La democrazia liberale, per come la conosciamo storicamente, può sopravvivere nell’era digitale?
La domanda, tragica e forse eccessiva, non è però oziosa. È gravida delle preoccupazioni che attanagliano tanti, in questo periodo, di fronte alle nuove leadership politiche emergenti, al ruolo dei super–ricchi in politica (molti dei quali controllano strumenti informativi), alla capacità dei social di plasmare la mentalità di intere generazioni, di incidere sui consumi, e – ovviamente – sulle scelte politiche, divenute sempre più simili a campagne di marketing.
Per tacere delle enormi possibilità – ma anche delle preoccupazioni – che presentano oggi i temi della “democrazia elettronica”, dei sondaggi a ciclo continuo, delle profilature delle preferenze dei singoli cittadini, della loro costante intercettabilità e – ultimo ma non ultimo – delle nuove prospettive che ci apre l’intelligenza artificiale, anche in politica.
L’argomento è sterminato, ma merita senz’altro una riflessione, che valga almeno come prima “mappatura” dei temi. Sperando che altri, certo più competenti tecnicamente, vogliano contribuire – anche nel nostro Paese – ad ampliare il dibattito e, soprattutto, a portarlo dal livello della pura discussione a quello del “che fare”.
Una storia antica
Anche se pensiamo che sia un problema tutto attuale, quello del rapporto complesso tra democrazia e informazione è in realtà antichissimo. Certo, l’avvento della società della comunicazione, dell’“infosfera”, delle “generazioni connesse”, determina un salto quali-quantitativo enorme. Ma già i Padri della rivoluzione americana, i fondatori della più antica democrazia vivente, avevano analizzato a fondo il rapporto tra informazione e democrazia, ritenendo la qualità della prima essenziale e irrinunciabile per l’effettività della seconda.
Thomas Jefferson, ad esempio, nel 1786-87, nei primi anni di vita degli USA, riteneva che la libertà degli americani dipendesse dalla libertà di stampa, la quale «non potrebbe essere limitata senza essere perduta», tanto da arrivare ad affermare: «se dovessi decidere se dobbiamo avere un governo senza giornali o giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire il secondo».
Tuttavia, nel corso della sua vita, questa opinione cambiò. Dopo due mandati da Presidente, attorno al 1810, si era convinto che il libero confronto della stampa, più che generare qualità, generava manipolazione: «la realtà è che il pubblico, invece di essere informato, viene spesso ingannato da falsità diffuse senza scrupoli» (1807).
La sua delusione non lo portò a ritrattare il principio assoluto della libertà dei media. Lo portò a ritenere che i cittadini avrebbero dovuto essere molto più critici nei confronti di ciò che leggevano. Pensò che solo un popolo ben educato sarebbe stato in grado di discernere tra verità e menzogna e che l’istruzione pubblica fosse l’antidoto alla disinformazione e quindi la condizione per la democrazia stessa. In una lettera del 1816, verso la fine della sua vita politica, scrisse: «Il modo per contrastare l’abuso della libertà di stampa è attraverso un’educazione pubblica che renda i cittadini capaci di distinguere la verità dalla falsità».
Ma come abilitare i cittadini a selezionare le informazioni, senza cadere nel controllo e nella censura illiberale? Come si vede, quello che riteniamo un problema moderno era – certo, su altra scala – già una preoccupazione strutturale alle origini stesse della democrazia moderna.
L’illusione illuminista della scolarizzazione
Al termine del secolo dei Lumi, in America come in Francia, era chiaro che la democrazia – o meglio, la repubblica, come si chiamava allora – poteva fondarsi solo su un’opinione pubblica consapevole, informata, in grado di valutare razionalmente, e perciò legittimata ad esprimere il suo voto e nelle decisioni politiche.
L’Italia risorgimentale liberale, non a caso, dopo il 1861, fece della scuola elementare pubblica in tutto il Paese la sua prima scelta politica; e fu da questa scelta che nacque il suffragio elettorale universale.
Agostino Depretis, al primo allargamento da 500mila a 2 milioni di elettori, nel 1882, vincolò il diritto di voto al titolo di seconda elementare o alla dimostrazione di saper leggere e scrivere. Anche nel 1912 – al momento del primo suffragio universale maschile – Giolitti limitò comunque il voto tra i 21 e i 30 anni ai non analfabeti: lo Stato aveva offerto ai giovani la scuola pubblica; se non avevi tratto profitto da questa opportunità, non potevi avere la pienezza dei diritti politici.
