Non solo la ricchezza dei contenuti offerti dai diversi relatori e relatrici, nei contributi raccolti nelle pagine di questo volume, ma anche il confronto aperto, vivace e fecondo che da essi è scaturito durante i lavori del XXVIII Congresso nazionale tenutosi presso Villa Cagnola a Gazzada Schianno (VA) dal 28 agosto al 1 settembre 2023, e non di meno la condivisione delle diverse giornate e la contemplazione della bellezza dei luoghi visitati insieme e del loro patrimonio naturalistico e artistico; tutto questo ha reso fecondo l’evento di cui questa pubblicazione intende consegnare a un pubblico più vasto i frutti.
Queste conclusioni non vogliono essere una ripresa, più o meno ordinata, dei numerosi contributi offerti nei giorni del Congresso e dei variegati stimoli che ci sono stati consegnati, per i quali è doveroso ringraziare: il Consiglio Direttivo dell’Associazione, che ha costruito l’architettura del Congresso, articolata attorno ad alcuni snodi fondamentali (ora diventati le parti di questo volume); le relatrici e i relatori; coloro che hanno voluto contribuire alla ricchezza dei dibattiti con il proprio intervento; tutti coloro che hanno reso possibile questo evento, collaborando in diverso modo alla sua organizzazione e, non da ultimo, tutti coloro che vi hanno partecipato.
Non una ripresa dei diversi contenuti, quindi, ma una personale riflessione che, a partire da alcune delle tematiche, delle attenzioni e delle suggestioni che sono emerse in questi giorni, vuole avere il modesto intento di consegnare alcune considerazioni che riguardano il compito a cui tutti siamo chiamati: quello di «pensare il Figlio di Dio» oggi, come recita, per l’appunto, il titolo del congresso.
Il gesto fondamentale di Nicea
L’occasione del Congresso, lo si è ripetuto più volte nel corso dell’evento, è stata offerta dall’avvicinarsi del 1700° anniversario della celebrazione del concilio di Nicea. E più volte si è ricordato che il «gesto fondamentale» di quel concilio può essere ritenuto l’introduzione di οὐσία nel Simbolo di fede.
Mi piace qui dire però, raccogliendo in questo una suggestione offerta da Emmanuel Falque in uno dei due saggi introduttivi, che forse può e deve essere considerato «gesto fondamentale» anche il τουτέστιν, il «cioè» che precede quel «dalla sostanza del Padre».
Questo «cioè», infatti, come Falque ha messo molto bene in luce, pone in gioco l’ineludibile rapporto tra filosofia e teologia; e sarà proprio in forza di questo rapporto che potrà fare la sua comparsa, in un testo che intende confessare la fede cristiana, un termine «raccolto» dal vocabolario e dall’esperienza del mondo greco.
A mio parere, inoltre, il «cioè» niceno non rappresenta solo il richiamo all’ineludibile rapporto tra filosofia e teologia, ma rappresenta anche, in qualche modo, la «legittimazione» del gesto teologico. Perché questo? Perché il «cioè» niceno riconosce che per dire Dio e l’identità del Figlio le affermazioni bibliche non sono sufficienti! Ritenendo necessario, infatti, porre un «cioè» dopo aver confessato ciò che la Scrittura afferma di Gesù Cristo (è il Figlio di Dio, è generato dal Padre, è l’Unigenito) non si fa altro che affermare che è necessario accostare alle parole della Bibbia quelle della teologia; in questo caso, parole che la teologia assume anche dalla filosofia, riconfigurandole rispetto al senso che avevano nel quadro filosofico loro proprio.
Quanto sin qui detto, chiama in gioco almeno altre due questioni: considerare il rapporto della teologia con il fondamento biblico, tema che è emerso ampiamento nel dibattito che è seguito alla relazione di Milena Mariani. In questo volume di tale dibattito non ci sono tracce; ma ritengo ugualmente importante ricordarlo e richiamarlo per sottolineare come il confronto, che nasce ogni volta dalle ricche relazioni, rappresenta un momento qualificante dei lavori congressuali.
La teologia è così chiamata non solo a fare esegesi della Bibbia e della storia, ma a tentare anche di dire qualcosa di significativo che, servendosi – tra l’altro – di un quadro filosofico di riferimento, aiuti nella definizione dell’identità del Figlio di Dio.
A questa prima considerazione ne aggiungo un’altra, riprendendo questa volta l’altro saggio introduttivo del Congresso, quello offerto da Emanuela Prinzivalli: rispetto al gesto fondamentale di Nicea, non è forse ozioso chiedersi come si sia giunti a questo gesto e quali ne siano state le conseguenze.
Come si è giunti a tale gesto fondamentale?
