COP26, una testimonianza

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Siamo stati entrambi alla COP26 di Glasgow passandoci il testimone: uno di noi (Giorgio) la prima settimana, l’altro (Luca) la seconda. Le nostre prime impressioni coincidono: è stata una COP importante, molto partecipata, e che aumenta la consapevolezza dell’urgenza della sfida climatica e della necessità di prenderla sul serio tutti insieme, come collettività internazionale.

I risultati

Le molte questioni ancora aperte non possono offuscare i risultati ottenuti sulle rive del Clyde della città scozzese. Ricordiamoli rapidamente. Quella di Glasgow è stata la prima COP a nominare il carbone proponendone una decisa riduzione, a impegnarsi a ridurre celermente i sussidi «inefficienti» alle fonti fossili, e a contrastare le emissioni di metano e degli altri gas serra diversi dal biossido di carbonio. Sembra incredibile ma nessuna delle 25 COP precedenti ne aveva mai parlato esplicitamente nei documenti ufficiali.

Non così scontata è stata anche la riconferma dell’Accordo di Parigi di mantenere la temperatura globale entro 1,5°C per fine secolo, (e comunque «ben al di sotto di 2 gradi»), e di puntare al -45% di emissioni al 2030 rispetto ai livelli del 2010. Anche se al momento il saldo misurato dal più recente report dell’UNFCC è di +13,7% di emissioni.

Promettente, ancorché non vincolante, il traguardo anche di arrestare la deforestazione entro il 2030. E decisamente importante l’aver istituito un processo di revisione annuale dei piani di azione dei 194 paesi coinvolti – i cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDCs) – per verificarne i crescenti impegni su adattamento e mitigazione dei gas serra. Ambizioni in realtà ancora assai modeste, visto che, secondo le stime di organismi come UNEP, IEA e Carbon Tracker, porterebbero il pianeta pericolosamente oltre la soglia di sicurezza di 1,5°C, fino a 2,7°C.

Altri accordi

Tutto questo si può trovare nel documento finale della conferenza – il Patto climatico di Glasgow –, insieme al completamento del «Libro delle regole» dell’Accordo di Parigi come il capitolo sul reporting dei dati che d’ora in poi dovranno essere uniformi, completi e confrontabili per tutti i paesi partner (trasparenza), e la messa a punto dei meccanismi dei mercati del carbonio (art. 6), tesi a regolare lo scambio di crediti emissivi evitando il doppio conteggio e altre insidie del greenwashing.

A questo si aggiungono altri accordi e impegni rilevanti presi da gruppi di Stati al di fuori della cornice multilaterale della COP, come l’accordo per mettere al bando la vendita di auto e furgoni a combustione interna dopo il 2035 (non firmato dall’Italia, ma nemmeno dalla Germania e dai principali paesi produttori di autoveicoli), più svariati accordi per la promozione delle fonti rinnovabili, delle reti a sostegno di una compiuta elettrificazione, e di altro ancora. Significativa, a suo modo, anche l’adesione dell’Italia, per il momento in qualità di «amico», alla proposta BOGA promossa da Danimarca e Costa Rica per il contrasto di gas e petrolio.

Ha fatto poi molto parlare anche il deal fra Stati Uniti e Cina sulla decarbonizzazione, per i più maliziosi da intendere come un ballon d’essai diplomatico, anche allo scopo di temperare il protagonismo britannico con un accordo fra le due superpotenze.

La pretesa (accolta) di Cina e India

Va tuttavia rilevato che alcuni dei buoni propositi annunciati durante la COP26 sono stati ridimensionati da un’estenuante attività di diluizione delle novità più eclatanti. La più rilevante di queste è stata la riformulazione pretesa da India e Cina dell’impegno a dismettere in tempi ragionevolmente rapidi l’uso del carbone. Il phase out (eliminazione graduale) della fonte fossile è stato sostituito infatti all’ultimo minuto dei negoziati da un più blando phase down (riduzione graduale). Cosa che ha portato il presidente della conferenza Alok Sharma sull’orlo delle lacrime, salvo poi scusarsi per essersi lasciato andare alle emozioni.