Nel corso nel ’900, tuttavia, ci si rese conto che le limitazioni del suffragio rispetto alla “conoscenza”, alla capacità di “farsi un’opinione autonoma” erano illusorie, e anche pericolose. L’alfabetizzazione – ancora negli anni ’60 – in vari stati USA era un requisito utilizzato per escludere surrettiziamente dal voto le classi popolari afroamericane.
I partiti di massa, nel frattempo, avevano riempito le lacune culturali delle masse con uno sforzo pluridecennale di formazione, di scuole, di comizi, di “case del popolo”, di stampa ed editoria politica, di “tribune elettorali” televisive di qualità: impossibile presumere che ogni cittadino non fosse un minimo abilitato alla scelta politica.
Lo sbilancio tra informazione e cultura politica
E tuttavia, in un Occidente liberale, con cittadini totalmente alfabetizzati, sindacalizzati, associati, politicamente formati, alla fine degli anni ’70 iniziò a farsi largo il dubbio che tutto questo non sarebbe bastato.
Il cambiamento e la pervasività dei linguaggi televisivi (si pensi alla lezione del film Quinto potere di Sidney Lumet, 1976, 4 premi Oscar) mise in chiaro che la capacità manipolativa dei media poteva facilmente superare la capacità abilitante dei sistemi pubblici e partitici di formazione, nel frattempo (e forse anche per questo) entrati in graduale crisi.
Il dibattito americano su media e politica sbarca in Italia a cavallo del 1990, quando appare chiaro che la commistione tra informazione e intrattenimento, unita all’influenza dominante di grandi corporations che investono sui media come business e sulla politica come autotutela, avrebbe generato un terreno sdrucciolevole – se non addirittura pericoloso – per lo sviluppo della democrazia reale.
L’illusione illuminista che la scolarizzazione e la formazione fossero sufficienti a creare una base democratica consapevole, era chiaramente tramontata. (E, malgrado ciò, ancora oggi nella scuola italiana si risolve la formazione alla cittadinanza in un’ora settimanale di “educazione civica” aspecifica, perché trasversale a tutte le materie, e spesso malgestita).
Il problema della regolamentazione
Dunque, formare i cittadini (per quanto assolutamente fondamentale) non basta, perché è troppa la sproporzione di forze tra istruzione, da un lato, e pervasività dell’infosfera nelle “generazioni connesse”, dall’altro.
Servono frames culturali personali molto solidi ed estesi, per discernere tra bufale e informazioni. E la capacità del cittadino di utilizzare selettivamente le enormi possibilità culturali dell’infosfera (di per sé, un’enorme opportunità positiva) diventa una risorsa elitaria, di pochi dotati di alta scolarità e consapevolezza: così il digital divide diventa un ulteriore rischio per la democrazia, schiacciata tra una “aristocrazia” di manipolatori/influencer/fruitori consapevoli, e una “massa” di manipolati/influenzati, magari anche educati nella cultura “tradizionale”, ma non padroni a sufficienza degli strumenti innovativi per essere protagonisti attivi della rivoluzione informativa.
Serve, dunque, che la politica esplori a fondo il tema della regolamentazione dell’infosfera, così come ha dovuto (o avrebbe dovuto) regolamentare ogni nuovo fenomeno che via via si presentava sulle ali della storia: nuove energie, nuove armi, mercati finanziari globali, migrazioni…
Dopo essersi confrontata – in qualche modo – col “quarto” e “quinto potere” (stampa, TV e nuovi media), ora servirebbe alla democrazia la capacità di affrontare il “sesto potere”, quello delle piattaforme on-line e, soprattutto, dei grandi centri di calcolo e di raccolta/elaborazione/restituzione delle informazioni che vi stanno dietro.
Prima di esprimerci su questa capacità di regolazione, vediamo un po’ meglio gli ambiti di effettiva interazione tra democrazia e strumenti digitali.
