Per i lavori del Sinodo

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chiesa italiana

Per la prima volta, da quando fu introdotto da Paolo VI con l’intento di dare forma continua alla collegialità episcopale creata dal Vaticano II, il tema scelto per un Sinodo della Chiesa cattolica lo ha trasformato e riconfigurato in maniera profonda – già questa è una forza apprezzabile della sinodalità a cui aspira la Chiesa sotto la guida di papa Francesco.

Gli abbozzi di sinodalità, dalla fase preparatoria alla prima sessione dell’anno scorso, rappresentano per la Chiesa cattolica un lento processo di apprendimento che si muove in acque finora sconosciute. Tentennamenti, errori, ricerca di nuovi passaggi, sono parte di questo percorso ecclesiale in cerca della sua forma per il tempo che viene. Tutti apprendisti immersi in una pratica sinodale che chiede di essere intelligentemente apprezzata.

Questa è l’atmosfera che respira anche l’Instrumentum laboris (IL) approntato per la seconda sessione del Sinodo, che si svolgerà nel prossimo ottobre. Non può essere letto e valutato mantenendo i parametri abituali con cui ci si accostava a quelli che organizzavano i sinodi precedenti. Certo, ogni testo ha i suoi limiti – anche quelli scritti da coloro che stanno imparando a essere Chiesa in maniera inedita –, ma sarebbe inadeguato, e ingeneroso, fermarsi soltanto a essi.

Il merito principale di questo IL è quello di voler dare valore alla pratica sinodale così come essa si è sviluppata nel corso della prima sessione del Sinodo. Non si sovrappone a essa, non la screma in maniera da renderla più digeribile, ma la onora e cerca di organizzarla per facilitare i lavori della seconda sessione.

Dopo una introduzione che cerca di dare un fondamento cattolico alla sinodalità, il testo si divide in tre sezioni: le relazioni; i percorsi; e i luoghi. Questa triade non è la mera risultante di ciò che è la sinodalità in versione cattolica, ma rappresenta modi dell’essere Chiesa e di partecipare alla sua missione senza i quali la sinodalità stessa non rimarrebbe che un’astrazione o un pio desiderio.

Legami che fanno la Chiesa

Una Chiesa cattolica avviata a darsi forma sinodale è chiamata a edificarsi facendo perno su relazioni affidabili e responsabili (IL, 22-50). Infatti, «solo una trama di relazioni che intrecci la molteplicità delle appartenenze è in grado di sostenere le persone e le comunità (…). La sinodalità non va pensata come un espediente organizzativo, ma vissuta e coltivata come l’insieme dei modi in cui i discepoli di Gesù intessono relazioni solidali, capaci di corrispondere all’amore divino che continuamente li raggiunge e che essi sono chiamati a testimoniare nei contesi concreti in cui si trovano» (IL, Relazioni, Introduzione).

Mettere al centro le relazioni significa immaginare la Chiesa cattolica come un soggetto collettivo, dove tutti coloro che vi appartengono sono abilitati alla missione in forza della dignità battesimale, comune a tutti e tutte, e dei doni che essa conferisce a ogni credente. Doni che «abilitano e impegnano ogni battezzato, uomo o donna: alla costruzione di relazioni fraterne nella propria comunità ecclesiale; alla ricerca di una comunione sempre più visibile e profonda con tutti coloro che condividono lo stesso battesimo; all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo» (IL, 23).

Si inserisce in questo ambito la distinzione, fatta dall’IL, tra ministeri battesimali e ordinati (29). I primi sono libera espressione dello Spirito e «risposta alle necessità delle singole comunità» (IL, 29). Si radicano, quindi, nei diversificati vissuti delle concrete comunità cristiane e chiedono a queste ultime sia un’opera di discernimento, sia una attivazione dell’immaginazione della fede per dare forma all’esercizio di questi ministeri battesimali che sono generati dalla contestualità della vita comunitaria. Hanno, pertanto, una caratteristica flessibile, di presa diretta sulle esigenze che il Vangelo attesta nella quotidianità del vivere la fede.

«Il processo sinodale ha evidenziato a più riprese come il discernimento e la promozione dei carismi e ministeri, così come l’individuazione dei bisogni delle comunità e della società, sia un aspetto su cui le Chiese locali hanno bisogno di crescere, dandosi criteri adeguati, strumenti e procedure» (IL, 31). Di interesse anche il ruolo che compete alla guida dei vescovi rispetto ai ministeri battesimali: devono in primo luogo riconoscerli, ossia mettere mano a un esercizio dell’autorità capace di cogliere l’azione dello Spirito nei vissuti comunitari della fede che non dipende da loro. Questo riconoscimento chiede ai vescovi una doppia obbedienza: certo allo Spirito, ma anche alle comunità di cui sono responsabili.