Come si è giunti? Prinzivalli ha suggerito, per trovare risposta a questo primo quesito, di guardare anche al II concilio ecumenico, quello di Costantinopoli, celebratosi nel 381. Le modalità di lavoro dei due concili furono infatti ben diverse, in quanto nel secondo concilio ci fu ben più tempo per discutere le questioni in gioco. In particolare, un elemento di significativa rilevanza e che aiuta ad operare efficacemente il confronto tra i due concili è rappresentato proprio dall’homoousios: fu inserito al concilio di Nicea, ma al concilio di Costantinopoli non fu aggiunto nel caso dello Spirito Santo, che non è neppure detto espressamente «Dio» nell’articolo del Simbolo che lo riguarda, ampliato rispetto a Nicea. La consustanzialità e la divinità dello Spirito si ricavano facilmente e sono confessate chiaramente da quanto detto nell’articolo, sebbene non siano esplicitamente dichiarate. Perché questa scelta? Una possibile risposta potrebbe esser la seguente: si trattò di un tentativo di recuperare la comunione nella fede con gli pneumatomachi.
Da questa eventualità, nasce tuttavia un’ulteriore domanda, forse ancor più necessaria e «scomoda» della prima: come interpretare questa scelta? Porta con sé, infatti, non pochi rischi di «ambiguità». Non sarebbe, infatti, molto meglio e non dovrebbe esser auspicabile esser «netti» nella condanna dell’eresia? Come interpretare questa volontà di recuperare alla comunione della chiesa chi si fa sostenitore di una dottrina errata? Tale atteggiamento non dovrebbe essere guardato come un segno di «debolezza», in una ricerca del compromesso poco attento alla difesa della verità?
Altra è però la prospettiva con cui forse è possibile guardare questa «operazione», ben diversa da quella suggerita dagli interrogativi sinora espressi: dietro al «gesto» di Costantinopoli può esser presente la volontà di ricercare un consenso, senza tuttavia perdere di vista il desiderio e l’intento di salvaguardare la verità. Forse si tratta proprio della prospettiva delineata da Falque quando ha suggerito di recuperare, sulla scia di quanto operato da Tommaso nella Summa pro gentilibus, la ricerca di un «luogo comune».
Questa ricerca a Nicea non è stata operata! Lo si evince dal fatto che si è fatto di tutto per inserire nel Simbolo di fede espressioni e affermazioni che, in maniera netta, mostrassero l’errore della dottrina ariana, non da ultimo l’anatematismo finale del Simbolo.
Quali le conseguenze della scelta operata al concilio?
Questo apre quindi a una seconda domanda: quali le conseguenze di questa scelta? Ritengo che se ne possano riconoscere guadagni e «perdite» o limiti.
Per quanto riguarda i guadagni, si deve innanzitutto sottolineare ed apprezzare la chiara e decisa affermazione della piena divinità del Figlio, contro ogni subordinazionismo. E non è un guadagno da poco, in quanto in diverse occasioni e da più parti nei giorni del Congresso, nelle relazioni e nei dibattiti, è emerso il pericolo legato alle «gerarchie» che inficiano il riconoscimento della piena e uguale dignità delle persone divine, innanzitutto, e delle creature tra loro.
Ma non sarebbe corretto non riconoscere che tale scelta porta con sé anche limiti e «perdite». Quali? Se ne presentano almeno due. Da una parte, per sottolineare la consustanzialità, sono passate in second’ordine altre categorie teologiche, ugualmente rilevanti ed essenziali per pensare e dire il Figlio di Dio. Mi riferisco, in particolare, a «ordine», «mediazione» (cf. al riguardo lo «scarto» suggerito da Jullien, come ha ricordato Annalisa Caputo nella sua relazione), la “Sophia”. Per quest’ultima, non si può non riconoscere che oggi la riflessione teologica, specie quella femminista, l’ha molto recuperata (cf. la relazione di Milena Mariani), ma dopo Ario fu, forse, molto e ingiustamente trascurata. E questo non sorprenderà, considerando che – com’è noto – il «cavallo di battaglia» di Ario era per l’appunto un testo veterotestamentario in cui si parlava proprio della Sapienza (cf. Prov 8,22).
D’altra parte, rimarcare la contrapposizione tra le parti non fa altro che alimentare una logica di «caccia all’eretico», in base alla quale ciascuno si ritiene sempre nella posizione corretta, ritenendo quella dell’altro erronea, pronto così a guardare – per l’appunto – nell’altro, prima di tutto l’errore.
Questa postura, sempre attenta agli errori e incapace di scorgere l’intenzione buona che forse muove l’altro e le istanze a cui l’altro intende esser fedele, è ovviamente incapace di accogliere le antinomie e il paradosso a cui il mistero cristiano non può e non deve rinunciare. Non intendo ovviamente promuovere un totale relativismo delle posizioni, ma semplicemente ricordare che nessun linguaggio da solo può pretendere di dire il mistero dell’Ineffabile.