Le potenzialità della democrazia elettronica (E–democracy)
Circa vent’anni fa, prima dell’era social, il rapporto tra nuovi media e politica non appariva così negativo. Internet, esploso a fine anni ’90, divenuto portatile dopo il 2008, sembrava un’enorme opportunità. Finalmente i cittadini avrebbero potuto informarsi liberamente, di prima mano, accedendo in ogni momento ai media tradizionali a basso costo, o a nuovi media telematici a costo zero. E persino dire la loro, generando propri siti, interazioni sociali, rapporti “disintermediati” tra loro e coi leaders.
L’idea che internet fosse uno spazio accessibile a tutti, aperto e non dominabile, sembrava rafforzare prospettive di libertà individuale e quindi di democrazia.
La politica ha sicuramente tratto spunti da questa opportunità. Dopo il 2000, sono nate numerose piattaforme partecipative, di lobbing e class action (come Change.org) e di decisione on-line (si pensi in Italia alla esperienza di Rousseau, nel nascente M5S).
Il tema non è tanto la voting machine (il voto elettorale “classico” nei seggi, ma espresso attraverso macchine o internet), quanto l’E-voting, che si è diffuso in moltissimi paesi, tra cui USA, Belgio, Paesi Bassi, Australia, Brasile e soprattutto in Estonia, in cui, alle ultime elezioni politiche, più della metà dei voti è stato espresso on-line, da casa, via internet.
Al netto dei problemi di sicurezza e affidabilità, questi sistemi hanno l’effetto di facilitare la partecipazione politica (il che è sicuramente un bene) e rendere le elezioni assai più facili e meno costose. In genere, si tratta sempre di votare nelle elezioni costituzionalmente previste. Ma, a volte, l’E-voting viene esteso a consultazioni varie e nella preparazione popolare delle leggi.
Le piattaforme partecipative e di e-democracy hanno così consentito lo sviluppo di esperienze di democrazia diretta, sotto forma di pareri, di voto “consultivo” (orientativo, propositivo, talora anche vincolante), trasformando la politica – più di quanto non sia già – in una sorta di sondaggio permanente.
A fare uso di questi strumenti non solo la Svizzera – da sempre unicum di democrazia diretta – ma anche vari paesi e municipalità, come appunto l’Estonia (dove la piattaforma ufficiale di voto E-Consultation permette di esprimere pareri sui disegni di legge), l’Islanda (che, nel 2011, ha riformato la Costituzione con questi metodi), o la municipalità di Madrid (che, con la piattaforma Decide Madrid, permette ai cittadini di proporre e votare iniziative).
Famosa anche l’esperienza dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg che, tra 2001 e 2013, ha sperimentato strumenti digitali per sondaggi on-line su questioni urbane, utilizzando sia piattaforme social (come Facebook) sia NYC Simplicity (una piattaforma per ricevere suggerimenti su come migliorare i servizi pubblici).
La prima impressione era positiva: più partecipazione diretta, valorizzazione delle opinioni di tutti, più trasparenza e accesso dei cittadini all’informazione e decisione politico/amministrativa, con dibattiti pubblici che migliorano la qualità e ampliano il confronto con le istituzioni.
Ma, nei fatti, questi “esperimenti” (tutt’altro che rari) hanno generato dibattiti su rischi e criticità: gruppi organizzati tendono a essere sovrarappresentati, sfruttando i canali aperti dalle amministrazioni; persone disinformate o manipolate entrano nei processi decisionali; problemi di cybersecurity e di esclusione digitale (digital divide). In effetti, non tutti i cittadini hanno strumenti o competenze per partecipare pienamente alla democrazia elettronica.
Ma, soprattutto, il rischio evidente è stato – ed è – quello di depotenziare le istituzioni della democrazia rappresentativa, che appare subito meno “autentica” e forte di quella diretta e partecipativa. Trovare un equilibrio tra “complementare” e “sostituire” la democrazia rappresentativa tradizionale con quella diretta elettronica si è dimostrato difficile. Ma, nel complesso, tra rischi e opportunità, di questo oggi si parla ormai poco. L’e-democracy non appare più un tema dirimente per il futuro delle nostre istituzioni, come vent’anni fa.
Profilatura e influencing
Un tema assai più impattante sul futuro delle nostre democrazie è quello della profilatura digitale dei cittadini, combinata all’uso massivo dei social e alla loro capacità di influencing.
