La Via Matildica e il Giubileo

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Un antico proverbio cinese dice che chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona partita. Sono convinto che sia proprio così. Nel mio caso, il cammino sulla Via Matildica del Volto Santo è stata l’occasione.

Da Mantova a Lucca – passando per Reggio Emilia e l’Appennino – un percorso di 285km attraversa i territori che, circa mille anni fa, appartenevano alla Gran Contessa Matilde di Canossa. Il nodo del cammino è il castello di Canossa dove, nell’inverno del 1077, avrebbe avuto luogo lo storico incontro del perdono di Papa Gregorio VII all’imperatore Enrico IV, in precedenza scomunicato.

L’idea di ripercorrere a piedi quei territori è abbastanza recente: nel 2015 – in occasione del 900° anniversario della morte di Matilde – un gruppo di pellegrini guidati da don Giordano Goccini, oggi parroco di Novellara (RE), decise di percorrere per la prima volta l’itinerario. «I sentieri c’erano già» – ricorda spesso don Giordano – «ma il cammino è nato con le persone che lo hanno percorso».

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In effetti, come ho personalmente scoperto percorrendo la Via Matildica nel 2023, il cammino è caratterizzato dalle persone che si incontrano, dai volti e dalle storie.  Oggi, dopo 10 anni da quel primo pellegrinaggio, l’itinerario è consolidato, sino ad essere riconosciuto quale cammino – uno tra gli altri – del Giubileo 2025.

Più nel dettaglio, la Via Matildica collega territori molto diversi, unendo tre tratti: la Via del Preziosissimo Sangue, da Mantova a Reggio Emilia, il Cammino di San Pellegrino, da Reggio a San Pellegrino in Alpe, la Via del Volto Santo, che attraversa la Garfagnana per arrivare a Lucca.

L’intero percorso è costellato da importanti luoghi di fede. La Via principia dalla chiesa basilica concattedrale di Sant’Andrea in Mantova, ove sono custoditi in preziosissimi vasi le reliquie del sangue di Cristo. La tradizione vuole che i resti santi siano arrivati a Mantova, portati dal soldato romano Longino, immediatamente dopo la crocifissione di Gesù. Solo nell’anno 804, tuttavia, vennero ritrovati. Una piccola porzione, dopo il riconoscimento di Papa Leone III, venne donata all’Imperatore Carlo Magno. L’imminente pericolo delle invasioni degli Ungari avrebbe successivamente spinto i mantovani a nascondere la reliquia, interrandola nel luogo ove oggi sorge la basilica.

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Per quasi due secoli, dunque, i vasi del sangue di Cristo vennero smarriti. Sino a quando, nel 1048, avvenne la seconda inventio. Tale evento viene legato alla vita di Matilde: nella cappella detta di San Longino della basilica, infatti, nell’affresco che raffigura la seconda inventio, la Gran Contessa è rappresentata bambina, all’età di due anni, in braccio alla balia.

Le tappe di pianura e sull’Appennino sono disseminate di chiese e piccole pievi “matildiche”, appunto. Tra queste spicca il meraviglioso complesso monastico dell’abbazia di San Benedetto in Polirone, fondato nel 1007 da Tedaldo di Canossa. In questa chiesa le spoglie di Matilde hanno riposato sino al 1632 quando è avvenuta la traslazione nella basilica di San Pietro a Roma.

Altro luogo “matildico” che dona emozioni è il santuario di San Pellegrino in Alpe a cavallo tra Emilia e Toscana: luogo di confine, in tutti i sensi. Territorio storicamente rivendicato da Modena e Lucca, il piccolo borgo di San Pellegrino, dopo secoli di contesa, è oggi diviso in due parti: il cuore del paese è una exclave di Frassinoro (MO) mentre tutto l’intorno è di Castiglione di Garfagnana (LU). La chiesa stessa è segnata da un confine invisibile nella navata, che fa sì che i banchi di sinistra siano in Emilia mentre quelli di destra in Toscana. Gli stessi corpi dei santi – Pellegrino e Bianco – giacciono, all’interno della teca, con la testa in una regione e i piedi in un’altra.

Ma quel che più importa è che San Pellegrino in Alpe – coi suoi 1.525 metri di altezza, uno dei punti più alti di tutto il cammino – rappresenta idealmente un confine permeabile tra la terra ed il cielo. La leggenda narra che Pellegrino era figlio di un re scozzese, ed ebbe a lasciare le sue ricchezze per attraversare l’Europa e l’Oriente. Lassù, sull’Appennino, si ritirò a vivere in preghiera sino alla morte.

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Lasciato il valico appenninico il cammino giubilare oggi prosegue – attraverso la meravigliosa natura della Garfagnana – assecondando l’itinerario storico della Via del Volto Santo sino a Lucca.

Il Volto Santo è un crocifisso ligneo – secondo la tradizione scolpito dal Nicodemo dei vangeli – che sarebbe arrivato nel porto di Luni, come racconta la leggenda Leboiniana, a bordo di una nave priva di equipaggio.  Il Volto Santo è da sempre oggetto di devozione. I lucchesi, nella notte del 13 settembre, organizzano la Luminara, una processione che attraversa la città illuminata da piccoli ceri, in memoria della traslazione della Croce miracolosa dalla basilica di san Frediano alla cattedrale di San Martino.

