel non-detto che consente ad un gruppo di costruire una tradizione e di metterla in scena tutte le volte che una crisi è alle porte, ma a cui non vuole attribuire la regia, preferendo affidarne il copione alle mani di un’origine designata come fondatrice (“in principio era così”) perché garante di una continuità oggettiva (“bisogna procedere entro una linearità già tracciata”), che però di continuo possiede solo una parentela stretta con la preoccupazione (questa sì continua!) di un corpo sociale intento a perpetuare se stesso. Ma questo è un altro capitolo dell’intricato e suggestivo arcipelago certiano…
[1] D. Napoli, Michel de Certeau filosofo della modernità, Orthotes, Napoli-Salerno 2023, 7. Si veda anche l’articolo della stessa autrice apparso sul quotidiano Avvenire del 16 ottobre 2024, dal titolo: “Il pensiero di Michel de Certeau e la modernità presa alle spalle”.
[2] M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, il Mulino, Bologna 1987, 50.
[3] A questo proposito si è soliti riportare l’espressione che Certeau scrisse in un articolo sulle contestazioni parigine del maggio del ’68, già dal titolo emblematico, La presa della parola: «nel maggio scorso, si è presa la parola così come nel 1789 si è presa la Bastiglia».
[4] In un intervento preparato nell’ambito del convegno “Michel de Certeau. Pensare la modernità”, promosso dall’Università Gregoriana (16 ottobre 2024), la studiosa ha ricordato alcuni di questi legami istituzionali. Dal punto di vista ecclesiastico Certeau si è assunto il rischio di essere estromesso dalla Compagnia di Gesù, ma non l’ha mai abbandonata (a differenza di altri intellettuali gesuiti con cui egli di fatto collaborò). Dal punto di vista lavorativo tentò di entrare in modo stabile entro un’università francese (l’EHESS) e, seppure alla fine, ci riuscì. Inoltre, nei due decenni che precedettero questa stabilizzazione, lavorò in alcune università latinoamericane e statunitensi. Dal punto di svista scientifico, va anche ricordata la sua collaborazione con Le Goff e Nora, rappresentati comunque di una “scuola” storiografica (Annales). Infine non vanno dimenticati anche gli incarichi istituzionali che ricevette nell’ultimo periodo dal ministero della cultura francese in merito alle indagini sulle pratiche culturali.
[5] A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica (2013) III 449-477. Sul rapporto personale tra questi due gesuiti rimando alla recente opera di C. Álvarez, Henri de Lubac et Michel de Certeau. Le débat entre théologie et sciences humaines au regard de la mystique et de l’histoire, Cerf, Paris 2024.
[6] Emblematico resta il colloquio radiofonico a cui prese parte anche J.-M. Domenach e poi pubblicato sotto il titolo Il cristianesimo in frantumi (1974).
[7] M. Ranchetti, «Prefazione all’edizione italiana», in M. de Certeau, Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino 2006, 12. Più discutibile resta a mio avviso l’insistenza che Ranchetti esprime nelle stesse pagine su un’assoluta coerenza dell’itinerario intellettuale di Certeau.
[8] Id., Fabula mistica, 202.
[9] Cf Id., «Il mito delle origini», in La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020.
[10] Id., «L’enunciazione mistica», in Sulla mistica, Morcelliana, Brescia 2010, 259.
[11] La nozione stessa di “fare storia” raggiunse una tale notorietà che, da semplice titolo di un articolo di Certeau (1970), divenne il titolo della famosa trilogia di J. Le Goff – P. Nora (edd.), Faire de l’histoire, vol. I–III, Gallimard, Paris 1974, di cui lo stesso Certeau scrive l’introduzione metodologica con uno studio dal titolo «L’opération historique» (cf La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, 62–120).
Intellettuale incredibilmente raffinato, forse il suo limite (rispetto ad un più solido Gutierrez) è proprio questa rarefazione del suo lavoro. Figlia della fine delle grandi narrazioni.