Colti già esistenti nel vissuto delle comunità cristiane, alle Chiese locali «sotto la guida dei loro pastori» compete di decidere a chi e come affidarli – ed eventualmente rispondere all’esigenza di farne dei ministeri istituiti (cf. IL, 32). Ci si potrebbe chiedere, però, se l’istituzione sia la forma più adeguata di investimento ecclesiale verso ministeri, quelli battesimali appunto, che sono essenzialmente plastici e dinamici (proprio perché generati dalle dinamiche storiche delle singole comunità). Su questa linea si pone il suggerimento di «dar vita a un ministero dell’ascolto e dell’accompagnamento», perché in una Chiesa sinodale «serve una “porta aperta” della comunità, attraverso cui le persone possano entrare senza sentirsi minacciate o giudicate» (IL, 34).

È probabile che nelle comunità cristiane vi siano già persone che esercitano questo ministero di apertura e ospitalità della Chiesa, a prescindere dalle condizioni e dallo stato di vita di coloro che incontrano – e, con questo incontro, fanno entrare, con discrezione e cura, nello spazio del vissuto ecclesiale. Nominare come ministero questo tipo di incontri ospitali significa che essi non sono (solo) espressione privata dei credenti che li attuano, ma anche e soprattutto gesti pubblici di tutta la Chiesa che si impegna a mantenere la promessa di ospitalità fatta attraverso l’esercizio di questo ministero battesimale dell’apertura ecclesiale.

L’asse relazionale che occupa (e preoccupa) di più l’IL è quello tra battezzati non ordinati e battezzati ordinati – e di conseguenza tra ministeri battesimali e ministeri ordinati. Dopo più di mille anni in cui questo era pensato come subordinazione dei primi ai secondi, non si può immaginare di avere già in tasca la soluzione del bilanciamento ecclesiale di questo rapporto. Nonostante tutto, disponiamo di una teologia (e soprattutto di un magistero) del ministero ordinato che fa del battezzato che accede all’ordine un battezzato diverso, altro, non comune, che ha finito per assorbire in sé tutte le attribuzioni e tutti i poteri battesimali – rendendo sostanzialmente superflui e ininfluenti i battezzati comuni. Non siamo ancora capaci di dire la destinazione dell’ordine come generata all’interno e dalla comunità credente (da quelle esigenze di cui si parlava più sopra). Ed è ancora lacunoso un esercizio effettivo del ministero ordinato come risposta evangelica alle necessità che il vissuto comunitario della fede fa sorgere al suo interno.

Che sia necessaria una «conversione effettiva delle pratiche» è facile a dirsi, ma cozza contro un’assuefazione e un’abitudine dure da scalfire. Che, poi, questa conversione debba comportare un «modo nuovo di pensare e organizzare l’azione pastorale, che tenga conto della partecipazione di tutti i battezzati, uomini e donne, alla missione della Chiesa» (IL, 37), dice quanto nella configurazione battesimale fra credenti comuni e ministri ordinati si sia sostanzialmente rimasti a livello preconciliare. La Chiesa sinodale, secondo l’IL, dovrebbe rappresentare il superamento di una Chiesa piramidale anche nell’esercizio dell’autorità ordinata (36) – ma lo schema fatica a uscire dalle menti e dai cuori (e anche dalla penna di coloro che hanno redatto il testo). Infatti, si inizia dai vescovi (IL, 38) per passare poi ai preti (IL, 39) e ai diaconi (IL, 40).

Potere monarchico (difficile da superare dentro uno schema gerarchico) e potere sinodale rischiano di giustapporsi tra di loro: con il primo che ha una portata teologica e giuridico-canonica normativa, e il secondo che rischia di andare poco al di là dell’esortazione edificante e morale. Potestà e pienezza dell’ordine possono generare un’ebrezza episcopale, e di fatto lo fanno molto spesso soprattutto nella gestione ordinaria di una diocesi – come e perché esse non comportino «l’indipendenza del vescovo dalla porzione del popolo di Dio che gli è affidata» e non giustifichino «un ministero episcopale tendenzialmente “monarchico”» (IL, 38), l’IL non riesce a dirlo al di là di affermarlo.