Qui il discorso si fa anche tecnicamente ampio e complesso. Lo sintetizziamo così. Fin dal loro sorgere, i social (esplosi a ondate a partire da Facebook, dopo il 2008) sono serviti soprattutto a raccogliere informazioni. Mentre l’utente pensa di avere uno spazio libero di espressione, i testi, le immagini, i like che posta forniscono infinite informazioni alla piattaforma su abitudini, idee e anche sulle preferenze politiche dei singoli. Analisi che, oggi, gli strumenti di Intelligenza Artificale (AI) rendono estremamente più facili, potenti e generative di risultati immediatamente utilizzabili, a costi molto ridotti.
I big data così accumulati sono normalmente venduti, o analizzati a fondo (data mining), anche incrociandoli in modo multiplo (ricerche Google, messaggi social, registrazioni su servizi, acquisti on line…): il risultato è che i gestori, come ebbe a dire qualcuno, ci conoscono meglio di noi stessi, «e, comunque, meglio delle nostre mogli o dei nostri mariti».
Questi dati sulle preferenze personali (profilature) vengono comunemente venduti alle imprese per proporci acquisti e pubblicità internet personalizzate, come ben sappiamo. Non dovrebbe sorprenderci, quindi, sapere che anche la politica acquista queste profilature. Quanto meno, per mandare messaggi più mirati agli elettori (su Facebook, ad esempio, si possono mandare da oltre 10 anni messaggi politici a pagamento mirati per età, sesso, interessi personali, microarea geografica…).
I dati social possono essere usati anche per mettere a punto i messaggi politici, sondare le reazioni. Negli USA si utilizzano comunemente per personalizzare l’esperienza del “porta a porta” politico (molto in uso in quel paese): l’attivista repubblicano o democratico che suona al campanello spesso sa già per che squadra tifa chi abita lì, che cosa pensa sui diritti civili, quale è il suo cantante preferito. Ha molti più strumenti per “attaccare bottone” efficacemente e soprattutto per convincerlo, agendo sui temi che gli stanno a cuore.
Profilatura e intercettazioni
La profilatura in politica si è dimostrata così efficace che c’è chi paga per avere un accesso più “profondo” ai dati degli elettori: oggi non se ne parla assolutamente più, ma quando, nel 2018, si scoprì che la società Cambridge Analytica aveva raccolto i dati personali di 87 milioni di account Facebook senza il loro consenso e li aveva usati per scopi di propaganda politica, la cosa sembrò rilevante per le sorti delle nostre democrazie.
Brasile, India e vari stati USA chiesero di capire come questo aveva influito sulle loro elezioni. La faccenda si risolse con una forte multa a Facebook e qualche modifica di piattaforma.
Solo gli ingenui possono pensare che altri casi simili, nel silenzio generale, non siano ancora all’ordine del giorno. Del resto, anche di recente, nel nostro paese sono emersi preoccupanti fenomeni di profilatura, appoggiati su intercettazioni di telefonia e messaggistica (come i casi Pegasus e Paragon): la generazione permanentemente connessa è totalmente esposta a questi ascolti e dossieraggi illegali, che poi possono essere utilizzati per il policy setting, ma anche per la manipolazione e il condizionamento degli attori socio-politici influenti sul dibattito democratico. La trasparenza su questi casi, spesso contigui a servizi e servitori deviati dello Stato, è bassissima. E il pericolo per la democrazia altissimo, e assai sottovalutato.
Influencing e social
Ma senza scomodare le pratiche illegali, l’influencing è ormai una pratica efficacissima consentita dai social. Che, in modo pervasivo, arriva sugli schermi di tutti noi, per molti minuti e ore ogni giorno, mirata dai famosi algoritmi, sulla base delle nostra profilature.
Oltre agli influencer politici dichiarati (come gli attori hollywoodiani che si schierano o si fanno assoldare per un candidato, una campagna) preoccupano i fenomeni più subdoli e pervasivi della disinformazione, delle fake news e soprattutto della manipolazione algoritmica.
Così ognuno di noi si trova a vivere sui social un’esperienza personalizzata, su misura, dagli algoritmi dei social stessi: chi conosce a fondo (o programma) questi algoritmi può generare “bolle” in cui lentamente ci convinciamo che tutti improvvisamente siano tornati neonazisti, putiniani filorussi, novax, o quant’altro. Ma la “bolla” non rappresenta davvero il mondo: è deformata dall’algoritmo.
