Un problema di genere nella teologia italiana?

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Sì, nella teologia c’è un problema di genere. Ma se ne parla poco, per lo più in maniera tangenziale. E lo fanno soprattutto, o solo, le donne. Questa solitudine nel tematizzarlo è parte integrante del problema, che ci ostiniamo a non affrontare. A detrimento della teologia in Italia e a danno dell’intelligenza della fede nella vita pubblica del paese.

Ho trascorso solo poco tempo, decenni fa, all’interno di una facoltà teologica italiana per poter scendere in un’analisi interna che abbia un minimo di pertinenza. Ma stando fuori, dall’Italia, dalle sue facoltà di teologia e da altre istituzioni teologiche, quantomeno si intuisce che la teologia delle donne è considerata ancora figlia di un Dio minore – da sopportare, più che da apprezzare.

Quando non se ne può fare a meno, ci si limita alla «quota rosa» in un convegno – in ossequio a un politicamente corretto mandato giù senza neanche troppa convinzione. Almeno così si evitano brutte figure, che rasentano l’inguardabile – come accadde a una rinomata facoltà teologica anni addietro, dove a un convegno sul rapporto uomo-donna c’erano solo relatori maschi (tutti preti, tra l’altro).

Il pensiero organizzativo maschile che concede una relazione a una donna è mortifero: perché, in fin dei conti, non parte dalle sue competenze ma dal suo sesso. Questo forma mentis di chiamata per genere, tra l’altro in ruoli che non disturbino troppo, rende evidente l’esistenza di un problema di genere nella teologia italiana. Sono politiche cosmetiche, che servono a dare una rispolveratina momentanea alla superficie delle cose, senza offrire alcuna soluzione strutturale.

Il dominio della forma mentis maschile nella teologia italiana ha reso giustamente sospettose le teologhe, che probabilmente si sono stufate di stare al gioco di fare della loro carta di identità un cartellone pubblicitario a favore di un’impresa che continua a non prenderle sul serio. Tutte le riserve che hanno a collaborare con una teologia che non è affatto «neutrale» rispetto al genere, dovrebbe dare da pensare a questa teologia e alla sua dominante corporazione maschile. Ma di questo si trova poca traccia in quella stessa teologia.

La teologia dei maschi ha una strana pretesa: quella di pensarsi «neutra» rispetto al genere e, quindi, di poter dire una parola valida per tutti e tutte. Conseguentemente, perché dare ascolto e spazio professionale a una parola che si sa e si confessa parziale, connotata da un corpo che non è quello del maschio «neutralizzato»?

Non avendo mai fatto esperienza del limite, neanche quello del proprio corpo, e della marginalità, la teologia italiana arranca nel trovare parole per un cattolicesimo che non è più il cardine, nemmeno apparente, della società del nostro paese. Questa mancanza di presa diretta con la vita vissuta deriva anche dal fatto che la teologia dei maschi ha sempre parlato dal centro, dal luogo del potere – e mai da quello dell’impotenza e della impossibilità. E da quel luogo continua a parlare, ancorata alla residualità di un potere in dissolvenza nella realtà, ma ancora maestoso nella virtualità che lo tiene in vita a propria giustificazione.

I teologi (maschi) si lamentano di non essere convocati dal dibattito pubblico quali esperti delle cose cattoliche nella città delle donne e degli uomini. Ma poi, quando c’è da prendere posizione pubblica su questioni disputate nella nostra società e nella vita politica, tacciono maestosamente. Se negli ultimi tempi, in merito, vi è stata una parola teologica lo dobbiamo solo ed esclusivamente alle teologhe (donne).

Viene quasi da pensare che sì, nella teologia italiana c’è un problema di genere, ma che questo problema non riguardi le donne teologhe bensì i maschi teologi. Sarebbe ora di affrontarlo – possibilmente insieme, perché da soli noi maschi non riusciamo a saltarne fuori.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 17 febbraio 2024

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