Là dove la Chiesa è

Il processo sinodale ha messo in luce un desiderio di relazione tra le varie Chiese locali in vista di una compartecipazione dei doni di ciascuna e di «una maggior testimonianza condivisa su questioni sociali di rilevanza globale, quali la cura della casa comune e i movimenti migratori» (IL, 46). Sulla scorta dell’esperienza dell’Amazzonia, si suggerisce la creazione di raggruppamenti ecclesiali sovranazionali in aree geografiche che sono comuni a Chiese che fanno parte di conferenze episcopali diverse tra loro – ad esempio per il Mediterraneo. Questo perché «la vita sinodale missionaria della Chiesa, le relazioni di cui è intessuta e i percorsi che ne assicurano lo sviluppo, non possono mai prescindere dalla concretezza di un “luogo”, cioè di un contesto e di una cultura» (IL, Luoghi, Introduzione).

È il luogo, con la sua contingenza e cultura, che rende concreta la Chiesa cattolica come «esperienza condivisa di adesione al Dio che salva. La dimensione del luogo custodisce la sorgiva pluralità delle configurazioni di questa esperienza e il loro radicarsi in contesti cultuali e storici specifici» (IL, 80). Vi è, insomma, un pluralismo di cristianesimi che danno forma all’essere Chiesa cattolica come comunione di Chiese che hanno il loro essere nell’ancoraggio quotidiano a una molteplicità di tradizioni culturali, lingue e modi di condivisione del discepolato di Gesù.

«Prendere sul serio questa pluralità di forme scongiura pretese egemoniche e il rischio di ridurre il messaggio salvifico a un’unica comprensione della vita ecclesiale e delle espressioni liturgiche, pastorali o morali» (IL, 81). Questo «presidio dinamico» e diversificato dell’unità dovrebbe garantire che questa non venga mai concepita nella forma «dell’uniformità» (ivi). Se l’IL tratteggia il luogo in cui una Chiesa è prevalentemente in termini geo-culturali (con un passaggio dedicato all’ambiente digitale, cf. IL 85), le sue riflessioni sono di interesse anche per quanto concerne la pluralità diversificata che caratterizza anche un luogo delimitato dallo spazio: ad esempio, se lo si guarda facendo attenzione alla sua realtà esistenziale o generazionale.

Se la Chiesa cattolica è veramente laddove si radica in una pluralità di contesti socio-culturali e di diverse espressioni linguistiche, allora è necessario introdurre un esercizio del principio di sussidiarietà anche in materia di dottrina e di teologia: non tutto deve essere deciso in Vaticano perché non tutto può essere deciso in maniera centralizzata se la Chiesa romana vuole essere concretamente cattolica. L’IL propone, quindi, di «riconoscere le Conferenze episcopali come soggetti ecclesiali dotati di autorità dottrinale, assumendo la diversità socioculturale nel quadro di una Chiesa poliedrica (…)» (IL 97). D’altro lato, appare necessaria una verifica e valutazione «dell’esperienza vissuta del funzionamento delle Conferenze episcopali e delle Strutture gerarchiche orientali, degli episcopati con la Santa Sede, per identificare le riforme concrete da attuare (…)» (ivi).

Riforme che, per essere fedeli al principio sorgivo di radicamento nel luogo in cui la Chiesa è, dovranno essere necessariamente modulate in maniera differenziata a seconda della contestualità del soggetto ecclesiale toccato da esse. Se tale contestualità appare immediatamente evidente sul lato delle Chiesa locali, essa risulta essere ancora sfuggevole su quello delle istituzioni vaticane e della Santa Sede – che corrono il rischio di essere ovunque, per ciò che concerne la loro pretesa, e di non essere da nessuna parte, per ciò che riguarda il loro essere effettivo. Qual è il luogo proprio di tutti quei soggetti ecclesiali, a cominciare dal papa, che fanno il volto e il potere della Chiesa universale? Il riferimento al papa come vescovo di Roma e di patriarca d’Occidente rimane ancora sul piano nominale – soprattutto per ciò che concerne la vita ad intra della Chiesa cattolica. Al momento sono titoli e non ancora veri e propri luoghi, così sorge spontanea la domanda: quali sono le pratiche della Chiesa cattolica che possono dare concretezza a questi titoli e, quindi, dare loro un luogo che, nella sua responsabilità ecclesiale, rimane anch’esso storico, contingente e culturalmente demarcato?