Al di là dei luoghi belli, della devozione, del culto delle reliquie, degli oggetti “sacri”, il mio personale approccio a questo come ad altri lunghi cammini, è sempre legato al bisogno di una ricerca intima, personale, di una riflessione in me. Questo mio modo di “farmi pellegrino” ha trovato conforto nelle parole del vescovo di Lucca, col quale, al termine della Via Matildica, ho avuto modo di parlare: «nell’antichità i pellegrinaggi erano orientati ad un oggetto, un luogo, una reliquia, oggi, invece, sono orientati al soggetto interiore, all’esperienza personale del pellegrino” mi ha detto Paolo Giulietti.

Penso al numero non indifferente di persone che, ogni anno, ogni giorno, partono lungo i sentieri verso Santiago de Compostela o verso i più piccoli santuari, affrontando l’esperienza sospinte da motivazioni religiose, spirituali. Sono tante, anche se, certamente, piccola minoranza. Le statistiche dicono che, tra i pellegrini di Santiago, meno del 50% è mosso da espresse ragioni di fede. Eppure, tutte avvertono che c’è qualcosa che mette in cammino, che spinge a cercare qualcosa di più e di diverso.

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Può essere una lettura a far muovere i primi passi. Per me è stato così. Quando ho ricevuto la credenziale della Via Matildica ho notato una frase che ha accelerato il mio moto: sul frontespizio erano riportate le parole di Rabbi Nahum che, rivolgendosi ad alcuni studenti, avrebbe detto: «Vi dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro. Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole». È stato facile scoprire che quelle parole erano una citazione da Il cammino dell’uomo del filosofo ebreo Martin Buber. Queste poche parole le ho ricordate per tutto il mio cammino sulla Via Matildica: un continuo stimolo ad andare avanti e in profondità.

Uno dei miei incontri belli è stato col “fondatore” don Giordano Goccini, parroco di Novellara e presidente dell’Associazione Via Matildica del Volto Santo: sapevo che, nel 2015, aveva percorso, insieme ad un gruppo di ragazzi, quello che è divenuto l’attuale tracciato della Via Matildica. Volevo farmi raccontare quella idea e perciò mi sono fermato nella sua canonica per una chiacchierata.

Secondo il suo pensiero, il cammino non è un’impresa sportiva. Nello sport siamo spinti a dare il massimo per superare noi stessi e magari gli altri. Anche nel cammino c’è una dimensione atletica, ma è marginale. Piuttosto, come pellegrini, siamo chiamati a confrontarci espressamente con le nostre debolezze. Lo scopo non è superare i nostri limiti, bensì imparare ad accettarli ed a conviverci. Nel cammino di gruppo, poi, il fine non è arrivare primi, bensì arrivare insieme.

Solitamente, io affronto i miei cammini in solitaria. Ma anche quando sono da solo – ad esempio su di un sentiero in mezzo ai boschi – non provo quel senso di solitudine che, a volte, mi assale dentro la città, in mezzo a tanta gente. Il monaco benedettino Anselm Grün, in un libro che avevo letto tempo fa, sosteneva che la preghiera è innanzitutto silenzio e ricerca interiore. Da quando mi sono appassionato al cammino, trovo affinità col monaco tedesco. Ripensando alle mie esperienze, concludo che i giorni che passo nel cammino sono unici nel distaccarmi dalle cose di questo mondo.

Dice don Giordano: «non è vero che non abbiamo tempo per stare con noi; il fatto è che abbiamo paura di stare con noi. Il vero dramma dell’uomo è che siamo perennemente fuggiaschi dal nostro io, perché abbiamo paura di quello che potremmo trovare dentro di noi. Il cammino vero, quello interiore, va fatto con prudenza, con attenzione perché è pieno di asperità, di pericoli. Siamo dei fuggiaschi, non tanto per cattiva volontà quanto perché fiutiamo il pericolo dentro di noi».

Il cammino fisico ingenera una circostanza favorevole. E in ciò si inserisce anche il tema di Dio, «ovvero di quella caricatura di Dio che ci hanno messo in testa fin da bambini», quel “dio marionetta” che ci portiamo dentro è infatti il più grande nemico della nostra fede.

Dice don Giordano: «purtroppo, tante volte lo troviamo anche in certe preghiere e in certe manifestazioni pubbliche; ogni tanto lo troviamo anche sulla bocca dei ministri: un Dio che tenderebbe i fili di tutto il mondo. A Lui ci rivolgiamo quando abbiamo qualcosa che non riusciamo a sbrogliare: ma, appunto, Bonhoeffer lo chiama il “Dio tappabuchi”.

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Questo naturalmente non toglie serietà alla preghiera dei poveri e degli afflitti della terra, che elevano il loro grido al cielo. È la caricatura di Dio che dobbiamo combattere. Perciò abbiamo bisogno di molto silenzio nella sua ricerca. E il cammino è un ottimo strumento.

Ho sempre fatto fatica ad applicare su di me la definizione di “pellegrino”. La interpretavo come un semplice “moto a luogo”: il pellegrino è colui che va verso un luogo “sacro”. Ma il punto di arrivo non è lo stesso per tutti.

Riflettendo su questi temi, nel corso del tempo, sono arrivato a ripensare il concetto, passando dal sostantivo (pellegrino) al verbo peregrinare. Forse è proprio il cammino stesso, e non il punto di arrivo, ad essere fonte di significato per tanti pellegrini. È una cosa molto simile a quella che diceva un “laico” come Tiziano Terzani: «il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare».

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Un commento

  1. Anna 7 marzo 2025

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