È stata insomma una COP ricca di pathos, tensioni, colpi di scena. E soprattutto di vibrante partecipazione di un esercito di circa 30mila fra colorati attivisti, preoccupati ricercatori e azzimati negoziatori tutto sommato molto contenti di rivedersi dal vivo in una sorta di Expo del clima dopo un anno e mezzo di quaresima pandemica.

Alcuni hanno definito a ragione l’incontro un «processo di pace». Accidentato ma genuino. In effetti, mettere in contatto per due settimane i rappresentanti delle economie più avanzate del pianeta, responsabili della maggior parte delle emissioni storiche, con i testimoni di paesi che rischiano di andare sott’acqua o patire intollerabili carestie e migrazioni climatiche, è stato il portato più significativo della COP26. A Glasgow, le disuguaglianze si sono potute toccare con mano, misurare nei lucidi proiettati sugli schermi delle centinaia di conferenze sull’adattamento, parole chiave del summit soprattutto per coloro che vivono già oggi l’emergenza del riscaldamento globale e pensano prima a salvarsi la pelle e poi ai necessari obiettivi della mitigazione. Questi due mondi si sono annusati e parlati, scontrati e riconciliati in un accordo che non poteva che configurarsi come un compromesso.

Si poteva fare di più

Si poteva certamente fare molto di più, per esempio sul capitolo degli aiuti economici. Nel patto si promette il raddoppio dei fondi per l’adattamento, ma all’articolo 44 si prende anche atto «with deep regret» che il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a imboccare con più convinzione la strada della decarbonizzazione non ha fatto passi avanti. I 70 miliardi all’anno attualmente disponibili, così come i 100 miliardi promessi, sono solo una piccola parte di quanto servirebbe per dare più slancio alla lotta climatica, come hanno rilevato molti capi delegazione nazionali, fra i quali la rappresentante della high ambition coalition Tina Stege.

I limiti dell’accordo sono risultati ancora più evidenti nella discussione del Loss and Damage, il meccanismo per il risarcimento dei danni climatici già causati nei paesi più vulnerabili da chi ha la maggiore responsabilità storica delle emissioni. Stati Uniti ed Europa si sono opposti all’istituzione di un fondo di questo genere, prima di tutto per il timore che questo legittimasse richieste infinite di risarcimento.

Quello delle finanze climatiche resta un punto molto critico che, se non superato, rischierebbe di compromettere l’obiettivo centrale di Parigi. Lo nota in un editoriale molto critico verso la COP e gli Stati Uniti l’economista Jefferey Sachs, che propone di implementare da subito una mini tassa sul carbonio per raccogliere i fondi necessari e riavviare la macchina di una decarbonizzazione reale.

I timori di Sachs sono condivisibili. Ma va anche osservato che il solo fatto di aver portato l’argomento Loss and Damage al tavolo della negoziazione internazionale ha un significato storico in grado di condizionare la geopolitica globale dei prossimi decenni, forse ancora più profondamente di quanto non sia avvenuto in seguito alla Seconda guerra mondiale.

Il valore politico dell’evento

La lettura integrale del Patto di Glasgow (che consigliamo in questa versione commentata dal Washington Post) ci fa capire anche il ruolo di assoluto rilievo che, soprattutto dopo la pubblicazione questa estate del primo dei tre report dell’IPCC, assume la scienza come stella polare dell’azione climatica. Analisi e numeri sempre più cogenti costituiscono un po’ per tutti un duro richiamo alla realtà, che ha creato nelle due settimane dei negoziati un clima di urgenza, che si è andato a sommare alla pressione tangibile esercitata dai rappresentanti della società civile sui negoziatori. Cittadini ben informati e attivi possono a questo punto fare la differenza.

Il principale risultato della COP26 è, a nostro avviso, la portata politica, più che i dettagli tecnici, del suo documento finale, e il confronto multilaterale che ha portato alla sua stesura. Un processo che non ha mai preteso di risolvere da solo la crisi climatica (si legga l’articolo di Stefano Caserini su Climalteranti), ma che può segnare un cambiamento graduale e inesorabile nei rapporti tra gli Stati e nella loro consapevolezza di appartenere a una comunità globale che lotta per la sua stessa sopravvivenza.

Un altro passo avanti è stato fatto, e dopo Glasgow ci piace pensare che il bicchiere sia (ancora) mezzo pieno.

 

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