Percorsi: discernimento e decisione

La multiformità dei luoghi in cui l’essere Chiesa, plurale singolare, si concretizza e invera diventa principio dirimente tutta la processualità sinodale – insieme al discernimento comunitario che la guida e orienta. Ed è proprio quest’ultimo a costituire il tratto portante della II parte dell’IL dedicata ai percorsi di Chiesa volti a «promuovere la capacità di incontro, di condivisione e cooperazione, di discernimento in comune», da un lato, e a «favorire una conoscenza delle culture in cui le Chiese vivono e operano» (IL, 56). Per giungere a questo, è necessario mettere mano a processi formativi comuni e non più separati per stato di vita «a cui prendano parte insieme uomini e donne, laici, consacrati, ministri ordinati e candidati al ministero ordinato» (IL, 57).

La Chiesa, dunque, la si edifica insieme, tutti, attraverso il discernimento comunitario che avviene col dialogo nello Spirito dove si ascolta «la parola di Dio e quello (che dicono) i fratelli e le sorelle» (IL, 54) per apprendere insieme il «modo in cui lo Spirito agisce nella Chiesa e la guida nella storia» (IL, 52). Questa dimensione collettiva del discernimento permette di attingere al sensus fidei del popolo di Dio, e quindi deve attingere ai luoghi che danno forma a questa abilità della fede comune – dalle Scritture alla pietà popolare (cf. IL, 61).

Celebrazione eucaristica e ascolto della Parola, della realtà e della parola di ogni fratello e sorella nella fede, sono le condizioni per avviare un fecondo processo di discernimento in loco, al fine di arrivare a una «formulazione del consenso da parte di chi conduce il processo e la sua restituzione a tutti i partecipanti a cui spetta confermare o meno di sentirsi riconosciuti in quella formulazione» (IL, 63). Per questo si sottolinea la necessità di formare persone alla conduzione delle pratiche di discernimento, senza far coincidere questo ministero (battesimale, appunto) con quello ordinato. È chiaro che, se i processi di discernimento diventeranno effettivamente il fulcro generativo di decisioni nella Chiesa, il servizio di conduzione del discernimento comunitario assumerà pian piano un ruolo centrale nell’edificazione dell’istituzione ecclesiale e nell’orientamento della sua missione. Albeggia qui la possibilità di un ministero di guida della comunità cristiana che non (deve) coincidere con quello della presidenza ordinata dell’eucaristia.

Anzi, i processi di discernimento diventano essi stessi soggetto ministeriale che guida, nella Chiesa cattolica, coloro che hanno una responsabilità ordinata di guidare la comunità cristiana. L’articolazione fra l’impianto sinodale della Chiesa e la sua strutturazione che riceviamo dalle pratiche ecclesiali della modernità rappresenta, dunque, uno dei veri nodi da sciogliere per non fare della sinodalità un semplice nominalismo al fine di rendere più digeribile un’ossatura gerarchica che rimane intangibile a ogni riconfigurazione e riforma. E su questo, come la Chiesa tutta, l’IL si trova in mezzo al guado.

Si distingue infatti fra elaborazione della decisione, che fa perno sul soggetto collettivo che pratica il discernimento, e la presa di decisione che rimane esclusivamente in mano al ministero ordinato (cf. IL, 68). Di qui un pendolo che non ha ancora trovato il suo equilibrio: «Nella Chiesa l’esercizio dell’autorità non consiste nella imposizione di una volontà arbitraria, ma, in quanto servizio all’unità del popolo di Dio, costituisce una forza moderatrice della comune ricerca di ciò che lo Spirito richiede. In una Chiesa sinodale, la competenza decisionale del vescovo, del collegio episcopale e del romano pontefice è inalienabile, in quanto radicata nella struttura gerarchica stabilita da Cristo. Tuttavia, non è incondizionata: un orientamento che emerga nel processo consultivo come esito di un corretto discernimento, soprattutto se compiuto dagli organismi di partecipazione della Chiesa locale, non può essere ignorato» (IL, 69-70).