Per uno stile del pensare teologico
A quale conclusione intendo giungere sottolineando e richiamando le due domande che si sono appena presentate? Che riflettere sul compito della teologia, in occasione dei 1700 anni da Nicea, ci chiama non solo a guardare ai contenuti, alle categorie, ai concetti, al quadro filosofico del pensare, ma ancor prima allo stile del pensare teologico. Per dirla con la metafora che Annalisa Caputo ci ha consegnato all’inizio del suo intervento, raccogliendola dai testi di Marcel Proust: i concetti sono lenti che aiutano a guardare la realtà; si deve quindi esser ben attenti a non utilizzarne solo alcune lenti, escludendone aprioristicamente altre; inoltre, si deve riscoprire e valorizzare la necessità della pluralità delle lenti, guardandosi da un approccio al dogma che sia semplicemente nella logica del progresso lineare.
In particolare, ciò che intendo rimarcare è l’importanza di superare uno stile del fare teologico in cui si contrappongano le posizioni, senza riuscire a considerare opportunamente ciò che di buono c’è nella posizione dell’altro, in una cultura dell’apprezzamento, come ci è stato suggerito da Rocco Viviano nella sua relazione, vivendo così una certa «simpatia» anche nei confronti degli errori fatti, sia propri che altrui. Ovviamente non per tornare a ripetere gli errori, ma per lasciarsi aiutare nel liberarsi da ogni «arroganza» e «presunzione» nel pensare Dio.
È solo questo stile che apre – per tornare alla metafora ripresa da Proust – alla necessità delle pluralità delle lenti, spesso misconosciuta. Un esempio eclatante è stato offerto da Gianni Criveller nella sua relazione, ricordando che, nel 1704, il Sant’Ufficio proibì l’uso del termine «Grande Padre-Madre», mentre oggi non facciamo fatica a cogliere e apprezzare l’importanza che può portare con sé.
Un esempio di lenti di cui la tradizione patristica si è servita nei suoi primi passi e che poi ha abbandonato e che, forse, sarebbe opportuno riconsiderare (o, almeno, sarebbe utile confrontarsi su questa opportunità, non scartandola per principio) è la dottrina dei due stadi del Logos: prima ἐνδιάθετος e poi προφορικός, prima immanente nella mente del Padre e poi proferito, generato, emesso. Il desiderio di far riferimento a questa dottrina, chiaramente presente negli scritti e nel pensiero dei padri apologisti e poi altrettanto chiaramente definitivamente accantonata nella riflessione teologica successiva, nasce qui per due ragioni.
Anzitutto, per lasciare spazio all’interrogativo se una certa ripresa di questa dottrina, pur non nascondendo la problematicità che essa porta con sé, non possa ancor oggi dire qualcosa alla riflessione cristologica e trinitaria in merito a quella dinamica trinitaria tanto evocata da Leonardo Paris trattando della libertà. Ma anche un’altra ragione mi porta a consegnarla all’attenzione del lettore: per riconoscere, con gratitudine, che la ricchezza del Congresso non sta solo nelle relazioni e nel dibattito in aula, ma anche nel confronto che accompagna tutto il tempo della permanenza insieme nei giorni del Congresso, «in quanto l’idea di tornare a considerare tale dottrina è scaturita proprio da un confronto vissuto nel tempo «libero», al di fuori di quello riservato alle relazioni e ai relativi dibattiti».
Per una conclusione aperta
Nel concludere queste note, mi piace far presente che i lavori congressuali hanno ovviamente mostrato come ben più ampia dovrebbe essere la riflessione di chi intende «pensare il Figlio di Dio» oggi, e tante sono le tematiche che dovrebbero esser affrontate. Mi limito a richiamarne una, quella della «traduzione». Ci è stata suggerita da Annalisa Caputo che, con la sua relazione, ci ha proposto un percorso lasciandosi guidare da François Jullien che, a questo tema, ha dedicato ampia attenzione, con risultati intriganti e stimolanti anche per il pensare teologico.
Sperando di non banalizzare la questione, provo a dirlo consegnando ai lettori una semplice domanda, che nasce dal riconoscimento del bisogno di rifigurare i concetti e le categorie che nel fare teologia adoperiamo. In altre parole, ci si dovrebbe chiedere: come «tradurre» oggi l’ὁμοούσιος di Nicea senza abbandonarlo?
Accogliamo questa domanda come invito a proseguire nell’affascinante compito a cui la teologia sempre ci chiama: dire Dio oggi, perché il suo annuncio di salvezza raggiunga ogni uomo e ogni donna.