Per di più, molti dei profili che popolano la “bolla”, che parlano, che commentano, sono falsi (trolls, bot, fake account ecc.). Così la percezione sociale delle opinioni dominanti – che poi determina le nostre idee e quindi il nostro voto – viene artificialmente influenzata e modificata, non solo in modo casuale ma anche in modo intenzionale e organizzato.
Tra l’altro, con l’elevata e concreta possibilità che paesi stranieri, o ricchi detentori di strumenti informativi, influenzino i processi elettorali di altri paesi, o le campagne stesse dei loro competitor o dei loro partiti avversari. Fenomeni già avvenuti e ormai accertati.
Con un ulteriore sottoprodotto, non di minore rilevanza: i linguaggi dei social, essendo molto semplificatori, e soggetti alle regole tipiche del marketing (segmentazione, comunicazione diadica ecc.) producono effetti di polarizzazione politica. Argomentare è sempre più difficile. Ci sono solo pro e contro. Il linguaggio stesso si polarizza, scivolando nell’offesa, nell’hating, e nella delegittimazione di chi non la pensa come te. Tutti fenomeni che poi la politica introietta – svilendo la qualità del dibattito pubblico – o – peggio – usa strumentalmente, per consolidare consenso e segmentare l’elettorato (e quindi il corpo della nazione).
Intelligenza Artificiale (AI) e politica
Anche se in questi mesi se ne parla molto, e con grande preoccupazione, l’avvento diffuso dell’AI non sembra introdurre – a prima vista – rischi aggiuntivi specifici a questo quadro già così preoccupante in merito al rapporto tra democrazia ed era digitale. L’AI è piuttosto uno strumento che potenzia tutto questo, aprendo capacità elaborative infinitamente superiori ai processi degenerativi sopra descritti.
L’AI facilita sicuramente la profilazione e il microtargeting degli elettori, la generazione di contenuti personalizzati con messaggi politici mirati indirizzabili a specifici segmenti della popolazione, aumentando l’efficacia e la pervasività della comunicazione social politica. Assicura, infatti, maggiore precisione dei social media, con possibilità di identificare temi, tendenze, sentimenti da sfruttare politicamente in modo più chiaro, sicuro e rapido, anche in tempo reale.
Gli stessi risultati elettorali, o gli effetti di campagne sull’elettorato, possono essere stimati con analisi predittive più precise e sicure.
Come elementi di maggiore novità, l’AI può facilitare l’organizzazione di chatbot e assistenti virtuali, che in modo “intelligente” possono interagire con gli elettori, rispondendo a domande, fornendo informazioni sulle politiche e raccogliendo feedback: funzioni che si possono usare anche per migliorare l’influencing, oltre che i programmi politici.
Soprattutto, l’AI può essere utilizzata anche per creare contenuti falsi ad alta credibilità, comprese immagini e video deepfake, in cui figure politiche possono essere potenziate o screditate facilmente.
La facilità con cui essa genera immagini artificiali, infine, sta modificando il linguaggio social, nato con Facebook nella sfera della parola, ma sempre più teso – da Instagram e TikTok in poi – alla prevalenza dell’immagine sulla parola: con le immagini generate dall’AI, l’uso di grafiche ad effetto (si pensi al recente video trumpiano su Gaza, o all’esplosione del fenomeno del meme) sta diventando lo strumento prevalente di comunicazione politica. Con buona pace della fede illuminista nel potere democratico del dibattito tra parole e idee.
Una politica della noosfera e dell’infosfera
L’AI sembra insomma consolidare una tendenza in atto alla superiorità dell’immagine sulla parola e una invasività di entrambe rispetto alle coscienze individuali che certamente nemmeno il profetico Theillard de Chardin poteva intuire quando – introducendo il concetto di noosfera – sapeva che essa si sarebbe evoluta e intensificata con il progresso tecnologico e scientifico: il suo previsto Punto Omega, massima unificazione e convergenza della coscienza collettiva umana, se davvero non annullerà le nostre individualità, sembra però disegnare una “singolarità tecnologica” in cui l’intelligenza collettiva dell’umanità si integra profondamente con le macchine.
La noosfera di Theillard – sfera della conoscenza – sta piuttosto materializzandosi come infosfera, luogo insieme immateriale e ontologico in cui le informazioni prendono carne, e l’on-line diventa on-life.