Ma in forza di cosa? L’autorità di decisione (anche monarchica) da parte del papa e dei vescovi viene ricondotta alla fondazione della Chiesa da parte di Gesù, mentre l’ascolto e il tener conto dell’esito del processo comunitario di discernimento non trova (ancora) debito ancoraggio in grado di fare da contrappeso all’inalienabilità del potere decisionale di vescovi e papi. Di questo, l’IL sembra essere avveduto pur non avendo percorsi concreti da offrire a coloro che si riuniranno in assemblea sinodale nel prossimo ottobre. Certo è che «senza cambiamenti concreti, la visione di una Chiesa sinodale non sarà credibile e questo allontanerà quei membri del popolo di Dio che dal cammino sinodale hanno tratto forza e speranza. Questo vale in modo ancora più speciale per quanto riguarda l’effettiva partecipazione delle donne ai processi di elaborazione e alla presa di decisioni» (IL, 70 – ma se la presa di decisione spetta al ministero ordinato, i casi sono due: o qui si riconosce che anche questa riserva ordinata deve essere rivista, o si allude a un ingresso delle donne nel ministero ordinato).

Se i cambiamenti delle pratiche ecclesiali decideranno della sinodalità cattolica, allora è bene individuare subito ambiti in cui essi possono e devono essere realizzati: la trasparenza (e il dare le informazioni necessarie a tutti coloro che sono coinvolti); il rendere conto dei motivi e delle ragioni che hanno spinto a una certa decisione da parte del ministero ordinato; la valutazione delle pratiche pastorali e amministrative della Chiesa cattolica (cf. IL, 73-79). Infatti, «la mancanza di trasparenza e di forme di rendiconto alimentano il clericalismo, che si fonda sull’assunto implicito che i ministri ordinati non debbano rendere conto a nessuno dell’esercizio dell’autorità loro conferita» (IL, 75). Senza scendere in casi eclatanti, per rendersi conto di come sia proprio così che invece funziona la Chiesa cattolica, basta pensare a quanto una comunità cristiana venga coinvolta e debitamente informata quando si tratta di spostare un prete o di nominare un parroco (casi ordinari in cui la decisione del potere episcopale giunge esattamente senza dover rendere conto a nessuno).

Ed è per questo che si chiede di recuperare la «dimensione del rendiconto dell’autorità nei confronti della comunità. La trasparenza deve essere una caratteristica dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Oggi appaiono necessarie strutture e forme di valutazione regolare del modo in cui sono esercitate le responsabilità ministeriali di ogni genere» (IL, 77). Doveroso per le Chiese locali che dispongono dei mezzi e del personale necessario, ma da non trascurare anche per quelle più piccole e fragili.

Annotazioni

Menzioniamo per ultimi i fondamenti di una Chiesa cattolica sinodale non perché il dato teologico e magisteriale abbia minore importanza, ma perché quei fondamenti sussistono esattamente nelle pratiche che una Chiesa mette in atto per darsi forma. Ne ricordo tre: l’orizzonte della comunione trinitaria come forza formante la dimensione sinodale della Chiesa cattolica (che implica una rivalutazione, ma anche una revisione, del suo essere sacramentale); sempre sulla scia delle relazioni trinitarie, l’essenza collettiva che fa la Chiesa nella sua cattolicità: «sacramento dei legami, delle relazioni e della comunione in vista dell’unità di tutto il genere umano, anche nel nostro tempo così dominato dalla crisi della partecipazione, cioè del sentirsi parte di un destino comune, e da una concezione troppo spesso individualista della felicità e quindi della salvezza» (IL, 4); i contesti in cui si radica la Chiesa che generano una inevitabile diversità di cui essa è portatrice (cf. IL, 11): «valorizzare i contesti, le culture e le diversità è una chiave per crescere come Chiesa sinodale missionaria» (IL,11).

In conclusione, navigando insieme all’IL nelle acque sconosciute della sinodalità a cui aspira la Chiesa cattolica, formulerei il nodo inevaso nei seguenti termini: la Chiesa cattolica deve essere gerarchica per poterlo non essere, oppure non lo deve essere (senza nulla togliere alla sua struttura originaria) e quindi può essere costitutivamente sinodale?

La prima opzione è certo intrigante, e credo sia un paradosso costitutivo della Chiesa romana, ma chiede attenzione: in una istituzione (essenzialmente) gerarchica ogni forma sinodale è atto del potere (gerarchico) e quindi implica in ogni caso una subordinazione a esso. Forse questo è il massimo di cui può essere capace la Chiesa cattolica uscita dalla storia che le ha dato forma (molte, moltissime volte ben più dell’Evangelo di Gesù) – ai fratelli e sorelle che parteciperanno alla seconda sessione spetta di farsi carico di questo interrogativo e di abbozzare delle prime risposte.

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4 Commenti

  1. Giuseppe 19 agosto 2024
  2. Marco 18 agosto 2024
  3. Salvo Coco 18 agosto 2024
  4. Fabio Cittadini 18 agosto 2024

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