Di questi nuovi scenari, la politica si è dimostrata prontissima a fare uso, mentre il dibattito pubblico e sulle garanzie costituzionali, in merito, è debolissimo. È soprattutto questo squilibrio che potrebbe trasformare l’opportunità digitale in un potentissimo strumento di democratura mediatica.
Manipolazione dell’opinione pubblica, disinformazione e propaganda, sorveglianza di massa e controllo sociale sono scenari possibili e forse già presenti, se non si troveranno strade reali per la regolamentazione dell’uso politico delle piattaforme digitali e dell’AI, per l’educazione alla cittadinanza digitale e quindi il mantenimento – se non il rafforzamento – delle istituzioni democratiche, con la protezione delle elezioni parlamentari e dell’indipendenza giudiziaria dall’invasività delle nuove tecnologie.
La politica potrà regolare l’infosfera? Verso la democratura mediatica?
Se ne parla davvero troppo poco, ma è del tutto evidente che l’era digitale sta modificando il contesto stesso in cui sono state scritte le regole costituzionali delle nostre democrazie liberali, tra 200 e 80 anni fa. Istituzioni e check and balances pensati per l’era della carta stampata, oggi sono del tutto inidonei a garantire la trasparenza e l’equità del dibattito pubblico.
A soffrirne saranno soprattutto i parlamenti, la quinta essenza dell’idea illuminista originaria della democrazia, ossia dell’idea che il confronto tra parole e opinioni libere generasse qualità delle decisioni.
I nuovi centri di regolazione dell’era digitale, quasi certamente, saranno fuori dai parlamenti, ormai troppo lenti e complessi rispetto alla natura dei problemi della nuova epoca tecnologica.
Nella migliore delle ipotesi, assisteremo – come già successo sulla finanza e sui grandi potentati economici ed energetici – ad un difficile rapporto dialettico tra il potere politico costituzionale “tradizionale” e i nuovi centri di potere e di autoregolazione costituiti dalle piattaforme e dai grandi centri computazionali (e dai loro proprietari industriali, si intende).
È una battaglia interessante. Ma temiamo di sapere chi la vincerà. Perché la democrazia, attraverso lo strumento elettorale di misurazione del consenso, ha porte e finestre spalancate a chi detiene la capacità di influencing (strutturalmente, da sempre, come abbiamo visto nel nostro iniziale excursus storico). Perciò la democrazia liberale dovrebbe prima autoproteggersi, chiudendo queste porte e finestre. Cosa difficile da fare, se non impossibile, senza snaturare la sua essenza di libera competizione basata sul consenso.
E se la potenza di fuoco della formazione scolastica e civico/partitica è oramai del tutto impari a quella della connettività permanente, anche la strada illuminista e jeffersoniana della formazione del popolo ad un uso consapevole e democratico degli strumenti informativi è in forte salita.
Da qui un certo pessimismo, e la convinzione che la democratura mediatica sarà nel nostro futuro.
Oppure, se vogliamo essere meno pessimisti, pensiamo che il futuro della democrazia sarà meno nella competizione tra partiti (centri di potere ormai morenti) e più nella competizione tra centri computazionali (detentori del potere di profiling e influencing mediatico, oggi dominante sul potere politico elettivo). Scherzando – ma non troppo – può darsi che in un futuro nemmeno troppo remoto ci divideremo non tanto tra destra e sinistra, ma tra chi viene promosso da Elon Musk, da Jeff Bezos, da Sam Altman o da qualche altro tycoon dell’industria digitale.
Speriamo che almeno questa competizione “liberale” tra operatori del digitale ci sia, e di non assistere a un cartello mondiale dell’informazione, assolutamente invincibile. E che dalla competizione sociale ed economica nasca – come sempre in passato – un’esigenza condivisa di regolazione politica, una nuova “costituzionalità”, basata su – inediti e insieme antichi – diritti civili e politici dell’era digitale.
Una speranza tutta da conquistare, di certo un compito lungo, per future generazioni.
Caro Giuseppe quoto tutto. FORS è l’ultima ironia della storia che l’individualismo radicale serva come giustificazione ideologica del potere incontrollato di quello che la grande maggioranza degli individui vive come un vasto potere anonimo che, senza alcun controllo pubblico democratico, regola le loro vite .
grazie per questo testo di riflessione